Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 10/10/2015, 10 ottobre 2015
I NUOVI MOSTRI
Cominciamo dal bicchiere mezzo pieno. La sfiducia del Pd al sindaco Ignazio Marino, salito in Campidoglio appena due anni e mezzo fa dopo aver vinto le primarie col 51% e le elezioni con il 63%, alza a dismisura l’asticella degli standard etici richiesti ai politici italiani. Buon segno: la pressione della stampa libera (dunque, modestamente, anche del nostro giornale) e di quel che resta della società civile ha tenuto alta la bandiera della questione morale che molti, troppi preferirebbero archiviare come una fisima di quattro moralisti fissati. Aggiungiamo che, al Comune di Roma, i 5Stelle hanno ridato vita a una funzione democratica essenziale, da tempo estinta nei lunghi anni della gestione consociativa: l’opposizione che fa le pulci al governo e controlla tutto, anche gli scontrini del sindaco. Paradossalmente, ci è andato di mezzo il primo cittadino meno incistato nel sistema di potere romano. Ma questa, per lui, non è un’attenuante: è un’aggravante. Proprio perché voleva bonificare il governo capitolino da decenni di malaffare, Marino doveva prevedere la reazione che avrebbe scatenato e mettersene al riparo con comportamenti inattaccabili, anziché prestarvi il fianco a suon di gaffe, leggerezze, spese allegre e bugie puerili. Per questo, senza minimamente sminuire le responsabilità di tutti i partiti nello sfascio di Roma, il fallimento di Marino è anzitutto colpa sua. Una colpa doppia, perché ringalluzzisce i sepolcri imbiancati dell’eterno magnamagna (fascisti e vecchi arnesi della Suburra esultanti in Campidoglio) e frustra le speranze di cambiamento di tanta brava gente, alimentando il cinismo di chi predica che la politica è e dev’essere una cosa sporca e chi la vuole pulita è un’anima bella da libro delle fiabe.
Ora però Matteo Renzi e tutte le correnti del Pd, che dopo mesi di stop and go hanno giubilato Marino alla vigilia del Giubileo, dovrebbero precisare il livello della nuova asticella morale: cioè chiarire quando e perché un amministratore pubblico si deve dimettere. Marino – hanno spiegato – non è stato sfiduciato perché non sa governare Roma (altrimenti dovrebbe seguirlo un corteo di ministri, governatori e sindaci incapaci) e nemmeno perché la Procura ha aperto un’inchiesta contro ignoti sulle sue note spese (sennò il corteo diventerebbe legione). Ma perché ha mentito ai cittadini spacciando per istituzionali alcune cene (al momento sette) e venendo sbugiardato dai presunti commensali. Ed è giusto così.
Nelle vere democrazie basta una bugia non penalmente rilevante per stroncare la carriera a capi di Stato (vedi Nixon), premier, ministri, sindaci. E non saremo certo noi del Fatto, che per primi il 23 settembre abbiamo rivelato con Paola Zanca lo scandalo delle cene di Marino, a minimizzarlo. Ma l’equazione bugia=dimissioni vale per tutti o solo per Marino? E, soprattutto: le bugie su sette cene (finora certificate dalle smentite degli interessati, che teoricamente potrebbero a loro volta mentire o ricordare male) da poche migliaia di euro sono sempre e comunque più gravi di qualunque accusa penale accertata da pm, gip, gup, giudici di primo e secondo grado, ma non ancora suggellata dalla Cassazione? Perché questa è la linea Renzi: inquisiti e imputati restano tutti al loro posto fino a condanna definitiva; ma, se mentono (Cancellieri, Idem, Lupi e Marino), devono andare subito a casa.
Domenica scorsa Renzi ha difeso l’amico e alleato Denis Verdini dicendo che “non è il mostro di Loch Ness”. Ora, Verdini è stato rinviato a giudizio cinque volte, con la firma di cinque pm e cinque gup, per corruzione, associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, truffa aggravata allo Stato e illecito finanziamento ai partiti. Sicuro che nei cinque processi Verdini, dichiarandosi totalmente estraneo, non abbia mentito?
Anche la sottosegretaria ai Beni Culturali Francesca Barracciu (Pd) giura di non aver speso un euro della regione Sardegna fuori degli impegni istituzionali. Purtroppo la Procura non le crede e chiede il suo rinvio a giudizio per un peculato di oltre 80 mila euro di spese private. Vale più la parola di un ristoratore che ogni sera serve centinaia di clienti e smentisce Marino, o quella di una Procura che smentisce la Barracciu dopo mesi d’indagini? E, se nell’udienza preliminare la smentirà anche il gup, Renzi la caccerà o se la terrà al governo?
Il sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione (Ncd) è indagato per turbativa d’asta sul Cara di Mineo. Sentito dalla commissione parlamentare d’inchiesta sui migranti, ha mentito sui rapporti con Luca Odevaine, arrestato in Mafia Capitale. Odevaine racconta ai pm che Castiglione (soggetto attuatore dell’appalto del Cara nel 2011) gli fece incontrare a pranzo Salvo Calì, presidente del consorzio Sisifo, la coop rossa che poi avrebbe vinto la gara con La Cascina; e Salvatore Menolascina, capo de La Cascina, in un bar di Roma. Castiglione “dimentica” la presenza di Calì al pranzo e l’incontro al bar con Menolascina. Perché è ancora sottosegretario del governo Renzi?
Se l’“asticella Marino” vale per tutti, Renzi non deve più sfiorare Verdini, Barracciu e Castiglione neppure con una canna da pesca (e non solo loro, come dimostreremo domani). Se invece si alza per i nemici e si abbassa per gli amici, allora – per strano, anzi comico che possa sembrare – potrebbe perfino avere ragione Marino.
Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 10/10/2015