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 2015  ottobre 10 Sabato calendario

RUBO PERCHÉ TUTTO È GIÀ STATO FATTO


[Damien Hirst]

Nel periodo che lui stesso definisce i suoi «anni di gloria», c’era una gag che Damien Hirst amava ripetere. Tirava fuori il prepuzio attraverso un buco nella tasca, quindi, simulando allarme, esclamava: «E questo cos’è?» . «La gente mi diceva: “Hai del chewing gum sui pantaloni”. Poi lo toccavano, ed era tutto un: “Ma che cazzo!”», dice oggi con un ghigno. Era uno scherzo che faceva ai compagni di bevute e a perfetti sconosciuti. I suoi bersagli preferiti erano i palloni gonfiati del mondo dell’arte.
Hirst quest’estate ha compiuto cinquant’anni e ormai sembra quasi del tutto addomesticato. Ha ancora la camminata spavalda, il giubbotto di pelle, un guardaroba a base di magliette da rockstar e il cellulare pieno di video aberranti che colleziona per divertimento e spesso condivide. Però adesso fa anche yoga tre volte la settimana e ha smesso di esibire parti di genitali quasi nove anni fa, quando ha chiuso con l’alcol e le droghe.
Il più famoso artista britannico vivente continua a suscitare polemiche, anche se è più facile che sia accusato dei fallimenti dell’arte contemporanea che lodato come un patrimonio nazionale. Le vestali della “vera arte” e gli intellettuali che difendono l’avanguardia fanno spesso comunella sotto lo stesso piumone, sconvolti non tanto dai dipinti e dalle sculture che Hirst sforna a un ritmo straordinario, quanto dal suo rifiuto di accettare che sia giunto il momento di tenere le sue creazioni, proprio come il suo pene, decorosamente al riparo dagli sguardi altrui. Ma vale comunque la pena di seguire quello che fa, perché Hirst è un agente di cambiamento. E la sua ultima impresa potrebbe dimostrarsi anche la più sorprendente da lui mai tentata.
Ad aprile, il pavimento del suo ufficio presso la sede della Science Ltd, l’azienda da lui fondata, era disseminato di modellini di una galleria, ciascuno corredato di minuscole riproduzioni d’arte: opere di Francis Bacon, Andy Warhol, Banksy. Sembravano i giocattoli di un bambino ultraricco, e in un certo senso lo erano. Hirst stava pianificando una serie di mostre alla Newport Street Gallery, nella zona sud di Londra. Per costruire la struttura ha speso 25 milioni di sterline e la userà per esporre come curatore opere provenienti dalla sua collezione privata. Per la mostra che inaugura in questi giorni lo spazio ha scelto il pittore astratto britannico John Hoyland, un talento prodigioso che non ha mai ottenuto i riconoscimenti che si aspettava o meritava. Fu proprio Hoyland, nel 1997, a lanciare una protesta contro i cosiddetti Young British Artist e Hirst in particolare, attaccando la Royal Academy che aveva appena annunciato Sensation, la collettiva di giovani composta da opere della collezione di Charles Saatchi.
Oggi Hirst si trova in una fase scomoda della sua carriera, completamente integrato in quello stesso establishment che un tempo pungolava. Basandosi sui suoi trascorsi, ci si sarebbero potuti aspettare tentativi ancora più estremi di scioccare. Invece, fondando la Newport Street, Hirst sta facendo una mossa che più probabilmente riuscirà a puntellare il suo prestigio e preservare il suo patrimonio artistico. Scegliendo di promuovere il suo punto di vista sull’arte contemporanea con lo strumento di una grande galleria aperta al pubblico, mette alla prova la propria capacità di plasmare i gusti e i mercati, nonché quella di esercitare il controllo. Le doti di curatore sono sempre state il suo talento principale e più costante. Le mostre che ha allestito all’inizio della carriera riuscivano a generare un entusiasmo al quale non sempre ha corrisposto il plauso della critica. Nel 1988, Hirst reimpostò il corso dell’arte britannica con la mostra Freeze, in un capannone dismesso dell’autorità portuale nei docks di Londra. L’esposizione contribuì a lanciare i suoi amici e contemporanei, tra cui Mat Collishaw, Angus Fairhurst, Gary Hume, Michael Landy, Sarah Lucas e Fiona Rae. Hirst oggi, a più di un quarto di secolo di distanza, ridiventa curatore.
Nato a Bristol, Hirst è cresciuto a Leeds in un ambiente domestico relativamente agiato, fino a quando il matrimonio della madre con il suo patrigno non è naufragato. All’epoca, lui aveva dodici anni e quello sconvolgimento della vita famigliare innescò una breve carriera da ladruncolo. «Una volta, a scuola, arrivando alla lezione di educazione artistica, ho trovato in aula la polizia che prendeva le impronte digitali dalle finestre, perché la notte prima ero entrato scassinando la porta e avevo rubato della roba – carta, penne, matite – e mi ricordo d’aver pensato: “Cazzo, mi sono scordato di mettere i guanti”». Di lì a poco si trasferì a Londra, puntando su studi universitari artistici, e si impelagò con un amico in una faccenda di assegni falsi. Qualche mese dopo iniziò a frequentare la Goldsmiths University.
Già allora, era uno che pensava in grande. Per esibire i suoi lavori, preferiva alle gallerie sovraffollate gli spazi industriali. I musei, pensava, erano interessati solo agli artisti morti. «Non ha mai aspettato il permesso delle istituzioni», dice Iwona Blazwick, direttrice della Whitechapel Gallery, che nel 1991 organizzò la prima mostra di Hirst all’Institute of Contemporary Arts. Alcuni dei suoi trucchi Hirst li aveva imparati da una persona che aveva creduto in lui all’inizio, Charles Saatchi. Fu Saatchi a procurare a Hirst le 50mila sterline per fabbricare il suo primo squalo sotto formaldeide, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, e per circa dieci anni Hirst e Saatchi ebbero un rapporto simbiotico, lanciando l’uno la reputazione dell’altro. Seguì una rottura che non si è mai del tutto ricucita. Hirst non vuole entrare nei dettagli, ma dice che col tempo i loro rapporti sono migliorati. Saatchi ha accettato di parlare con James Fox, lo scrittore che sta aiutando Hirst con la sua autobiografia.
«Ho sempre desiderato una galleria come la prima Saatchi in Boundary Road», dice Hirst. Con i suoi 3.438 metri quadrati, da cui gli architetti Caruso St John hanno ricavato sei spazi espositivi, uffici, magazzini, un negozio e un ristorante, la Newport Street Gallery è più grande della Saatchi di Boundary Road.
A Chalford Place, la casa in cui Hirst vive ogni tanto, quando lavora nel più vecchio e più piccolo dei suoi due complessi-studio nel Gloucestershire, c’è una cella frigorifera. In quel contesto, la cella ha un aspetto sinistro: è aperta e vuota, ma abbastanza grande da poter ospitare dei cadaveri. Chalford Place è una delle creazioni più affascinanti del suo proprietario. Nascosta e ancora incompiuta, ricorda un’avvolgente Disneyland della morte.
Nelle opere di Damien Hirst la morte è sempre stata uno dei temi centrali, ma è difficile stabilire se l’artista si relazioni davvero con quell’idea o ne affievolisca la potenza trasformandola in un leitmotiv. Nella sua celebre opera del 1990 A Thousand Years un nugolo di mosche si riproduce dentro una delle metà di una grande teca di vetro; quando gli insetti muoiono, i loro corpi vanno accumulandosi lungo i bordi interni dell’installazione. E quando nel 2007 è apparso sul mercato For the Love of God, il suo teschio di platino tempestato di diamanti e provvisto di denti umani, ha tolto il fiato non tanto come memento mori, quanto per il prezzo: si è parlato di 70 milioni di euro.
Inizialmente, Hirst era contrario all’idea di scrivere un’autobiografia perché la considerava un’attività da fine vita. Ora si è imbarcato nell’impresa, ma il libro non verrà pubblicato a breve. Ha troppa carne al fuoco – oltre alla galleria di Newport Street, ci sono i complicati progetti per i nuovi lavori che vedranno la luce nel 2017 – e a rallentare i tentativi di ricostruzione del suo passato intervengono le sue lacune di memoria come testimone della propria vita. Durante gli anni del suo boom, verso la fine dei Novanta e nel decennio successivo, Hirst è vissuto in costante movimento. Ha ampliato la sua rete di studi, fondato una casa editrice, inaugurato negozi, acquistato proprietà nel Regno Unito, in Messico e in Thailandia (tra cui un’imponente dimora nel Gloucestershire), trovando nel frattempo il tempo per darsi ai bagordi. Comportamenti così febbrili danno l’idea di una persona affetta da una paura viscerale della fine. Fabbricare teschi e fare a pezzi vacche morte tiene la mortalità a una certa distanza. «Della morte io mi occupo nell’arte, non nella vita», ha dichiarato. «Perché nell’arte tutto è celebrazione. Ma se davvero ti metti a pensare alla morte, resti bloccato». Aggiunge: «In quei vent’anni, non ho fatto altro che festeggiare. Mi sentivo immortale».
Poi, a poco a poco, quella sensazione è venuta meno. L’edonista che Rae ricorda dai tempi della Goldsmiths – «spiritosissimo, sempre pronto a divertirsi e dare scandalo, ti chiamava da dentro un cassonetto dicendoti di raggiungerlo per un drink: “Sono in mezzo alla spazzatura, vieni a berti una cosa”» – si è progressivamente fatto più triste. Malgrado varie false partenze (e senza l’aiuto di un programma da Alcolisti Anonimi ) alla fine, nel 2006, Hirst si è ripulito. La relazione con Maia Norman, la madre dei suoi tre figli, non ha retto la trasformazione. Molti ex tossici devono fronteggiare il difficile compito di prendersi una maggiore responsabilità della propria vita. Hirst si è ritrovato al vertice di un impero che dava lavoro a 120, 160 persone, più varie altre attività che in un modo o nell’altro dipendevano dalla continuità della sua intensa produzione.
La maggior parte dei suoi dipendenti ora lavora tra le immacolate pareti di un vasto complesso a Dudbridge, nel Gloucestershire. Hirst dice di essersi ispirato alla Factory di Andy Warhol, ma se lo studio di Warhol era metà catena di montaggio e metà salotto, lo studio principale di Hirst è una fabbrica a tutti gli effetti. Lui ci va per controllare come procedono le cose. Il turnover di dipendenti è basso, molti lavorano con lui da anni.
Hirst ha però anche fatto un tentativo poco convinto di procurarsi la libertà. Nel 2008 ha dichiarato che avrebbe smesso con le farfalle e gli spin paintings, i dipinti circolari realizzati su superfici rotanti. Questo subito prima di scavalcare le sue gallerie e mettere in vendita 223 nuove opere in un’asta alla Sotheby’s di Old Bond Street. L’evento, durato due giorni, gli ha procurato titoloni sui giornali e 111 milioni di sterline. All’epoca sosteneva di voler democratizzare la vendita delle opere d’arte, ma l’impulso più forte all’operazione sembrava il desiderio di fare nuovamente sensazione e procurarsi con la forza una maggiore indipendenza. L’asta è riuscita nel primo intento, ma nemmeno quei corposi ricavi sono riusciti a comprargli la libertà. Mentre il banditore batteva il martelletto, la Lehman Brothers stava crollando, e benché la crisi globale abbia impiegato un po’ più di tempo a raggiungere i ricchi, i collezionisti, in un mercato inondato di Hirst, sono diventati più prudenti. I prezzi delle sue opere sono tornati ai livelli del 2005/2006. Così Hirst ha ingranato le marce alte, costruendo il complesso di Dudbridge e continuando a sfornare le linee più popolari. L’ultima mostra di sue nuove opere, alla galleria White Cube di Londra, nel 2012, è stata massacrata dalla critica: conteneva dipinti che attingevano a piene mani dai pittori che Hirst ammira. Hirst lo spiega: «Ricordo d’aver visto una testa di toro fatta da Picasso col manubrio e il sellino di una bicicletta, e di aver pensato: “Cazzo, è geniale, che meraviglia essere così originali. Ecco cosa devi fare, se sei un artista”. Poi, una volta arrivato alla Goldsmiths, mi sono detto solo: “Ruba tutto”. Perché tutto era già stato fatto».
I dipinti di Hoyland in mostra alla Newport Street Gallery sono indubbiamente splendidi e, secondo Hirst, «anche convenienti, per quello che valgono». È probabile che la mostra ravviverà l’interesse per l’artista, facendo lievitare il valore della collezione. Insomma, sta riscoprendo il potere del curatore. Pur essendo andato a cozzare contro i limiti del controllo che può esercitare sulla propria realtà, assapora la possibilità di controllare quella degli altri. Cosa che, in definitiva, potrebbe rivelarsi il suo più grande talento.
(Guardian News and Media ltd 2015.Trad. di Matteo Colombo)