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 2015  ottobre 12 Lunedì calendario

Cribiore: “Impariamo dagli Usa. Ci si mette in gioco per crescere”. L’italiano più noto a Wall Street oggi guiderà la parata per il Columbus Day– «Quando abitavo sulla Quinta Strada, a New York, non ero entusiasta di queste parate

Cribiore: “Impariamo dagli Usa. Ci si mette in gioco per crescere”. L’italiano più noto a Wall Street oggi guiderà la parata per il Columbus Day– «Quando abitavo sulla Quinta Strada, a New York, non ero entusiasta di queste parate. Troppo rumore e confusione... Ma da tempo ho cambiato idea: gli italo-americani hanno raggiunto uno status e una presenza nella comunità americana assolutamente straordinari e dobbiamo riconoscerci in questa gente. E l’America vuole mantenere e rafforzare i rapporti con l’Italia; noi dovremmo essere a braccia aperte per accoglierli». Oggi, proprio nella «sua» New York e sulla Quinta Strada, Alberto Cribiore sarà Grand Marshall nella Parata del Columbus Day, uno dei più alti riconoscimenti della comunità italo-americana. Per lui, partito nel ’75 da Torino dove lavorava in quella che era allora l’Ifint del gruppo Agnelli per arrivare quarant’anni dopo ad essere il banchiere italiano più importante di Wall Street come vicepresidente di Citi, «è un grandissimo onore, visto che prima di me questo ruolo è stato dato a persone con le quali non posso nemmeno confrontarmi. E poi, me lo lasci dire, credo di essere il primo italiano-americano a ricevere questo riconoscimento». La distinzione è sottile, ma significativa: «Non un italo-americano arrivato qui da bambino o nato da immigrati, nemmeno un italiano come Pavarotti o Zeffirelli che si è distinto anche qui senza avere un’attività negli Stati Uniti, ma il primo professionista che ha deciso di spostarsi dall’Italia all’America e poi ha scelto di restare in America». Per uno dei Gabetti-boys, come si chiamava la squadra di giovani di belle speranze, che a Torino assistevano Gianluigi Gabetti nella gestione finanziaria del gruppo guidato da Giovanni Agnelli, volare a New York nel ’75 non era scelta scontata. «Tanti amici mi chiedevano se non fossi impazzito: “Ma come, qui sei a fianco del sovrano e te ne vai dove non hai una base, con una lingua e una cultura diversa? Rischi di bruciarti”. “Vado e se non mi trovo bene dopo tre o cinque anni torno”, risposi a tutti. Ma poi mi resi conto che volevo stare in America e per far questo volevo anche essere parte di quel Paese, lavorare per una società americana. Nel 1981 andai alla Warner Communications. Gabetti si risentì molto di quella mia scelta». Dalla Warner al mondo delle banche d’affari, poi al private equity con il suo Brera Fund e poi ancora nelle prime linee della finanza americana, prima in Merrill Lynch e adesso appunto in Citi. L’«americano» Cribiore, nella vita e negli affari, ha scelto anche di diventare cittadino americano, nel 1997. «Ma perché potevo avere la doppia cittadinanza. Non sono un grande nazionalista, ma se avessi dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana non so se avrei preso quella americana. Mi sento estremamente grato agli Stati Uniti ed estremamente grato all’Italia. Quel che sono è il risultato di entrambi i Paesi». Del resto, spiega, questa doppia identità è un valore: «Una delle sfide di noi italiani-americani è continuare a immettere sangue fresco, sennò la nostra comunità si disperderà nel mare dell’America. È molto importante mantenere questo scambio tra i due Paesi. Tanti professionisti italiani arrivano negli Usa e tanti americani dovrebbero arrivare in Italia». Nonostante due culture così diverse? «La differenza più importante è che in Europa, e specie in Italia, l’idea è che il gioco sia a somma zero: se io guadagno tu devi perdere e viceversa, così c’è sempre qualcuno che gioca in difesa. Negli Usa, invece, il gioco non è mai a somma zero: l’idea è di fare una torta più grande, in modo che la mia fetta sia più grande, senza preoccuparsi se anche altri hanno di più». Parlare con Cribiore significa anche vedersi passare sotto gli occhi gli ultimi quattro decenni di storia economica - non solo economica - americana. A chiedergli quanto sia cambiata la finanza in questi anni si riceve una risposta fulminante: «Sono arrivato che non esisteva nemmeno il fax, avevamo al massimo il telex. E per trovare i giornali italiani, del giorno prima, bisognava andare alla Libreria Rizzoli. Ecco, pensi a quanto sono cambiate le comunicazioni e capirà anche quanto è cambiata la finanza». L’uomo che vuole restare (anche) italiano sebbene da quarant’anni si muova a Wall Street, cosa pensa della crisi del 2007-2008? In fondo proprio lei in quegli anni era vicepresidente di Merrill Lynch: perché non avete visto arrivare la tempesta? «La tempesta non l’ha vista arrivare il sistema finanziario così come non l’hanno vista i regolatori. Si è trattato di un problema specifico, quello dei mutui subprime, che è diventato endemico. Il problema specifico era grave, ma assolutamente curabile» E allora, che cosa è successo? «Che questa crisi ha generato una mancanza di fiducia in tutti gli strumenti finanziari. Mi ricordo discussioni con economisti brillantissimi, amici da anni, che dicevano: “Alberto, devi portare i valori dei titoli che hai in banca ai livelli di mercato”. Io rispondevo che per fare il mercato ci vogliono due cose, la domanda e l’offerta. E senza domanda semplicemente non ci può essere il mercato» . Quell’esperienza, però, sostiene Cribiore, ha vaccinato almeno temporaneamente Wall Street dal rischio di nuove bolle finanziarie: «Questa generazione di banchieri non vorrà mai ripassare da quell’incubo che è stato il periodo 2007-2008. È quasi più una questione generazionale che non di regolazione o di leggi. L’ultima cosa che vogliono fare è presentarsi a Washington o Francoforte per chiedere di essere salvati con i soldi pubblici».