Enrico Franceschini, la Repubblica 10/10/2015, 10 ottobre 2015
L’ARTE PERDUTA DELLE LETTERE D’AMORE
Non si scrivono più lettere d’amore. O di amicizia. O di qualsiasi altro argomento. Diciamo che non si scrivono più lettere, punto e basta. Alzi la mano chi ricorda quando ha scritto l’ultima, a penna, su un foglio di carta, poi l’ha infilata in una busta e spedita. Oggi, anzi ormai da anni, le uniche lettere cartacee che vengono scritte, ma generalmente al computer prima di essere stampate, e poi inviate per posta sono lettere commerciali. E anche queste si riducono in continuazione.
Non c’è posta per te , potrebbe essere il titolo di un film sull’argomento: il che spiega perché all’ufficio postale si fanno ancora tante cose ma raramente si imbuca una lettera all’innamorato/a o all’amico/a. Per questo tipo di comunicazioni ci sono altri mezzi: i messaggini telefonici, le app, le email, i social network, più rapidi, sintetici, moderni (per usare un termine antiquato), capaci di trasportare immagini, audio, musica, oltre alle parole digitalmente scritte su uno schermo. Non è in fondo la stessa cosa che scrivere una lettera a mano?
No. Non proprio. Non esattamente. “Il mezzo è il messaggio”, sosteneva già nel secolo scorso (il Novecento, il secolo delle lettere, ricordate?) il sociologo Marshall McLuhan, teorico delle nuove forme di comunicazione. Dunque il messaggino non offre gli stessi stimoli di un foglio di carta, strappato da un quaderno o elegante e profumato, questo non fa differenza (o meglio un po’ la fa, ma non poi tanto). La verità, scrive il Sunday Times facendo il punto sull’argomento, è che l’era digitale ha ucciso la lettera ad alto contenuto emotivo. Naturalmente si può colpire al cuore un oggetto amato, benevolmente o malevolmente a seconda delle intenzioni, anche digitando lettere sulla tastiera di uno smartphone: tu chiamale, se vuoi, emozioni anche quelle. Ma sono leggermente diverse da quelle che uscivano dalla calligrafia dell’autore. Questo è il motivo per cui si moltiplicano in tutte le lingue i libri che raccolgono lettere del passato. Sono come reliquie di sentimenti che non riusciamo più a esprimere o confessare: e forse la colpa è non solo nostra ma almeno in parte del mezzo.
L’ultimo della serie, More letters of note, pubblicato in questi giorni da Canongate in Inghilterra, fornisce abbondanti esempi al riguardo. “Temo che lei debba smettere di scrivere le sue letterine d’amore a mio marito mentre io e lui viviamo insieme, è una delle cose che nel nostro ambiente non si fanno”, scriveva nel 1921 Katherine Mansfield, scrittrice e moglie del critico letterario John Middleton Murry, all’amante di lui, la principessa Elizabeth Bibesco. “Perché non domanda a suo marito di spiegarle l’impossibilità di una situazione simile? La prego, non mi faccia scrivere di nuovo. Non mi piace insegnare le buone maniere alla gente”. Scrivereste frasi simili su un cellulare? Grace Campbell, giovane columnist dell’edizione inglese di Cosmopolitan, crede o meglio teme di no: “Non scriverò mai una lettera come quelle dei miei nonni e genitori che ho ritrovato nel solaio della nostra casa di campagna nel Nottinghamshire”. Sui forum online dei college americani si dibatte il tema appassionatamente: “Perché non scriviamo più lettere d’amore?” (non che i partecipanti al dibattito trovino una risposta particolarmente originale). E la National Public Radio riporta che l’abitazione media, negli Stati Uniti, riceve solo una lettera “personale” (ovvero non la bolletta del gas o la pubblicità di una compagnia di assicurazioni) ogni due mesi. «È un’arte perduta», dice Deb Bruzeski, una pensionata che scrive 60 lettere alla settimana: ma è il suo hobby, una passione a cui si dedica da quando era bambina, dunque un caso atipico. «Oh, immagino che i ragazzi pensino che è un modo di comunicare così obsoleto», osserva. «E così lento. E devi pensare bene a quello che scrivi, altrimenti ti tocca di cancellare o ricominciare da capo. Ma a me piace». Per tutti gli altri ci sono i libri di lettere come quella della Mansfield all’amante del suo comunque amato marito.
Enrico Franceschini, la Repubblica 10/10/2015