Andrea Emmanuele Cappelli, Libero 11/10/2015, 11 ottobre 2015
«I MIEI LIBRI NASCONO DA DOLORE E SOLITUDINE»
[Antonio Moresco] –
Antonio Moresco è uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei. La sua opera ruota intorno alla «Trilogia dell’increato» (Gli esordi, Canti del caos, Gli increati, pubblicati da Mondadori): dopo oltre 20 anni di continui rifiuti da parte delle principali case editrici italiane («Mi sentivo come un sepolto vivo», confesserà anni dopo in Lettere a nessuno), oggi le sue opere hanno suscitato l’attenzione nazionale e internazionale. I prossimi 15 e 16 ottobre, non a caso, la Sorbona di Parigi ha indetto un convegno incentrato sulla sua attività di scrittore («Antonio Moresco, une créature visionnaire»). Dopo l’uscita de Gli increati (marzo 2015) ha dichiarato che il suo desiderio è quello di scomparire, di «tornare sottoterra». È la fine dello scrittore Antonio Moresco? «Non sto tirando i remi in barca. È solo che, dopo il giro di boa e il salto di dimensioni e di piani de Gli increati, non posso andare avanti come se niente fosse. Adesso sono anch’io dentro quel magnete e anche il resto della mia vita è da conquistare, inventare e increare. Non posso sapere adesso cosa succederà». Cosa vorrebbe fare negli anni che la separano dalla morte? «Vorrei, nella solitudine, conquistare un’ulteriore libertà, vorrei fare come quei pittori e quei musicisti del passato che, dopo avere messo al mondo il grosso della loro opera, hanno strappato ancora qualcosa di mai visto prima alla prigione e al buio della vita e del mondo, per inquietudine, per lacerazione, per ardimento personale e segreto: pittura che non riesce più a stare dentro se stessa, musica da camera estrema. Ecco, questo è ciò che penso in questo momento e che mi sento di dire. E pazienza se qualcuno si scandalizzerà e si straccerà le vesti. Che se le stracci pure!». Nel 2013 ha scritto di getto un romanzo breve intitolato La lucina che ha commosso molti lettori. Secondo lei perché ha catturato i cuori? «Forse perché tocca qualcosa di molto profondo che c’è dentro di noi, perché tutti noi ci portiamo dentro il bambino che eravamo e che abbiamo ammazzato per poter far vivere l’adulto, perché il mondo ci ha detto che solo così avremmo potuto crescere e diventare adulti. Questo piccolo romanzo racconta il viaggio estremo che occorre fare per poter incontrare quel bambino e poterci ricongiungere con lui». Tutta la sua opera è permeata da un grande senso di solitudine e sofferenza. Van Gogh diceva: «Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale, ma il dolore vero». Anche lei crede che dolore e solitudine siano il cuore profondo dell’esistenza? «Mi riconosco molto nelle parole di Van Gogh, che mi è stato vicino durante i miei lunghi anni di solitudine e rigetto da parte dell’editoria e mi ha dato la forza e la luce per non arrendermi. Mi viene da confrontare queste parole con le convinzioni tipiche di questa epoca e frutto della sua visione superficiale e terminale, e cioè che il dolore è una cosa da evitare e da eliminare, che il dolore è sterile, che quello che conta è vivere a lungo e senza pensieri, tirare a campare. Invece a volte è proprio lì che dobbiamo scendere per incontrare il cuore del mondo e per incontrare noi stessi». Lei è uno dei pochi che porta avanti un’idea di letteratura svincolata da logiche di mercato, rifiutando l’idea di target e di genere letterario. Crede che il suo modo di agire la ripagherà? «Non lo so e non è questa la motivazione del mio agire. Faccio quello che sento di dover fare e che non posso non fare. Non per eroismo, ma perché sono una persona che arde. L’unica cosa che desidererei, ben più del riconoscimento di quanto sto facendo e cose simili, è di arrivare con la mia fiamma a quella che c’è anche al centro delle altre vite e delle vite di quelli che mi leggono e leggeranno, per ardere insieme in una sola fiamma. È questo il sogno profondo della letteratura». All’interno dei suoi libri vengono spesso rappresentate masse di persone (vive e morte) che compiono lunghe migrazioni, alla ricerca di un loro posto nel mondo. Cosa pensa dell’attuale fenomeno dei migranti? «Durante un lungo periodo della mia vita sono stato anch’io uno che ha dovuto vivere come un vagabondo e che ha conosciuto la povertà e il bisogno, perciò non ho la puzza sotto il naso e capisco le tremende ragioni della disperazione, della miseria e della fame. Anche la mia famiglia ha conosciuto miseria, dolore e diaspore, come racconto in un libro intitolato I randagi. E per di più in questi anni, dopo una serie di lunghi cammini a piedi attraverso l’Italia e l’Europa, ho dato vita con altri a una piccola “Repubblica nomade”. Perciò può capire come la penso. Io non sono vissuto al caldo, con le spalle e il culo coperti, ho dovuto soffrire e combattere. Perciò capisco chi deve combattere duramente per cercare un proprio spazio nel mondo ed è disposto persino ad affrontare la morte per cercare fortuna e salvezza. È un problema epocale, che crescerà sempre più nel futuro, anche in seguito alle mutazioni climatiche e ambientali che rimetteranno drammaticamente in movimento i nostri rassicuranti schemi fissi su stanzialità e nomadismo così come si sono configurati in questa epoca e in questa parte del mondo e che ci costringerà, volenti o nolenti, a cambiare le nostre prospettive e visioni se vorremo inventarci un nuovo futuro, perché siamo tutti migranti e naufraghi nello spazio. Le battute e gli slogan xenofobi più o meno mascherati servono a poco, se non a raggranellare qualche voto tirando fuori la parte peggiore delle persone e la loro paura». Che cosa occorre fare per fronteggiare il problema? «Occorrono, insieme alla concretezza e alla capacità di discernimento, coraggio di fronte alle nuove sfide che ci attendono, capacità di invenzione e visione. Mi fa orrore questo clima di ottusità e intolleranza che viene alimentato per ragioni di breve respiro. E - parlando sinceramente e fuori dai denti - mi dà il voltastomaco questa destra piccolo borghese incattivita e frustrata, che crede che mettendo la testa sotto la sabbia si possano affrontare i giganteschi problemi ma anche le gigantesche opportunità che abbiamo di fronte, che delega le proprie frustrazioni e paure a chi millanta soluzioni tanto facili quanto impossibili; in cui non è rimasto assolutamente più nulla di una concezione del mondo che potevano avere certe forme antiche di destra, nutrite di una visione drammatica, elettiva ed eroica della vita e che riuscivano a comprendere anche l’altro combattente e persino il nemico. Aristocratica in senso forte, che vuole dire essere severi con se stessi e indulgenti con gli altri. Mentre questi qui sono invece indulgenti con se stessi e severi con gli altri».
L’intervista integrale si trova su www.liberoquotidiano.it.