Franco Marcoaldi, la Repubblica 10/10/2015, 10 ottobre 2015
LA POESIA? UN IMPERATIVO BIOLOGICO
Chi abbia avuto l’opportunità, magari in più di un’occasione, di intervistare il premio Nobel per la letteratura Iosif Brodskij, sa bene quanto l’uomo – di intelligenza sopraffina e talento superbo – potesse essere affabile o sprezzante, loquace o sbrigativo a seconda della circostanza. Ora la ricca raccolta di “Conversazioni” con il poeta e saggista russo, curata da Cynthia L. Haven e tradotta da Matteo Campagnoli, che esce a pochi mesi dal ventennale della morte (28 gennaio 1996), conferma in pieno quella complessità caratteriale. Ma riconferma pure quanto specialissima fosse la sua intelligenza; una intelligenza che secondo alcuni – ricorda la curatrice – avrebbe avuto pericolosi riflessi negativi, in termini di raffreddamento emotivo, sulla sua stessa poesia. La verità è che, col passare del tempo, Brodskij sente crescere dentro di sé più i “veti” che le “licenze”. E cerca di scrivere versi sempre più controllati, sobri, duri, asciutti. Perfettamente in linea con quel ritegno che tanto amava in Frost; e con l’obliquità dell’adorato Auden, maestro supremo dell’ «anticlimax».
D’altronde tutta la vita pubblica di Brodskij è stata improntata a una fiera avversione per ogni tipo di magniloquenza e retorica. Per un uomo che a soli ventiquattro anni viene denunciato alla corte di giustizia di Leningrado per «parassitismo sociale», vagabondaggio e corruzione della gioventù attraverso la poesia; che dal carcere passa in un ospedale psichiatrico dove viene vessato nei modi più atroci, finendo poi al confino nei pressi del circolo polare artico; per un uomo così, dicevo, sarebbe del tutto naturale – una volta approdato in America – utilizzare la rendita marginale offerta dalla nobile figura dell’esiliato. Ma è proprio quanto Brodskij evita accuratamente di fare. E difatti, ogni volta che gli intervistatori battono e ribattono il tasto su quei terribili anni, lui smorza i toni. E utilizza l’arma del sarcasmo: il lavoro nei campi non era poi così male, afferma; c’era tempo per scrivere e con uno sforzo di fantasia si poteva anche giocare a travestirsi da «gentiluomo di campagna». Senza contare che proprio lì, nel villaggio di Norenskaja, Brodskij ha imparato una volta per tutte come vada evitato il ricorso alla lamentazione – facendo propria, piuttosto, una «filosofia della sopportazione». O se volete, dell’endurance, per dirla con l’amato Faulkner. Oltretutto Brodskij, pur essendo molto più interessato alla politica di quanto volesse dare ad intendere, teneva la genesi della propria scrittura separata dalle vicende politiche circostanti.
Mai e poi mai il poeta deve ridursi a fare proclami. Il suo compito è quello già indicato da Keats: «Fine writing is fine doing». Sarà il fatto stesso di scavare il più a fondo possibile nella lingua a metterlo di traverso rispetto al potere totalitario. «Chiunque si dia da fare per creare dentro di sé un proprio mondo indipendente, è destinato prima o poi a diventare un corpo estraneo nella società e ad essere soggetto a tutte le leggi fisiche della pressione, compressione e dell’estrusione». Non per questo Brodskij intende trascurare le enormi differenze tra le diverse forme di potere: ci mancherebbe, con tutto quello che ha passato. Soltanto chi trasmigra dal totalitarismo alla democrazia, ribadisce, può apprezzare fino in fondo le virtù della seconda. Resta però che il daimon del poeta si muove su altri piani, in stretto collegamento con l’unica divinità qui riconosciuta come tale: il linguaggio – sempre mutevole, capace di adattarsi ad ogni condizione: «un po’ come gli scarafaggi», aggiunge perfido. E se il linguaggio è il principale tratto distintivo dell’essere umano, allora la poesia è «il nostro imperativo biologico». Perché “purifica” la lingua, perché è uno straordinario «acceleratore mentale» che procede nella massima economia. Perché agganciando una parola a un’altra e un concetto a un altro nell’inevitabilità di un certo ritmo musicale, «rilascia un’energia maggiore rispetto a un’introspezione razionale».
Tre sono le modalità cognitive dell’uomo, sottolinea Brodskij: quella analitica, quella intuitiva e quella profetica, legata alla rivelazione. Soltanto la poesia riesce a tenerle insieme tutte e tre. Da qui il suo indiscutibile primato e la sua specialissima offerta, che non è destinata a un ristretto cenacolo di presunti eletti, ma a chiunque sia ancora intenzionato a farsi domande. Esiste infatti altra forma espressiva che ci parli della “sensibilità umana” in modo così intenso, concentrato, economico, musicale?
A pensarci bene, la poesia rispecchia l’esperienza contemporanea – sempre più fratta, rapsodica, baluginante – molto meglio del lento e strutturato romanzo di impostazione ottocentesca. Motivato da tale convinzione, Brodskij intraprenderà una lunga ed estenuante battaglia per diffonderla in modo capillare sull’intero suolo statunitense.
Nel corso di queste vivacissime conversazioni, colui che si autodefiniva «poeta russo, saggista inglese e cittadino americano», spazia davvero in ogni dove: dalla musica all’arte figurativa, per finire con qualche annotazione en passant sull’intrinseca assurdità dell’esistenza. Tolto lo «scrivere, ascoltare musica, forse pensare un po’» – tolti gli amici, il cibo e poco altro, che resta? «Tutte quelle cose che sei costretto a fare – pagare le tasse, far di conto, scrivere referenze, sbrigare le faccende domestiche – non ti sembrano tutte cose insensate?» Con la sigaretta perennemente in bocca, a dispetto di una grave patologia cardiaca che lo avrebbe portato a una morte prematura, Brodskij mostra di tenere innanzitutto a un aspetto: l’indipendenza individuale, di giudizio e di pensiero. Lì e solo lì può germinare il buono dell’umanità, il fronte più avanzato di battaglia contro quella «volgarità del cuore» che è sempre sul punto di trionfare.
Insofferente verso ogni genere di previsione, a un certo punto il poeta, però, se ne lascia sfuggire una. E non di poco momento: «Il mondo a venire, la nuova era, sarà meno morale, più relativistica, più impersonale, meno, oserei dire, umana». A giudicare da quanto già oggi ci circonda, non sembra essere andato tanto lontano dal vero. Per combattere tale deriva dell’umanità, il Nostro ritiene che la «migliore polizza di assicurazione morale» continui ad essere la letteratura. Perché al contrario delle generalizzanti visioni politiche, filosofiche, religiose, è destinata a preservare la singolarità, la diversità di ogni creatura. Non c’è dunque alcuna ombra di dandysmo nella famosa affermazione di Brodskij che vuole l’estetica madre dell’etica.
La scelta estetica, oltre ad essere la più immediata e naturale già nel bambino piccolo, che ride o piange, abbraccia o respinge la persona che si trova di fronte, a seconda che gli piaccia o meno, è anche il miglior mezzo di difesa dell’adulto contro ogni asservimento ed ogni conformismo. Contro ogni cliché ed ogni demagogia.
Come scrisse nel suo discorso di investitura al Nobel, «quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero – anche se non necessariamente più felice – sarà lui stesso». La migliore lezione di questo saggista e poeta di genio risiede proprio qui, nel suo costante, tenace richiamo al tesoro più grande di cui disponiamo: la nostra libertà interiore.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
*
IL LIBRO
Iosif Brodskij, Conversazioni (a cura di Cynthia L. Haven, traduzione di Matteo Campagnoli, Adelphi, pagg. 314, euro 20)
Franco Marcoaldi, la Repubblica 10/10/2015