Fausto Narducci, SportWeek 10/10/2015, 10 ottobre 2015
IL SENSO DEL RING
Chiedi cos’è la paura. Chiedilo ai pugili. Cosa c’è, in fondo, di più ancestrale e claustrofobico di un ring per provare la vera essenza del panico e del coraggio? Uno spazio chiuso, recintato, simbolico, quasi rituale, in cui l’uomo (e non solo il pugile) può confrontarsi con se stesso e con gli avversari che la vita gli metterà di fronte. Per avere (e darci) una risposta, il professor Jonathan Gottschall del Washington College è entrato dalla porta principale del terrore mettendosi a combattere in prima persona in una gabbia, la disciplina più estrema e violenta delle arti marziali, conosciute con la popolare sigla Mma (mixed martial arts). Ma in fondo, per sapere cos’è il fenomeno misterioso al centro del suo trattato, il professore avrebbe fatto prima a chiederlo a Diego Velardo, un peso supermedio che poco più di un anno fa la paura l’ha provata davvero, così forte e paralizzante da impedirgli di uscire dallo spogliatoio per sfidare Andrea Di Luisa nel combattimento tricolore di Viterbo. Il romano di Ciampino, a nostra memoria, è stato il primo pugile a poter raccontare in presa diretta l’attacco di panico che, più frequentemente di quanto immaginiamo, può assalire un pugile prima di salire sul ring. Quella sera a Viterbo, mentre il rivale lo aspettava sul quadrato, Velardo è stato colpito da un attacco d’ansia e si è chiuso nel bagno dal quale non sono riusciti a farlo uscire neanche le preghiere del navigatissimo manager Cherchi. «Sono arrivato anche in Nazionale, non sono un vigliacco, ma quel match era troppo per me: non ero preparato mentalmente», spiegò il giorno dopo alla Gazzetta il ventinovenne laziale che, cinque mesi dopo, ha trovato la forza per andare a combattere, vincendo, a Santo Domingo.
La paura (propria) potrebbe raccontarcela Roberto Manos de Piedra Duran, immortalato nel film Hands of Stone in uscita in Italia nel prossimo febbraio, che nel 1980, a New Orleans, all’apice di una carriera da leggenda, ebbe la spudoratezza di chiudere all’ottavo round il Mondiale dei welter Wbc con il grande Ray Sugar Leonard con il famigerato no mas. La paura (degli avversari) invece potrebbe spiegarcela Mike Tyson, che spesso sfidò rivali paralizzati dal timore della sua fama di picchiatore e sono caduti al tappeto al primo pugno.
SOFFRI COME UN DANNATO
Ma sono corretti i due accostamenti intorno a cui girano le riflessioni del professore americano: ring-paura e sopravvivenza-annientamento? È d’accordo l’italoamericano Paulie Malignaggi, nuovo beniamino di casa nostra, che ha conquistato due titoli mondiali (superleggeri Ibf e welter Wba) da statunitense. «A ogni pugno che prendo quando salgo sul ring, vorrei scendere e tornare a casa», ci ha raccontato alla vigilia dell’esordio vincente sui ring italiani dello scorso 26 settembre. «Ma noi non siamo calciatori che possiamo chiedere di essere sostituiti: siamo lì con l’avversario e l’arbitro che potrebbe anche pagare il biglietto e mettersi da parte perché non serve a niente quando si fa veramente a pugni. E come si fa a vincere la paura per andare avanti? Non col talento ma con la cattiveria. Sul ring, anche contro l’avversario più facile, ti senti di morire ma devi continuare a soffrire come un dannato: non credete a chi dice che la boxe è solo arte e classe. La boxe è lotta per la sopravvivenza, un pugile combatte e accetta il dolore perché vuole superare gli ostacoli della vita».
COME ROCKY BALBOA
Ma la risposta alla prima domanda chiave del libro (Perché gli uomini combattono?) ce la dà Gianfranco Rosi, l’ex campione mondiale dei superwelter che in Italia detiene ancora tre record: longevità agonistica (fino a 48 anni), numero di mondiali disputati (18) e Mondiale conquistato in America (come solo Nino Benvenuti e Primo Carnera). Il perugino, oggi a 58 anni tecnico delle Nazionali giovanili, prova a spiegare perché l’uomo combatte. «Perché vuole annientare e distruggere il suo avversario, ma solo pugilisticamente. E anche per masochismo: se io non lo fossi stato un po’, soldi a parte, non avrei combattuto fino a 48 anni quando i pugni fanno male davvero. Nell’ultimo match sul ring di San Marino ho rimediato un k.o. che poteva costarmi molto di più». Con lui ci avviciniamo veramente all’essenza del pugile descritto dal professor Gottschall: «Avevo le stesse armi tecniche di tanti altri, ma dopo il k.o. con Honeyghan nell’85 a Perugia ho capito che dovevo fare come Rocky Balboa: il giorno successivo sono andato a correre come un ossesso per 15 km e poi mi sono messo a pestare a passo spedito i campi senza fermarmi. Visto che il ring è sofferenza, io ho voluto provarla già in preparazione per arrivare al match pronto al dolore. Se la boxe è superamento dei limiti, io sul ring sono andato oltre: alla fine di ogni match ero allo stremo come i miei avversari. Di pugili però ne ho odiato solo uno: il francese Jacquot. Nel 1990 sul ring di Marsala fu così scorretto che
ho dovuto dargli una lezione».
LA BOXE È UN’ARTE
Patrizio Oliva, olimpionico e campione mondiale dei superleggeri Wba, è la dimostrazione vivente che la boxe può lasciarti integro mentalmente e fisicamente. Allenatore, attore teatrale, cantante, giudice e commentatore televisivo di Sky, ha appena dato alle stampe un libro biografico: «Anche per me la boxe era riscatto sociale, ma io combattevo nel ricordo di mio fratello morto e avevo un’arma in più. No, non ho mai visto la boxe come violenza o distruzione dell’avversario: per me è stata sempre e solo un’arte, la Noble Art come le è sempre stato riconosciuto. Altro che odio del rivale: all’Olimpiade di Mosca 1980, dove vinsi la medaglia d’oro, al primo turno non infierii su un avversario africano che non era decisamente alla mia altezza. Però ai ragazzi che alleno ancora oggi dico sempre che “quando vai giù devi rialzarti prima come uomo e poi come campione”. Nella boxe trovi la vera essenza dell’uomo e la pienezza della lotta regolamentata, quella in cui non si può barare».
VENT’ANNI DI PRIGIONE
La boxe vista come rispetto dell’avversario anche per Alessandro Duran, ex campione europeo e Wbu dei welter, pure lui commentatore televisivo per Deejay Tv e SportItalia: «Per me questo sport è solo agonismo, ma mi è rimasta impressa una frase di mio padre Carlos, un grande del ring: “Per la boxe sono stato 20 anni in galera”. Voleva dire che il pugilato è immane sacrificio, che ti priva di tante cose. Poi però diventa una droga perché solo in pochissimi sono riusciti a ritirarsi al momento giusto come me e come Marvin Hagler. Io sono stato ai vertici italiani per almeno 7/8 anni però sul ring ho sofferto molto e sono stato atterrato più volte, al punto che mia madre Augusta, dopo un match particolarmente cruento con Antonino Marino a Marsala, disse un’altra frase famosa: “Ma chi te lo fa fare”. Oggi posso dire che il pugile combatte per il rispetto dell’avversario ma soprattutto di se stesso, dei suoi sogni e delle sue ambizioni». Il ferrarese, come tutti i pugili della boxe, non ha molta considerazione delle arti marziali, care al professor Gottschall: «Posso dire che le rispetto, considerandole però un’estremizzazione e un’esasperazione dei combattimenti. Non per niente i più grandi campioni dello sport sono veri pugili: Muhammad Ali, Mike Tyson e Floyd Mayweather».
MAI CON UN AMICO
Non è solo un modo di dire: molti pugili hanno alle spalle un’infanzia difficile. Lo sa Giacobbe Fragomeni, milanese che nel 2008 è stato l’ultimo campione mondiale assoluto italiano nei massimi leggeri e oggi, all’età di 46 anni, non ha ancora appeso i guantoni al chiodo: «Quando sali sul ring non provi proprio paura, ma tensione nervosa sì. Una scarica di adrenalina che fuori dal ring puoi avere solo con il paracadute o con cose simili. Io però divento pugile solo nel momento in cui metto i guantoni e per partire devo sentire i colpi dell’avversario. Se non sento il dolore non entro nel match: mai avuta però la tentazione di scendere, neanche nei momenti più duri, che sono stati tanti. Il piacere non te lo dà far male all’avversario ma portare bene i colpi. Per questo non combatterò mai per il Tricolore perché dovrei far male a un amico. Lasciate stare le americanate rituali delle conferenze stampa. Per noi pugili la rivalità finisce al gong finale: poi ci si abbraccia e si va a cena tutti insieme».