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 2015  ottobre 10 Sabato calendario

SONO PIÙ FORTE CHE MAI


[Roberta Vinci]

Da più di un’ora e mezza un nutrito gruppo di persone la sta aspettando quietamente nei salottini della nuova sede milanese della Nike affacciata sulla frenesia serale di Piazza Gae Aulenti. Ci sono anziane signore, giovani uomini e adolescenti. Sanno che è ai piani alti dell’edificio, e vogliono avvicinare per un autografo Roberta Vinci, l’eroina tricolore di questo autunno 2015, arrivata a New York come tennista n. 43 del ranking WTA e rinata con una sola partita nei panni della “donna che ha fatto l’impresa”: battere l’11 settembre scorso Serena Williams nella semifinale degli Us Open. «È così da quando sono tornata», sorride lei raggiante. «Prima dell’intervista vorrei scendere a salutare, così possono finalmente andarsene a casa...».
Ricompare otto minuti dopo. Da vicino è ancora più bella e più minuta di come appare in campo: sarà il nero della felpa e di quei leggings aderentissimi che le seguono il disegno perfetto delle gambe. Gli occhi invece sembrano più grandi: un tratto deciso di matita nera ne accentua il verde, mentre la brillantezza che rimandano è figlia dell’euforia.
«Mi fermano per strada per dirmi: “Mi hai fatto piangere”, oppure “Dopo quel match ho iscritto mio figlio a un corso di tennis”. A New York non avevo la giusta percezione della portata di quella vittoria per gli italiani. Ho cominciato a capire scendendo dall’aereo a Roma: decine di fotografi, di tifosi in attesa, una festa organizzata nella saletta dell’Alitalia, il sindaco di Palermo che mi accoglie – e mi spinge il carrello delle valigie! – e racconta di maxischermi per la finale in piazza a Taranto. E poi il telefono e i social network inondati di messaggi. Dall’agitazione non ho dormito per notti intere».

Dopo qualche mese in affanno, Roberta Vinci è tornata?
«Con la pioggia di punti che ho preso a New York posso essere testa di serie nei tornei, posso fare gare più stimolanti. Non che mi aspetti di vincere sempre, ma in campo cambierà molto».

Cosa le è successo quel giorno? Era andata da uno psicologo?
«In passato ci ho provato, ma non hanno mai fatto la differenza. Io vivo per il tennis e l’unico che mi conosce alla perfezione e mi può aiutare è Francesco Cinà, il mio allenatore. È con lui che ho lavorato al mio nuovo equilibrio. Ho un carattere difficile: sono irascibile, lunatica, permalosissima, dura, orgogliosa e testarda. E non di quelle che devono riuscire a tutti i costi, ma di quelle che poi si esasperano. Adesso questi aspetti sto cercando di smussarli».

Ma come ha fatto, quella che i giornali Usa hanno definito una underdog, insomma una brava ma non una bomba, a infrangere, in casa e davanti al suo pubblico, l’ambizione di Serena Williams al Grande Slam, la vittoria nei quattro tornei principali nello stesso anno?
«Io credo nel destino. Doveva succedere. In passato ho avuto ottimi risultati, non sono entrata nella top ten però ci sono andata vicino (è arrivata 11a, ndr), ma quella partita mi ha dato una soddisfazione maggiore forse proprio per quello. Se fossi passata dai primi dieci del mondo non avrei avuto uno shock del genere. Questo entrerà nella storia. Anche a distanza di anni, se ne ricorderanno tutti».

La testa ha fatto la differenza?
«In campo è quella che orchestra tutto: se sei tranquilla e positiva, se non ti lasci abbattere – perché in un match può succedere di tutto – ma resti concentrata, puoi tutto. All’inizio del torneo avevo paura, mi dicevo: “Forse sono arrivata, forse devo limitarmi al doppio”. E invece Francesco mi ha aiutata ad allenarmi in modo costante, meno a lungo, ma con la giusta concentrazione. E il livello è salito».

Gianni Clerici l’ha definita «una tennista dalla ritardata autostima».
«Oggi sono più matura, prendo meglio le sconfitte. Prima mi incupivo per giorni, adesso riesco a dirmi: “Gioca, divertiti, non soffrire per uno sport che ti ha dato tanto”».

Lei parla spesso con se stessa? Cosa si è detta, per esempio, in una pausa della semifinale, nascosta dietro l’asciugamano?
«Nello stadio c’era una confusione inaudita: la musica, la gente che si alzava di continuo, gli schiamazzi, le pubblicità sui maxischermi. Prima di battere sul 5 a 4 mi sono messa l’asciugamano sul viso e mi sono fatta un discorsetto. Proprio ad alta voce, chi era vicino poteva sentirmi: “Robé, sei 5 a 4 al terzo, sul centrale, davanti a 22mila persone, e tu al servizio. Te la fai sotto, lo so. E te la farai ancora sotto al 100 per cento. Metti che perdi questo game e vai pari: non ti abbattere, non sarà tutto perduto. Se anche vai 5 pari non mollare. Abbi fede, Robé, sei in semifinale, e non è detto che ti ricapiti. Vai al servizio, con personalità”. Quindi sono andata a battere, e ho fatto il primo punto. Sul secondo mi sono inventata un movimento a due mani sotto rete, una demi-volé, veramente una cosa che... (alza gli occhi al cielo, ndr) ...che grazie, Gesù Cristo, che me l’hai fatta entrare, perché se la ripetessi altre 150mila volte non ci riuscirei. Andavo a battere e tremavo, ma poi ho capito che Serena stava cominciando a sentirsi insicura. E da lì ho preso forza».

Williams non è abituata a perdere.
«Quella è stata la sua terza sconfitta in un anno, la prima in uno Slam. Ha perso una volta contro Belinda Bencic a Toronto, ma non si può paragonare uno Slam con un torneo come Toronto. I grandissimi a volte negli appuntamenti minori non si impegnano, ci vanno per allenarsi o per i soldi, ma in uno Slam danno l’anima. Non come “noi” che la diamo sempre».
“Noi” vuol dire gli sportivi che meno dotati fisicamente devono combattere di più? Lei si è conquistata con fatica molti allori già da quando era “Robertina”. Si dice che 6 anni suo padre Angelo, giocatore amatoriale, la portasse con sé sui campi insieme a suo fratello Francesco...
«Papà giocava con un suo amico e lasciava noi due a tirare contro il muro o tra di noi. Finita la partita ci chiamava e ci faceva palleggiare con lui. Io colpivo, mi piaceva... è nata così».

È suo padre, commercialista oggi in pensione, ad amministrare i suoi cachet?
«Non sono una che sperpera in shopping. Preferisco gli immobili, con il montepremi dell’Us Open vorrei comprare una casa all’estero, a Miami, o a New York».

Il rapporto con i suoi genitori, anche oggi che ha 32 anni, sembra dolce e fortissimo.
«Sono ancora capaci di mettermi in soggezione. Fino a poco tempo fa chiedevo ai miei di seguire le partite sul livescore, perché anche solo l’idea che mi guardassero in tv mi metteva in imbarazzo. Adesso l’ho un po’ superato, ma preferisco sempre non averli tra il pubblico».

Vive lontano da loro dal 1996, da quando, a 13 anni, si è trasferita a Roma per essere “coltivata” dalla Federazione.
«Finché abitavo a Taranto era una follia conciliare la scuola, gli allenamenti e i tornei. Mio padre veniva a prendermi in auto per accompagnarmi sui campi. Nel tragitto mangiavo di corsa il panino preparato da mia madre. Giocavo a tennis, ritornavo a casa. Lì mi aspettavano i compiti: facevo le espressioni, non mi riuscivano, mia madre le aveva già fatte, controllavamo dove avevo sbagliato. Un massacro per tutta la famiglia».

A Roma è cambiato tutto?
«La scuola era privata, potevo partire per i tornei e assentarmi quando volevo. Ma è stata dura lasciare la famiglia. Per due anni eravamo in quattro, tutte ragazze, e dormivamo in hotel. Poi sono arrivate altre atlete e anche i maschi, e ci siamo tutti spostati a vivere nel centro sportivo dell’Acqua Acetosa (quello del Coni, ndr)».

È stato più divertente?
«C’era anche Flavia Pennetta tra i nuovi arrivi, con lei ho vissuto a lungo. Qualsiasi problema avessi, per me c’era lei, e qualsiasi problema avesse lei c’ero io. Il rapporto che più tardi ho avuto con Sara Errani (la tennista con cui ha vinto il vincibile in doppio, in un sodalizio fortissimo interrottosi via comunicato stampa la scorsa primavera, ndr) l’ho avuto prima con Flavia. Eravamo compagne in campo ma anche di viaggio, quando tornavamo a casa in Puglia (Pennetta è di Brindisi, ndr) partivamo insieme, io la coprivo per certe cose e lei copriva me in altre...».

Per esempio?
«Se parlo Flavia mi uccide, peggio ancora adesso che sta per sposarsi. Ma c’è un aneddoto che può dire molto di quegli anni. Dopo cena stavamo sempre tutti insieme a giocare a carte, ai videogiochi, a chiacchierare. Una sera la cerco, le telefono, ma non si trova. L’Acqua Acetosa è fatta di foresterie disseminate tra campi di rugby, di hockey, e così via... Dopo tante chiamate, alle 11 risponde: “Sono nel campo di rugby”. Flavia è sempre stata una testa calda, io ero quella che doveva placarla: alla fine arrivo, e la trovo sdraiata per terra, in mutandine e reggiseno, con le braccia larghe, sotto la pioggia scrosciante. “Cosa stai facendo?”, le chiedo. E lei: “Voglio la febbre, voglio la febbre, voglio la febbre”».

Un desiderio frutto dell’esasperazione?
«Allenamento mattina-e-sera, niente vita privata, solo tennis-tennis-tennis. Dopo il miracolo di aver giocato contro di lei una finale dello Slam, penso spesso ai quattro anni che abbiamo vissuto avvicinando i letti la sera, come fanno le adolescenti. L’abbraccio della finale è durato 40 secondi perché è stato un ritrovarsi, con lei che mi diceva: “Robé, guarda dove siamo arrivate insieme”, e io: “Goditela. E Penne, sono stanchissima, ho dolori dappertutto”. Poi mi ha buttato lì quel “Mi ritiro, non ce la faccio più...”».

Scambi di confidenze, insomma.
«Prima della premiazione le ho ricordato perfino di togliersi il bite, lei lo usa in partita per un problema fisico. E infatti l’ho rivista poi nei filmati sfilarsi di bocca qualcosa che sembra una dentiera, nascondendola in tasca...».

Una partita può cambiare la vita? Quante volte si è rivista nei video dell’incontro? Compreso quell’«adesso applaudite me, cazzo», rivolto agli spettatori e al tifo?
«La mia vita vorrei non cambiasse. Però quelle immagini le ho riviste tante volte. I match-point, gli highlights... mi viene ancora la pelle d’oca».

Secondo lei adesso Serena Williams la odia?
«In realtà non la conosco. Ci salutiamo, ma niente più di un “ciao-ciao”. Non ho mai avuto modo di parlare con lei più di 10 minuti, non so com’è fatta, né cosa pensa».

Ma al suo posto lei odierebbe?
(Vinci, che di solito parla di getto, con una franchezza disarmante, prima di rispondere si ferma per un sospiro). «Mah... forse sì. Forse sì. Penserei che mi ha rovinato la festa. Lei si è tolta tante soddisfazioni, ha guadagnato tanto. Ma stavolta puntava a quell’obiettivo, a entrare nella storia. Spero che non mi odi troppo».