Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 10/10/2015, 10 ottobre 2015
DA GRANDE FARÒ IL PENSIONATO
[Intervista a Luigi Ballerini] –
Luigi Ballerini scrive per i ragazzi. E i suoi lavori sono pure premiati: nel 2014, con La signorina Euforbia (San Paolo), ha ricevuto il Premio Andersen, che sta a questa narrativa come il David di Donatello sta al cinema. Di Sarzana (Sp), classe 1963, è medico e psicoanalista. Esercita la sua attività a Milano, dove vive. Il suo studio, in un elegante palazzo milanese, anni ’20, non lontano dalla Stazione Centrale, è esattamente il luogo dove ti aspetti di trovare un freudiano come lui. Invece non ti aspetti la critica che ha vergato su Avvenire pochi giorni dopo l’uscita di Inside Out, il celebrato cartone della Pixar: «Non c’è pensiero in questa infanzia, e nemmeno in questa umanità».
Domanda. Ballerini, prendiamola larga. Come vediamo oggi in Italia gli adolescenti per cui lei scrive?
Risposta. Tendiamo a vederli come fascio di istinti, prede di tempeste ormonali, non si pensa che pensino, mi perdoni il gioco di parole. Invece anche gli errori e le sciocchezze che un adolescente compie sono atti pensati, magari pensati male.
D. Cosa cambia fra istintività e pensiero?
R. Il fatto che l’adolescente pensi, oltre a essere un dato di realtà, è una buona notizia anche in caso di errore, infatti pone la condizione della sua correggibilità. Se invece fosse solo istinto, basterebbe contenerlo, no?
D. Se non consideriamo gli adolescenti capaci che di istinti, figurarsi i bambini.
R. Finché è un tenero frugoletto, il bambino ci piace. E tra l’altro il bambino fa di tutto per compiacerci. Quando le cose vanno bene, un bambino è gradevole e gradito.
D. Poi questi figli crescono.
R. Certo. A un certo punto la maturazione sessuale pone delle questioni nuove: «Cosa me ne faccio del corpo che cambia? Cosa me ne faccio in relazione agli altri»?
D. L’adolescenza
R. Arrivano una questione nuova per il soggetto: comincia a pensare delle soluzioni, a mettere in atto comportamenti, che spesso sono visti dai genitore come alzare la testa. Il frugoletto, che faceva simpatia, che ci disegnava il cuore da appendere sul frigo, è cambiato, chiede maggiore autonomia. Spesso incontro genitori che dicono di non riconoscere più i figli: «Fino a ieri eri così».
D. Che difficoltà hanno mamme e papà?
R. Di considerare comunque che, lui o lei, hanno una questione individuale, di cui occuparsi.
D. Eppure nel racconto pubblico, nei media, nel cinema, gli adolescenti sono un po’ dei minus habens, anzi ora c’è persino la definizione: «Bimbiminkia».
R. Vengono descritti così, leggeri e vuoti, soggetti alla moda, un po’ stupidi, anziché riconoscere in loro un pensiero che cerca soluzioni rispetto alla vita.
D. Come fa lei nei suoi libri. A loro piace?
R. Molto. Nei tanti incontri che faccio nelle scuole, una domanda che torna spesso è: «Ma come fai a sapere come siamo»? E più volte testimoniano di sentirsi trattati con stima e di apprezzarlo.
D. Qual è l’errore più frequente che facciamo oggi verso i bambini, i ragazzi, in questa società?
R. Non siamo disposti a dare tempo: genitori e insegnanti soprattutto.
D. Spieghiamolo bene.
R. Prendiamo la scuola. Non appena emerge una piccola difficoltà interviene subito il sospetto di una patologia, ci si precipita a équipe di specialisti, quando in alcuni casi potrebbe essere sufficiente dare tempo a questi bambini o intervenire sugli adulti, perché si possa facilitare loro la strada. .
D. Non diamo tempo ai bambini.
R. Ma neanche a noi stessi. Anche l’adulto non si dà tempo di imparare. Consideriamo per esempio ogni dovere una costrizione.
D. Non lo è?
R. Il dovere può esserci anche imposto, e non piacermi, ma può essere anche una condizione da cui dover passare per ottenere qualcosa che si desidera. C’è anche un dovere buono, in vista di una meta. Il nostro problema, oggi, è l’immediatezza, nel senso di non-mediato.
D. Facciamo un esempio?
R. Per esempio rifiutiamo la mediazione che passa per il lavoro. L’ideale è il Gratta e vinci, un guadagno senza lavoro, un successo istantaneo, in cui non investi che pochi euro. Un’idea che contagia anche i ragazzi.
D. In che senso?
R. A volte sento dire a dei ragazzi che, da grandi, vogliono fare il pensionato che, ai loro occhi, appare chi realizza lo stipendio senza lavorare. Il lavoro diviene qualcosa di cui sbarazzarsi.
D. Colpa dei genitori?
R. I genitori spesso fanno la morale su quale fortuna sia poter andare a scuola, su quale opportunità sia offerta ai figli, e non si rendono conto di come gli parlano del proprio lavoro o, semplicemente, della faccia che hanno quando escono di casa la mattina.
D. E i ragazzi lo capiscono?
R. I ragazzi sono logici, estremamente logici, e non è solo coerenza del discorso. Si tratta di una trasmissione, c’è in ballo il concetto di eredità: che cosa lasciamo ai nostri figli? Non sono solo i beni materiali, che trasmetteremo loro ma, per esempio, anche la concezione del lavoro.
D. Perché fa l’esempio del lavoro?
R. Perché è un punto sui cui si zoppica in tanti. E si tratta anche del lavoro del rapporto. O del lavoro dell’amore. Quando un amore inizia ad andare male? Quando smette di essere tale, un lavoro appunto. Prendiamo appunto la relazione amorosa.
D. Prendiamola.
R. All’inizio c’è il corteggiamento: quando si deve incontrare l’amata ci si prepara, si pulisce la macchina, ci fa belli, ci si profuma. E anche lei fa altrettanto.
D. Poi le cose cambiano...
R. Arrivano le canottiere Cagi in lui e le ciabattone di spugna, in lei. La sciatteria fatta sistema. Aldilà della battuta: quando le cose iniziano ad andare male? Quando non c’è più lavoro. Quando si dice: è fatta, adesso è fatta, tutto verrà automaticamente.
D. Cos’altro non mediamo?
R. Ah, guardi, si potrebbe aprire il tema delle tecnologie...
D. Apriamolo.
R. Prenda WhatsApp, la messaggistica istantanea: non solo ti scrivo, non solo vedo che hai ricevuto, ma verifico anche tu abbia letto. E se non mi rispondi subito, mi offendo. Non si ammette che l’altro potrebbe non farlo. O non volerlo.
D. Noi siamo due cinquantenni, Ballerini, a noi come è andata da adolescenti?
R. Noi abbiamo beneficiato di una maggiore lontananza dei genitori, e questo può sembrare un’eresia oggi, dove le mamme son tutto un “Perché non mi hai chiamato? Perché non mi hai mandato un messaggio? Perché avevi il cellulare spento?”.
D. Una generazione ipercontrollata, quella dei nostri giovanissimi.
R. Paradossale: la più controllata e la più abbandonata.
D. Addirittura. Allora partiamo dal controllo. Perché quest’ansia? Solo perché viviamo tempi difficili?
R. È più che altro l’illusione del contenimento di cui parlavamo prima. E invece il primato delle regole, dei cosiddetti paletti, alla lunga, non tiene.
D. Le regole ci vogliono, però...
R. Prendiamo una buona regola: mangiare composti a tavola. Ultimamente vale perché stiamo meglio assieme, non per la regola in sé. Oggi sul controllo accadono cose paradossali: mamme che vorrebbero le webcam negli asili.
D. Dopo quello che si legge sulle violenze...
R. Questo aprirebbe un’altra questione: non riusciamo ad affidare i nostri figli a nessuno. Nessuno può fare bene con loro come facciamo noi, crediamo. Siamo adulti angosciati, che si muovono in difensiva verso la realtà, con una percezione di sé e del reale sempre sotto minaccia.
D. Fin qui il controllo. E l’abbandono di cui parlava poc’anzi?
R. Coincide, ultimamente, nel non rendere i nostri figli eredi, ossia nel non consegnare loro una modalità di affrontare il reale che ci vede impegnati raggiungere la loro soddisfazione. E poi...
D. E poi?
R. E poi li abbandoniamo perché insinuiamo costantemente che la soddisfazione non è possibile. Li consegniamo al regno dell’insoddisfazione.
D. Facciamo, di nuovo, un esempio?
R. Un ragazzo che mi è stato descritto come un’ameba, un «indivanato», nessun interesse se non oltre il joystick del videogame, che vedeva la scuola come una tortura.
D. E che cosa è accaduto?
R. Che un giorno il figlio, vedendo in tv la pubblicità del primo numero di una raccolta di francobolli, chieda alla madre di comprarglieli.
D. E lei?
R. «Cosa te ne fai? Meglio un corso di inglese». Non aveva colto il guizzo di interesse del ragazzo, solo perché non andava immediatamente nella direzione del successo della madre. A volte detestiamo l’intraprendenza dei ragazzi, a meno che non sia esattamente nella direzione che abbiamo deciso.
D. Veniamo al film della Pixar, motivo dell’intervista.
R. Bellissimo, intendiamoci, ma dà voce a un pensiero comune: siamo governati dalle emozioni.
D. Nel film le emozioni sono delle forze.
R. Esatto. Invece non sono forze, ma forme. Sono le forme che assume il mio pensiero. In moltissimi asili si lavora sistematicamente sulle emozione, a volte si sta un anno intero sulla rabbia, alle strategie per controllarla, come dare i pugni al cuscino invece che al compagno. Ma non sarebbe, semmai, più interessante capire perché ci si arrabbia, e anche quali alternative ci sono? Difendersi? Riconoscere la ragione dell’altro?
D. Con Inside out?
R. Il rischio per un genitore, quando il figlio si butta per terra al supermercato, è che si immaginerà che Rabbia abbia preso il sopravvento. Invece, come ha scritto Françoise Dolto: «I capricci esistono solo quando li chiamiamo così».
D. La bizza non è tale?
R. Che cosa sta dicendo questo bambino? Che cosa vuole farmi sapere in un modo così scomposto? Perché mi sta dicendo qualcosa. Dovrebbe interessare capirlo, non solo domarlo.
D. Invece, secondo il cartone, è Rabbia che si è impossessata di lui.
R. Immagino che nell’eventuale sequel si parlerà dell’adolescente. Già nel film si vede un pulsante con la scritta «pubertà». E vedremo potenziata l’idea degli istinti.
D. Si vogliono vedere ovunque.
R. Anche dove non sono: il bambino non ha istinto perché ha il pensiero. Pensa anche quando non parrebbe farlo. Anche la notte: mentre dorme pensa, come tutti noi, e costruisce i sogni. Questa spensieratezza, letteralmente assenza di pensiero, che attribuiamo all’infanzia e auspichiamo talora anche per noi, è solo un cattivo miraggio.
D. Sempre nei cartoni però, stavolta dei concorrenti di Pixar ossia Walt Disney, c’era l’inno di Re Leone, quell’Akuna Matata, che voleva appunto dire «senza pensieri».
R. Ecco, il cattivo miraggio eletto a programma di vita. Come se poi fosse possibile
D. Abbiamo parlato poco di letteratura per ragazzi.
R. In Italia è purtroppo considerata una cenerentola.
D. E lei non vorrebbe fare il salto verso quella degli adulti?
R. Al contrario, non vorrei smettere mai: ho il vantaggio di poter incontrare molti dei miei lettori. A scuola, nelle biblioteche, nei percorsi di lettura.
D. Soddisfazioni?
R. Notevoli, sono lettori analitici, meravigliosi, identificano ogni residuo illogico. Nelle presentazioni dei libri per adulti, chi fa la domanda sa già la risposta, spesso vuole mettersi in mostra, raramente è davvero interessato. I ragazzi no, loro, se chiedono, lo fanno davvero per interesse. E poi sono capaci di critiche sincere e feroci.
D. Pensano.
R. Pensano.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 10/10/2015