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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

1. REALISTA IN POLITICA ESTERA1

in ambito filosofico Obama è evidentemente un idealista. Al pari di Fichte e di Croce, per il presidente la conoscenza della realtà è sempre mediata dalla percezione soggettiva. A dispetto di guerre apparentemente irrisolvibili, di proliferanti Stati falliti, di parossistica tensione tra potenze indigene – o forse a causa di tutto ciò – ai suoi occhi il Medio Oriente si presenta come un notevole successo. Gnoseologia utilitaristica e pregiudizio geopolitico, connotati dal vantaggio geografico dell’Io in questione. Specie in seguito all’accordo raggiunto con l’Iran, l’atto che Barack considera il suo capolavoro strategico, l’eredità che tramanderà ai posteri. Giacché il riconoscimento de facto della Repubblica Islamica, avvenuto con trentasei anni di ritardo, consente alla superpotenza di rafforzare il suo ruolo di grande burattinaio del Vicino Oriente. E contribuisce a impedire l’ascesa di un egemone regionale. Che non sarà l’Iran, disperatamente impegnato a tenere in vita il residuo della mezzaluna sciita. Né la Turchia, terrorizzata dalla nascita lungo i suoi confini di uno Stato curdo e dalla recrudescenza di un’opposizione in- terna sponsorizzata dagli stessi Stati Uniti. Né Israele, sospettoso delle intenzioni di Washington e incapace per taglia di sovrastare il circondario. Né tantomeno l’Arabia Saudita, costretta dalla redenzione iraniana a stringersi alla Casa Bianca, oppure a mostrare la propria inadeguatezza operativa intervenendo direttamente nei conflitti. Mentre i rovesci subiti di recente da al-Asad hanno attirato la Russia nella maionese siriana. Per Barack l’ennesimo sviluppo che ne favorisce il disegno geopolitico, nonché la definitiva certificazione del suo successo.

Gli Stati Uniti riconoscono a livello globale due soli nemici di natura strategica: la Cina e il possibile, ancorché attualmente impraticabile, binomio Germania- Russia. Le altre nazioni, nessuna esclusa, rappresentano alleati e avversari estemporanei. Così nel Levante, dove non si incontrano i suddetti antagonisti, il fine ultimo dell’azione obamiana è instaurare un equilibrio di potenza che lo affranchi dall’incombenza di intervenire in loco e gli consenta di osservare con vitrea imperturbabilità il caos che consuma la regione. Uniche linee rosse: la sicurezza della Šarqiyya saudita, ricca di giacimenti petroliferi; la difesa dell’integrità territoriale israeliana; la stabilità del Bahrein, arcipelago in cui è di stanza la Quinta flotta Usa. Il resto è di esclusiva competenza delle locali cancellerie. Parafrasando un popolare adagio statunitense: «Ciò che accade in Medio Oriente, resta in Medio Oriente»2. Con Ankara, Gerusalemme, Teheran e Riyad condannate a perseguire, invano, il primato regionale. L’intesa siglata con l’Iran, scientificamente mistificata da negoziato multilaterale, aderisce all’azione americana perché trasforma gli ayatollah nell’antemurale di turchi e israeliani e persuade gli altri paesi a cercare la protezione del patron atlantico. Non solo. Nel prossimo futuro il gas persiano, attraverso la Turchia, dovrebbe raggiungere l’Europa per ridurre la dipendenza del Vecchio Continente dall’Orso russo.

L’accordo sopravvivrà all’attuale amministrazione3. Obama ha sottoscritto un documento che non prevede ratifica da parte del Senato, dunque gli Stati federati manterranno le sanzioni applicate all’Iran4. Ma per logiche intrinseche al sistema politico e agli apparati statunitensi l’apertura nei confronti di Teheran è destinata a tramutarsi in una costante della geopolitica a stelle e strisce. Indipendentemente dal partito cui apparterrà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Non a caso, in seguito all’agevole approvazione del testo in sede parlamentare e nonostante la notevole distanza temporale dalle elezioni favorisca l’irresponsabilità dei candidati presidenziali, di recente alcuni esponenti repubblicani hanno ammesso che non rinnegheranno l’intesa raggiunta. «Non vi prometto che annullerò l’accordo. Prima ne dovrei discutere con i nostri alleati, con i segretari di Stato e della Difesa. Credo sia necessario mostrarsi maturi sull’argomento»5, ha spiegato Jeb Bush. «Non avrebbe senso ripudiare il documento in questione. È senza dubbio un pessimo contratto, ma gli iraniani capiranno che se lo infrangono la pagheranno molto cara»6, ha aggiunto Donald Trump, candidato dell’estrema destra populista.

A dispetto della propaganda americana, che diffonde nella regione l’artefatta immagine di un idillio, il compromesso viennese aumenterà il distacco di Washington dalle questioni levantine, ma non partorirà un’alleanza. Teheran rappresenta soltanto un tassello dell’architettura obamiana, con cui la superpotenza sceglie di collaborare o di scontrarsi a seconda del teatro bellico. Segnatamente le due nazioni sono schierate dalla stessa parte in Iraq e in Afghanistan, viceversa si combattono (per procura) in Siria e in Yemen. In Iraq sono entrambe impegnate a difendere l’unità del paese o perlomeno a mantenere il potere nelle mani della maggioranza sciita. Addirittura nella provincia dell’Anbār, a ovest di Baghdad, membri delle forze speciali Usa condividono una base con le Forze di mobilitazione popolare, una milizia finanziata da Teheran che negli anni più drammatici dell’occupazione irachena ha mietuto numerose vittime tra i marines. Intanto in Afghanistan le due potenze agiscono di concerto per scongiurare un ritorno al potere dei taliban e impedire un rafforzamento della presenza di al-Qā‘ida. Proprio il coordinamento diplomatico tra le due cancellerie, esaltato dall’ottimo rapporto personale tra il segretario di Stato John Kerry e l’anglofono ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, lo scorso anno ha risolto l’impasse legislativa determinando l’avvento alla presidenza del paese di Ashraf Ghani.

In Siria invece gli ayatollah difendono al-Asad dall’insurrezione sunnita, in primis dall’assalto dello Stato Islamico (Is); mentre gli americani puntano a defenestrare il dittatore alauita, benché non vogliano sostituire l’intero regime baatista. Infine, nello Yemen la Casa Bianca è con i sauditi nella lotta contro gli ḥūṯī, per Riyad il proxy con cui i persiani vogliono estendere la loro influenza fino alle propaggini del regno. Meccaniche di una relazione assai complessa, nel cui ambito Washington si muove a ritmo alternato, sottraendo e aggiungendo, laddove la Repubblica Islamica è in vantaggio sui suoi avversari oppure pare sul punto di soccombere.

2. Ancora più rilevante è ciò che l’evoluzione persiana, assieme agli sconvolgimenti finora causati nella regione dagli Stati Uniti per ridurre il potere negoziale degli ayatollah, sta generando sulle cancellerie locali e internazionali. Anzitutto sulla Turchia, la potenza cui Oltreoceano si riconoscono le maggiori possibilità di dominare il Medio Oriente. Crocevia naturale per le condotte gasiere che proprio dalla Persia o dalla Siberia dovrebbero puntare verso l’Europa, oltre che attore dirimente in caso di ostilità russo-statunitensi nel Mar Nero, in linea teorica Ankara potrebbe limitarsi a sfruttare la sua appetibilità geografica. Se non fosse che negli ultimi anni l’attuale presidente Erdoğan ha fallito pressoché ogni impresa in cui si è lanciato. Dal progetto di cavalcare, attraverso la Fratellanza musulmana, le cosiddette primavere arabe, all’idea di scatenare un improbabile attacco americano contro al-Asad; fino all’intento di telecomandare lo Stato Islamico per coinvolgere i governi occidentali nel conflitto siriano.

Ne deriva che in questa fase Ankara teme, oltre all’avanzamento degli iraniani, soprattutto la nascita tra Siria e Iraq di uno Stato curdo che si allacci al Kurdistan interno, resa possibile dal foraggiamento della ribellione sunnita cui ha partecipato largamente lo stesso governo turco. Così a fine luglio, anche per ragioni meramente elettorali, Erdoğan ha concesso all’Air Force statunitense l’utilizzo della strategica base di İncirlik con l’obiettivo di arginare i miliziani del «califfo» (nel frattempo divenuti incontrollabili) e creare una no-fly zone a nord di Aleppo. Mentre sotto il vessillo della lotta al terrorismo l’aviazione turca prendeva di mira i peshmerga e i guerriglieri curdi del Rojava. Sicuro che tale concessione sa- rebbe risultata decisiva nella campagna contro Damasco, ancora una volta Er- doãan ha frainteso i propositi di Obama.

Lungi dal pensarlo come una minaccia strategica, la Casa Bianca ritiene lo Stato Islamico un soggetto utile ad attirare nella contesa le nazioni limitrofe e indurle a impantanarsi. In nuce: il «califfato» va contenuto, non obliterato. Come di- mostrato dalla poca belligeranza dei caccia americani, che da quando è cominciata la missione internazionale contro l’Is nel 75% dei casi sono rientrati alla base senza aver sganciato neanche una bomba7. E corroborato dalle recenti rivelazioni per cui gli analisti del Pentagono hanno ritoccato statistiche e notizie relative alla formazione jihadista con l’obiettivo di magnificare l’offensiva occidentale8 e presentare il nemico come prossimo al collasso . Anziché utilizzare İncirlik per intensificare la guerra, Obama si è mosso per smascherare il bluff turco. Continuando a perseguire, attraverso l’influenza dell’iman Fethullah Gülen, l’indebolimento di Erdoğan e condannando l’azione condotta contro le milizie curde, sebbene non intenda presiedere alla creazione di un nuovo Stato in Medio Oriente.

Diverso lo scenario per gli israeliani, che in questa fase lamentano l’erosione dello status di alleato privilegiato degli Stati Uniti. Causa del percepito oltraggio non sono le concessioni garantite a Teheran in tema di nucleare. L’intelligence e i vertici militari dello Stato ebraico non hanno mai creduto che l’Iran fosse vicino alla Bomba, né che fosse possibile distruggere le centrali atomiche incastonate nelle montagne persiane. Come rivelato forse involontariamente ad agosto dall’ex premier Ehud Barak, per ben tre volte negli ultimi anni Israele è stato a un passo dall’attaccare la Repubblica Islamica, ma ha abbandonato il progetto per l’opposizione dell’allora capo di Stato maggiore, Gabi Ashkenazi, e per la necessità di non indispettire gli americani9. Piuttosto, secondo Netanyahu, Obama ha imperdonabilmente sacrificato la serenità strategica di Israele sull’altare del concerto di potenze. In realtà per motivi religiosi, politici e culturali, la difesa dello Stato ebraico continuerà ad essere priorità incancellabile dell’azione statunitense, eppure Bibi non può tollerare la normalizzazione che gli impone l’asettica visione imperiale di Barack. Ne è esempio un colloquio avvenuto la scorsa estate nella notte viennese, nel quale le delegazioni americana e persiana, alla presenza di numerosi testimoni, hanno criticato l’atteggiamento «poco lungimirante» di Gerusalemme. Provocando la rabbiosa protesta del premier israeliano.

Benché la riabilitazione dell’Iran non scalfisca in alcun modo la deterrenza israeliana – non fosse altro perché Teheran non possiede l’atomica – John Kerry ha promesso alle autorità ebraiche un notevole compenso di natura militare. In particolare, il Congresso statunitense ha approvato ulteriori tre miliardi di dollari da devolvere al sistema di difesa missilistica Iron Dome e nel 2016 Israele sarà la prima nazione mediorientale a dotarsi di caccia F-3510. Poco persuaso dalle nuove elargizioni, Netanyahu spera comunque in un decisivo rilancio delle relazioni bilaterali da parte del prossimo presidente, senza comprendere che la nuova amministrazione confermerà l’approccio attuale. Da tempo il Medio Oriente non è più un dossier centrale della pianificazione statunitense e non sarà il capriccio di un politico a renderlo nuovamente fondamentale. Impossibilitato dalla demografia a imporsi sulla regione, per la prima volta Israele è costretto a interrogarsi sulle future mosse del partner atlantico.

In ogni caso una congiuntura nettamente più felice di quella che vive l’Arabia Saudita, ormai alleato informale dello Stato ebraico. Attraverso il massiccio e quasi autolesionistico aumento della produzione petrolifera, Riyad ha inferto un duro colpo all’industria americana degli idrocarburi da scisti, oltre che al Cremlino in quanto protettore di Damasco, ma ha dovuto accettare la riabilitazione del grande nemico persiano e adattarsi all’ormai manifesto ritiro di Washington. Dopo le schermaglie iniziali, con tanto di rifiuto a maggio da parte di re Salmān di partecipare al summit tra Stati Uniti e monarchie del Golfo, nelle ultime settimane i sauditi hanno ufficialmente dichiarato di sostenere l’intesa raggiunta con gli ayatollah11. Quindi si sono impegnati ad acquistare armamenti made in Usa per un valore di un miliardo di dollari. Nel frattempo sono intervenuti in Yemen per contrastare gli ḥūṯī, giacché consapevoli che neanche in caso di tragedia umanitaria Obama avrebbe partecipato direttamente alle operazioni belliche. Se nel novembre 2008 il re ‘Abdallāh s’era detto fiducioso di trasformare Barack in un perfetto musulmano12, palesando la certezza di manipolare il presidente in pectore, oggi la Casa reale sa di non poter incidere sulle sue scelte strategiche. E forse neanche sulle sue inclinazioni spirituali.

3. In tale contesto, segnato dallo scontro tra sunniti e sciiti e dai movimenti delle principali potenze internazionali, si inserisce l’intervento militare russo. Per Obama un’ulteriore svolta positiva. Con gli strateghi d’Oltreoceano a ricordare che era dai tempi dell’invasione dell’Afghanistan che Mosca non si trovava impegnata sul campo di battaglia contro guerriglieri islamici armati da Stati Uniti, Turchia e monarchie del Golfo. Eppure all’inizio di settembre la notizia di un massiccio dispiegamento in Siria di uomini e mezzi del Cremlino aveva colto la Casa Bianca di sorpresa. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov non aveva mai menzionato l’eventualità nei numerosi dialoghi avuti con John Kerry per trovare una soluzione «diplomatica» alla crisi siriana e nelle prime ore la Casa Bianca si è interrogata sul da farsi. Finché non è subentrata la soddisfazione per una manovra che dimostrerebbe la bontà della tattica statunitense. Così alle funeste dichiarazioni di Obama per cui «la strategia di Putin è destinata a fallire»13 ha fatto seguito il benvenuto fornito da Kerry alle truppe russe che «vogliono combattere lo Stato Islamico»14.

D’altronde, principio fondante della dottrina obamiana è creare vuoti in cui condurre partner e antagonisti, obbligandoli a devolvere preziose risorse in teatri secondari. Esattamente quanto capitato alla superpotenza nel Grande Medio Oriente all’indomani dell’11 settembre e che ora potrebbe riguardare la Russia. Già costretta a puntellare il fronte occidentale in seguito alla crisi ucraina e in piena recessione economica, Mosca rischia di esporsi pericolosamente per mantenere la propria forza negoziale al cospetto degli Stati Uniti e utilizzare gli eventi mediorientali per ottenere concessioni in Europa. Peraltro, un intervento diretto all’interno di un conflitto combattuto per procura dai principali attori internazionali è di per sé sgrammaticato e può avere effetti collaterali giudicati alquanto positivi da Washington.

Cosciente della sofisticatezza della contraerea russa, la Turchia sembra aver già rinunciato alla no-fly zone che immaginava di realizzare con il sostegno americano, liberando il Pentagono dall’incombenza di assumere una decisione in materia. Analogamente, numerosi gruppi di ribelli – tra questi Ğayš al-Fatī – hanno abbandonato il proposito di conquistare la provincia di Latakia. Una rinuncia che si conforma alla volontà di Obama di mantenere intatta la regione alauita nel fu- turo assetto della Siria. Né il presidente è preoccupato dalla riduzione del margine di manovra israeliano nel colpire Ḥizbullāh o le forze speciali iraniane, visto che Gerusalemme intrattiene spesso relazioni più cordiali con il Cremlino che con l’odierna Casa Bianca.

Sicché, dopo aver chiesto a Grecia, Bulgaria, Turchia e Iraq di interdire lo spazio aereo ai velivoli da trasporto russi, Obama ha internamente indicato la questione come di secondaria importanza. Sul tema si è svolta una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale cui hanno partecipato i vice dei titolari e il segretario alla Difesa, Ashton Carter, ha contattato il suo omologo Sergej Šojgu soltanto per evitare nefasti incidenti tra l’Air Force e il contingente russo. Probabilmente, la determinazione di Putin prolungherà la permanenza di al-Asad al potere e indebolirà notevolmente gli insorti vicini all’Occidente, ma Obama ritiene le fazioni impegnate in guerra attualmente indisponibili a trattare e anche il Congresso sta accettando l’idea che il dittatore baatista rimanga in sella almeno nella fase iniziale di un’immaginata transizione. Se poi i russi passassero addirittura all’attacco, partecipando «cineticamente»15 alle ostilità, Washington si limiterà a osservare gli eventi con compiacimento.

Tanta impassibilità è dovuta a ragioni congiunturali e strutturali. In Medio Oriente la Casa Bianca non rischia propri uomini sul terreno, ha inserito l’Iran nello schema dell’equilibrio e i governi regionali dipendono largamente dalla sua volontà. Certo, in Siria i proxies Usa appaiono in netta difficoltà – secondo quanto dichiarato dal generale Lloyd Austin, comandante del Centcom, appena «quattro o cinque ribelli (sic) addestrati dagli americani sono pronti alla guerra»16 – ma per Obama si tratta di una vicenda di rilevanza trascurabile. Così come non lo sconvolge l’odissea dei rifugiati, considerata di esclusiva pertinenza dell’Europa. Lo ha specificato il capo delle Forze armate Martin Dempsey, per il quale spetta ai soli paesi europei l’onere di intervenire per tamponare l’emorragia17, magari scontrandosi proprio con Mosca. E poco conta se Washington è scaturigine del caos attuale: i suoi superiori mezzi militari la rendono indispensabile ai governi che intendono difendersi dall’insicurezza. Soprattutto, a differenza dei principali attori internazionali, gli Stati Uniti possono letteralmente ritrarsi dal Medio Oriente e mettersi al riparo dagli sconvolgimenti in corso. Tramutando ancora una volta l’isolamento del continente nordamericano in vantaggio strategico. Perché se è vero che la sensibilità cognitiva conta più della realtà stessa, è altrettanto sicuro che il disimpegno è un lusso che la geografia concede soltanto alla superpotenza.

1. Secondo la vulgata governativa, Obama è un «realista riluttante». La definizione agiografica è: «Obama is basically a realist, but he feels bad about it». Cfr. D. REMNICK, «Watching the Eclipse», The New Yorker, 11/8/2014. Secondo lo stesso Obama invece, lui è semplicemente un realista e il suo modello dichiarato è Bush padre.

2. La massima originale è: «What happens in (Las) Vegas, stays in (Las) Vegas».

3. D. FABBRI, «Perché l’accordo con l’Iran sopravvivrà a Obama», Limes, «La radice quadrata del caos», n. 5/2015, pp. 153-160.

4. Trenta Stati Usa impediscono ai fondi pensionistici di investire in Iran e undici di questi vietano alle agenzie statali di acquistare prodotti e servizi da aziende e individui persiani inseriti in una apposita li- sta nera. Cfr. United against nuclear Iran, State Legislation, www.unitedagainstnucleariran.com/state- legislation

5. Citato in E. STOKOLS, «Bush vs. Walker: Round 1 of a Long Brawl», Politico, 20/7/2015.

6. Citato in «Trump Says Iran Deal Struck by “Totally Incompetent People”», Associated Press, 4/9/2015. Trump non vuole vincere le elezioni ma le sue posizioni, in quanto istanze dell’estrema destra, sono significative.

7. J. KLIMAS, «U.S. Bombers Hold Fire on Islamic State Targets amid Ground Intel Blackout», The Wa- shington Times, 31/5/2015.

8. S. HARRIS, N. YOUSSEF, «Exclusive: 50 Spies Say ISIS Intelligence Was Cooked», The Daily Beast, 9/9/2015.

9. J. RUDOREN, «Israel Came Close to Attacking Iran, Ex-Defense Minister Says», The New York Times, 21/8/2015.

10. A. KREDO, «Kerry Promises Israel, Saudis Money in Wake of Iran Nuclear Deal», The Washington Free Beacon, 2/9/2015.

11. Joint Statement on the Meeting between President Barack Obama and King Salman bin Abd alA- ziz Al Saud, The White House, Office of the Press Secretary, 4/9/2015.

12. R. LACEY, Inside the Kingdom. Kings, Clerics, Modernists, Terrorists and the Struggle for Saudi Arabia, London-New York City 2020, Random House, p. 302. Citato nell’editoriale «Il triangolo no», Limes, «L’Iran torna in campo», n. 9/2013, p. 5.

13. Citato in M. GORDON, E. SCHMITT, «Russian Buildup in Syria Raises Questions on Role», The New York Times, 19/9/2015.

14. Ibidem.

15. L’avverbio, introdotto dallo speechwriter Ben Rhodes, è largamente in uso alla Casa Bianca quale edulcorato sinonimo di «fare la guerra».

16. Citato in S. ACKERMAN, «US Has Trained only “Four or Five” Syrian Fighters against Isis, Top Ge- neral Testifies», The Guardian, 16/9/2015.

17. Citato in C. BABB, «Top US General: Refugee Crisis Likely to Galvanize Europe in Syrian Con- flict», Voice of America, 13/9/2015.