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 2015  ottobre 12 Lunedì calendario

FONDI SOVRANI, LA SCELTA DEL SILENZIO (FINO A QUANDO?)

L’imminente privatizzazione di Poste e il recente summit a Milano hanno acceso come mai prima d’ora i riflettori su presenza, ruolo e progetti dei fondi sovrani in Italia.
Capaci complessivamente di un patrimonio valutato in 4.500 miliardi (il doppio del nostro Pil), in Piazza Affari hanno investito finora circa 19 miliardi, pari a circa il 3,2% della capitalizzazione complessiva della Borsa, che si aggira sui 580 miliardi. Cifra tutt’altro che modesta ma che rappresenta una quota ancora limitata, stimabile intorno al 7%, della presenza totale degli investitori istituzionali internazionali nelle società del nostro listino, valutata in circa 240 miliardi (controvalore pari al 40% circa di Piazza Affari). Oltre al valore assoluto va tuttavia considerato il «trend».
In futuro
Praticamente assenti fino a due-tre anni fa, gli investimenti dei fondi sovrani nel nostro listino sono cresciuti del 56% in un anno, sono spalmati su un terzo delle società quotate, e sono destinati a un’ulteriore accelerazione proprio in relazione a operazioni di collocamento sul mercato come Poste (dove China Investment Corporation o People’s Bank of China potrebbero aggiudicarsi dal 2 al 5%) o accordi come quello che si profila per Adr, dove la controllante Atlantia (Benetton) potrebbe cedere fino a un 30% complessivo a due fondi governativi, quello cinese Ginko Tree e Adia di Abu Dhabi.
È vero che, come è emerso anche dal meeting milanese, dove hanno partecipato 34 fondi di 31 Paesi, buona parte delle risorse dei fondi sovrani già investite e di futura destinazione in Italia sono in realtà dirette non sull’equity bensì a immobili e infrastrutture. Però in Borsa la presenza di questa particolare tipologia di azionisti esteri comincia ad assumere un certo peso. E anche influenza? Per il momento la risposta resta negativa. Se si esclude il caso Unicredit dove Aabar di Abu Dhabi (primo socio con oltre il 5%) e i libici con Central bank of Lybia e Lia (in tutto il 4%) sono attivi e presenti nella governance della banca guidata da Federico Ghizzoni, la diffusa presenza nel capitale delle società non appare al momento seguita da un particolare attivismo: spesso partecipano alle assemblee e votano in genere come gli altri investitori istituzionali.
Non che,anche fuori da Unicredit, manchino soggetti teoricamente in grado di esercitare un ruolo significativo nella governance delle partecipate. A cominciare dal fondo sovrano norvegese Norges, con circa 8 miliardi terzo investitore estero in Piazza Affari dietro ai colossi dell’asset management come Blackrock (22 miliardi) e Vanguard (11,5). E People’s Bank of China, quinto in classifica con oltre 5 miliardi. Gestori peraltro molto «mobili» nella ripartizione e destinazione degli investimenti.
Chi sale, chi scende
Norges è di recente salito poco sopra il 2% in Monte Paschi e al 2,75% in Autogrill, ha arrotondato in Finmeccanica oltre il 2%, è entrato in Safilo con circa il 2% ed è sceso sotto il 2% in Unicredit. La banca centrale cinese, che in Piazza Affari concentra il 10% degli acquisti azionari effettuati in Europa, si «prenota» come si è visto per le privatizzazioni.
Entrambi detengono quote oscillanti poco sopra (i cinesi) o poco sotto (i norvegesi) il 2% in Eni, Enel, Telecom , Fca, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Generali. Pechino ha investito (sempre intorno al 2%) anche in Mediobanca e, appunto, in Montepaschi. Oslo detiene quote in numerose altre società, dal Banco Popolare alla Popolare di Sondrio, da Vittoria assicurazioni a Unipol, da Anima a Prysmian. Da soli i norvegesi hanno in portafoglio una quota stimata pari a circa l’1,6% di Piazza Affari.
Investitori di lungo termine per definizione, anche in ragione del fatto che i capitali provengono da risorse energetiche o riserve pensionistiche, e senza dubbio dotati di mezzi crescenti da indirizzare anche all’equity, sono tendenzialmente soci stabili in assenza di particolari condizioni che suggeriscano di muoversi diversamente.
Tuttavia non sono ancora identificabili una «linea comune» o principi condivisi sul governo societario delle società partecipate. «Non c’è oggi una policy da parte dei fondi sovrani in merito a un maggior coinvolgimento nella governance», dice Andrea Di Segni, partner di Sodali, società internazionale specializzata in governance e comunicazione agli azionisti. «Questo tipo di fondi tende a creare una posizione sostanziale e a gestirne il ritorno senza grandi movimenti se non volti a incrementare o uscire. Molto spesso non hanno però un dialogo strutturato con le società a meno che non siano nel board (come in Unicredit)», prosegue Di Segni.
Ciò non significa però che non esprimano, in taluni casi, posizioni e richieste di governance. Norges per esempio aveva votato contro la fusione Fiat-Chrysler e ha dichiarato la volontà di esprime le intenzioni di voto prima delle assemblee per «aumentare la trasparenza». «Il fondo sovrano norvegese è sicuramente uno dei più attivi del mondo su governo societario, aspetti di sostenibilità ed etica», sottolineano in Sodali. E un elemento di tale policy è la lista delle società escluse dagli investimenti o sotto osservazione (imprese che producono armi, tabacco, violano i diritti umani, danneggiano gravemente l’ambiente, rientrano in casi di corruzione): una black list che comprende numerose multinazionali.
Tutti questi aspetti, dal peso crescente all’attenzione verso alcuni aspetti particolar, ma non secondari, di governance, possono far pensare che, soprattutto i fondi sovrani più presenti, possano in un futuro non lontano «attrezzarsi» per un maggiore attivismo. «Se guardiamo avanti, 3-5 anni — dice Di Segni — dobbiamo pensare che la governance, che è una leva di mitigazione del rischio, cresca anche per loro d’importanza. E forse anche la necessità per i consigli delle società di intraprendere un engagement strutturato con questi fondi sovrani potrebbe essere uno strumento di coinvolgimento efficace, come lo è oggi nei confronti degli altri investitori tradizionali». Ed è un circolo che può diventare virtuoso. Accanto ai fondi internazionali, potranno anch’essi contribuire a far sì che le nostre società considerino sempre di più gli aspetti di governo societario come fonti di attrattività per gli investitori esteri. Privati o sovrani che siano.