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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

«PER IMPARARE LA MATEMATICA CI FACEVANO CONTARE GLI AMERICANI AMMAZZATI»

«Uno dei problemi principali in Corea del Nord era la scarsità di fertilizzanti. Quando l’economia crollò negli anni Novanta, l’Unione Sovietica smise di inviarli e le nostre fabbriche non ne produssero più. La conseguenza fu una crisi dei raccolti che rese la carestia ancora più tremenda. Allora il governo (del dittatore Kim, ndr) escogitò una campagna per contrastare la mancanza di fertilizzante con una risorsa rinnovabile e prodotta sul posto: escrementi umani e animali». Se dietro questo tragico racconto non ci fosse la tragedia di milioni di morti per fame, saremmo tutti autorizzati a cominciare a scompisciarci dal ridere. Da Yeonmi Park, ovviamente, non filtra invece alcun sarcasmo. C’è solo un dolente ricordo nelle parole di questa minuta nordcoreana, che poche ore fa ha compiuto 22 anni e ha già vissuto una vita che molti di noi non potranno neppure immaginare fino in fondo: la dittatura più assurda e totalitaria, la fuga, le violenze, morali e fisiche, l’immersione in un mondo criminale spietato, l’emersione in un mondo occidentale difficile da capire e impossibile da cavalcare. Soprattutto per una ragazza cresciuta sul confine settentrionale fra la sua Corea, la più oscura, e la Cina. Che si è trovata perfino a combattere la “battaglia del concime”… «Tutti i lavoratori e tutti gli scolari», continua, «dovevano offrire la loro quota. Immaginate le assurde conseguenze per la nostra famiglia: ogni membro della casa aveva una missione giornaliera, così, quando la mattina ci svegliavamo, era come se fossimo in guerra. Le mie zie erano le più competitive. “Mi raccomando, non fare la cacca a scuola!”, mi diceva tutti i giorni mia zia di Kowon. “Aspetta di farla qui”». L’altra sorella della mamma si rammaricava di dimenticare una busta di plastica quando era costretta a «fare i bisogni» fuori casa... «Il picco di raccolta di escrementi umani era a gennaio, la stagione di crescita delle piante», spiega la piccola Park, occhi grandi scuri e sorridenti. «I bagni erano di solito lontani da casa, per cui si doveva fare attenzione che i vicini non venissero di notte a rubare. Alcuni chiudevano a chiave i loro bagni esterni per tenere alla larga i “ladri di cacca”». Fin dove può arrivare il delirio di un dittatore... Racconta la sua vita, Yeonmi Park. «Lo faccio per la mia famiglia», spiega, per la gente del suo Paese, ma anche «per tutti coloro che nel mondo combattono per essere liberi». Racconta tutto. Anche ciò che, da quando è riuscita a scappare dalla Corea del Nord, otto anni fa, si era tenuta per sé: le esperienze più drammatiche, quelle che non potrà mai dimenticare. Ora ha voluto mettere ogni cosa per iscritto, trasformarla in una vera testimonianza pubblica con l’idea che possa servire a dare una spallata al regime che rende disumani i suoi sudditi in quella regione inaccessibile al resto del mondo, tenuta oggi sotto il tallone dal terzo Kim, Kim Jong-un, dopo che il primo, Kim Il-sung, un oscuro graduato dell’esercito, venne messo sul trono dall’Unione Sovietica e trasformato in semi-dio.

Gli occhi innocenti sulla realtà. Park non è l’unica fuggitiva che sta trasformando — in questi mesi — la sua vita in un libro: affianca con le sue memorie, quelle di altri tre “disertori”, quali vengono bollati in patria. Ma La mia lotta per la libertà, scritto con Maryanne Vollers, — edito in Italia da Bompiani e in uscita mondiale contemporanea proprio mentre il leader di Pyongyang continua a minacciare il lancio di missili a lungo raggio — ha molti meriti particolari. A cominciare da uno: se parecchi reporter hanno tentato — meritoriamente — di penetrare la vita quotidiana vera di una delle ultime dittature assolute della Terra, mai nessuno ha potuto descrivere la realtà, fin nei più intimi dettagli, in prima persona con occhi altrettanto innocenti. Cosa ancora più straordinaria, Yeonmi Park ci mostra, in presa diretta, come si fa a passare dalla cecità del suddito nato e cresciuto nella cattività della tirannia, alla luce della coscienza piena del nostro presente. Quella consapevolezza che gli analisti pensano possa essere accelerata, in maniera decisiva, nei cittadini nord-coreani, dalle nuove trasmissioni che la radio britannica Bbc lancerà dal Sud perché vengano captate — furtivamente — in molte delle case del Nord. Ma Yeonmi Park è anche diventata, con un’apparizione pubblica in costume tradizionale al Summit dei Giovani di Dublino del 2014, un simbolo di questa battaglia di liberazione. Che, in realtà, non sappiamo da quanti suoi ex concittadini (in attesa di una agognata riunificazione lei ha ormai il passaporto dell’altra Corea) sia oggi davvero “combattuta”: la Corea del Nord è letteralmente un buco nero, come si capisce guardando le foto dei satelliti della Nasa dove, nello spazio del Paese asiatico, appare solo un buio quasi assoluto, dovuto alla semplice mancanza di elettricità. «Non sognavo la libertà quando fuggii. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire essere liberi», spiega Yeonmi Park, cominciando a narrare il suo lungo viaggio. «Tutto ciò che mi era dato di sapere era che, se la mia famiglia fosse rimasta lì, probabilmente saremmo tutti morti, di inedia, di malattia o per le condizioni disumane nei campi di lavoro forzato. La fame era diventata insostenibile, ero pronta a rischiare la mia vita per una scodella di riso». (Pensiamoci, quando guardiamo, e non capiamo, chi fugge dalla Siria, dalla Libia o dall’Africa nera...). È una realtà incredibile proprio perché così medioevale e così odierna, quella descritta da Yeonmi. L’elettricità era — è — scarsa, al di fuori della capitale, al punto che, quando le luci si accendevano la gente era talmente felice da mettersi a cantare, battere le mani e gridare. Il latte non si beve — «Prima di fuggire non sapevo nemmeno che fosse prodotto dalle mucche» —; gli assorbenti femminili sono bende da lavare e rilavare; il water è sconosciuto, visto che ovunque c’è solo il bagno alla turca, e nelle soap opera sudcoreane o nei film piratati con videocassette e dvd provenienti dalla Cina — le uniche immagini del mondo esterno, visto che le tv sono sintonizzate solo sui canali di Stato — non compaiono: «Persino per l’amore nel significato romantico non esiste la parola. A 7-8 anni, il film che mi cambiò la vita fu Titanic. Mi sembrava incredibile che fosse una storia accaduta quasi un secolo prima. Quella gente nel 1912 aveva una tecnologia più avanzata della maggior parte di noi.... Ed ero sbalordita che Leonardo DiCaprio e Kate Winslet fossero pronti a morire per amore e non soltanto per il regime». Quello da cui viene Yeonmi è un mondo fatto di abitudini remote da essere ormai completamente dimenticate. Nelle notti estive, la gente se ne sta seduta fuori di casa nell’aria della sera, senza sedie, accucciata per terra a osservare il cielo. «Tutto ciò che si udiva erano i rumori prodotti dalle persone: le donne che lavavano i piatti, le madri che chiamavano i figli, il clangore di cucchiai e bacchette nelle ciotole di riso». Niente auto né elettrodomestici. E i medici devono fare anche i contadini e coltivare le erbe officinali per avere qualche farmaco in più. È come scoprire, oggi, la vita di una nuova tribù dell’Amazzonia o di un’isola sperduta in mezzo al Pacifico. «In Corea del Nord tutte le tue possibilità sono determinate dalla tua casta, o songbun», svela ancora Yeonmi Park. «Quando Kim Il-sung s’insediò al potere dopo la Seconda guerra mondiale, sovvertì il tradizionale sistema feudale che divideva le persone tra possidenti e contadini, nobiltà e gente comune, preti e studiosi. Diede l’ordine di controllare il background di tutti i cittadini per scoprire ogni cosa sul loro conto e sulla loro famiglia, scavando a ritroso nel tempo per generazioni. Nel sistema songbun, tutti sono suddivisi fra tre gruppi principali, basati sulla presunta lealtà al regime». Tre caste, insomma. Non comunicanti se non al ribasso: puoi scendere, mai risalire. «La classe più elevata, il “nucleo”, è formata da onorati rivoluzionari: contadini, veterani, e da coloro che hanno dimostrato grande spirito di lealtà nei confronti della famiglia di Kim». La seconda classe è la “basica”: «Coloro che vivevano un tempo nel Sud, ex mercanti o intellettuali o persone comuni che non sono del tutto “affidabili”. Infine la classe più abietta è quella “ostile”, che comprende gli ex proprietari terrieri e i loro discendenti, capitalisti, cristiani o seguaci di altre religioni, familiari di prigionieri politici e chiunque sia percepito come nemico dello Stato». Questo “buco nero della Terra” è anche il posto che usa le esecuzioni pubbliche per educare alla lealtà nei confronti del regime e mostrare le conseguenze della disobbedienza: «A Heysan, quando ero piccola», ricorda Park, «un ragazzo di 25 anni era stato giustiziato proprio dietro al mercato, per aver ucciso e mangiato una mucca. Questi animali erano proprietà dello Stato. Aveva sofferto di tubercolosi e non aveva da mangiare: non fece differenza». Come e peggio del bracconiere – cinquecentesco – Geordie della ballata ripresa da Fabrizio De André, che rubò sei cervi nel giardino del re. Nessuna corda d’oro, però, per il nordcoreano: «Annunciarono l’esecuzione, lo legarono petto, ginocchia e caviglie a un grosso palo di legno. Tre uomini armati di fucile si piazzarono di fronte a lui e cominciarono a sparare. Cercarono di rompere le corde con i proiettili e ci misero del tempo. Alla fine ci riuscirono e il corpo del ragazzo si riversò a terra. Dopodiché venne fatto rotolare via, chiuso in un sacco e gettato sul retro di un camion. Mia madre assistette a tutto ciò sotto choc».

I dieci comandamenti del Caro Leader. È così che funziona il totalitarismo: l’abbiamo dimenticato. Ti prende la testa, la vuole controllare totalmente. Con la paura e con la manipolazione. Nel suo libro, Park spiega come funziona in ogni recesso del cervello. «Mi è stato insegnato a non esprimere mai la mia opinione, a non fare mai domande. A seguire semplicemente quello che il governo ordinava di dire o pensare. Credevo davvero che il nostro Caro Leader potesse entrare nella mia mente e punirmi per i cattivi pensieri. E se lui non poteva udirmi, c’erano spie dappertutto, in ascolto dalle finestre o nel cortile della scuola». La mamma le ripete un ammonimento costante: “Acqua in bocca”. «“Ricordati”, mi disse con affetto una volta, “perfino gli uccelli e i topi possono sentire i tuoi sussurri”». Lei la chiama “dittatura emotiva”: «Al governo non basta controllare dove vai, cosa studi, dove lavori, ciò che dici: ti controlla anche attraverso le emozioni, distruggendo la tua individualità e la tua capacità di reagire». A scuola vengono inculcati i 10 comandamenti, tipo “non avrai altro dio che il Caro Leader”; muri e libri di testo sono popolati di «immagini grottesche di soldati americani con occhi chiari e nasi enormi che ammazzavano civili o venivano trafitti da lance e baionette scagliate da coraggiosi bambini coreani». La matematica viene insegnata così: «Se ammazzi un bastardo americano e il tuo compagno ne ammazza due, quanti sono i bastardi americani morti?».
È in questo mondo che, paradossalmente, la carestia degli anni Novanta apre la strada al mercato. Nero, naturalmente. Ma è, a suo modo, una rivoluzione culturale: per sopravvivere, tutti si danno da fare in un’economia parallela. Portano in strada, per venderlo a pochi soldi, ciò che l’orto produce: altri, via via, pensano sempre più in grande. E, nelle crepe della struttura economica a controllo statale, cominciano a trattare sigarette, poi prodotti contraffatti cinesi — da vestiti e borse all’elettronica — fino ai metalli preziosi. La corruzione si fa quindi sistema. E qui, la storia personale di Yeonmi Park comincia a dipanarsi. Un racconto straordinario, che vede il papà — che non era prigioniero dello «stesso lavaggio del cervello» del resto della famiglia — vivere momenti di benessere per poi finire catturato nelle maglie del sistema di polizia; la madre cercare di proteggere il marito e le due figlie; la stessa Yeonmi cominciare a provare i primi sentimenti “borghesi” d’amore. Fino alla fuga, improvvisa, a 13 anni, attraverso il fiume che divide il confine dalla Cina. Ma che non è l’inizio della fine: nelle memorie della giovane nordcoreana, è solo la metà del percorso. La libertà, che comincia a conoscere a piccole dosi, arriverà dopo un’ulteriore traversata del deserto.

Le bestie che trafficano umani. Ovunque. Meglio: dei deserti. Al plurale: fisici — quelli che la portano in vari regioni della Cina, e poi, attraverso il Gobi, in direzione della Mongolia, tappa verso l’approdo in Corea del Sud. Ma, soprattutto, deserti spirituali. Perché, mentre cerca di individuare la luce verso l’uscita del tunnel, la piccola Park sprofonda sempre più verso gli inferi. Deve assistere agli stupri della madre, che si sacrifica nel tentativo di preservarla bambina dai trafficanti di uomini: bestie fameliche in agguato ovunque ci siano esseri umani che vogliono fuggire nella speranza di diventare liberi dal dispotismo, dalla guerra o dalla fame (non dimentichiamolo, ancora, quando rivolgiamo lo sguardo al nostro Mediterraneo).
Dovrà lei stessa — appena quattordicenne — trattare la propria salvezza, e quella dei genitori, mentre viene ceduta di gang in gang, per qualche centinaio di dollari. Sprofonderà nel mondo criminale sotterraneo cinese, offrendosi compagna di un capobanda buddista che ne abusa, pur con qualche brandello di umanità, e comunque la costringe a fare da mediatrice nella vendita di altre sventurate nordcoreane agli “utenti finali”, contadini, spesso disabili, di cui diventano mogli-schiave nella Cina profonda dei figli unici maschi dove mancano le donne. E poi ancora fughe, sempre più giù, perfino nell’universo delle chat-room erotiche dello Shenyang. Ma senza perdere — mai — la speranza: a cominciare da quella di ritrovare l’amata sorella, fuggita forse per un altro percorso e svanita nel nulla.
Sembra una spirale senza fine. Ma Yeonmi Park, quella luce verso la libertà, ha continuato a cercarla. E ci racconta come l’uscita dal tunnel non sia arrivata neppure con il semplice approdo in Corea del Sud: qui, per chi arriva dal Nord, ci sono ancora troppi pregiudizi. E poche persone pronte a offrirti prospettive. Ma la libertà, in sé, è la risposta. Lei, tuffandosi nei libri, in un paio d’anni ha recuperato gli studi perduti: elementari, medie, superiori. E poi l’università, l’immersione nei libri, l’inglese. Una preparazione di ferro che le ha dato la capacità di catapultarsi fino ai summit internazionali e perfino nei programmi della tv sudcoreana. Per testimoniare la propria esperienza. Qui cita la scrittrice americana Joan Didion: «Ci raccontiamo delle storie per riuscire a vivere». Quella che ha messo nel libro, però, non era ancora riuscita a tirarla, per intero, fuori dal cuore. «Senza tutta la verità, la mia vita non avrebbe avuto alcuna consistenza, non avrebbe avuto davvero senso», conclude. La verità vi renderà liberi, dice Gesù nel Vangelo di Giovanni. Yeonmi Park, che deve un pezzo della sua libertà anche all’aiuto di missionari cristiani, spera che la sua verità possa contribuire, un giorno nemmeno troppo lontano, a rendere libera la sua gente.