Matteo Toaldo, Limes 8/10/2015, 8 ottobre 2015
/10/2015
Dopo le rivolte arabe, l’accordo sul nucleare spinge ancora più ai margini il conflitto tra israeliani e palestinesi. Netanyahu prova a usarlo per costruire nuove alleanze nella regione. Nel frattempo i palestinesi continuano a dividersi.
di Mattia Toaldo
ARTICOLI, Hamas, Israele, nucleare, Palestina, Benjamin Netanyahu, Medio Oriente
L’ACCORDO SUL NUCLEARE IRANIANO avrà con molta probabilità effetti rilevanti sulla questione israelo-palestinese. Per- ché ne consoliderà l’irrilevanza nelle dinamiche regionali e anzi confermerà la subalternità di ogni soluzione del conflitto alle nuove alleanze scaturite dall’opposizione all’accordo con Teheran: quell’alleanza sempre meno implicita tra Israele e le potenze arabe conservatrici che rassicura tanto Gerusalemme.
Queste dinamiche complicano la riconciliazione interna palestinese, rendendo ancor meno credibile un accordo tra Netanyahu e chiunque controlli Rāmallāh. La necessità di compensare Israele per la pace con l’Iran potrebbe guidare anche l’azione americana ed europea. Ma le conseguenze più notevoli si hanno già nella quasi unanimità del quadro politico israeliano a favore di Netanyahu.
Un conflitto irrilevante o subalterno
Le primavere arabe hanno inferto un primo grande colpo alla centralità della questione israelo-palestinese – e continuano a colpire. Di fronte alle guerre in Siria, Iraq, Libia e Yemen il conflitto israelo-palestinese è riuscito a guadagnare le prime pagine solo nell’estate 2014 durante la guerra tra Israele e Ḥamās.
La relativa stabilità tra il Giordano e il Mediterraneo tranquillizza le cancellerie occidentali, paragonata con il marasma che la circonda: i quattro milioni di rifugiati siriani accampati tra Turchia, Libano e Giordania; l’esplosione dello Stato Islamico tra Mesopotamia e Siria; la crescente instabilità dell’Egitto di al-Sīsī, sempre più sotto attacco da diverse organizzazioni terroristiche.
È un fatto tanto triste quanto innegabile: della sorte dei milioni di rifugiati palestinesi nella regione, molti dei quali ridotti letteralmente alla fame in Siria, non importa più a nessuno in questa «crisi dei rifugiati» che sembra focalizzarsi
solo sugli sventurati siriani. Dalle «primavere» del 2011 in poi, i palestinesi hanno faticato parecchio a conservare la loro posizione di «questione chiave» per risolvere ogni puzzle regionale – e anzi i fatti sembrano dimostrare esattamente il contrario, condannando i palestinesi all’irrilevanza sia in Occidente sia, soprattutto, nelle capitali arabe.
In questo quadro, i negoziati e poi l’accordo sul nucleare iraniano sono stati il colpo di grazia. Per diversi motivi. In primo luogo, perché per Israele stesso l’Iran è da diverso tempo una questione molto più importante della pace con i palestinesi. Una sensazione condivisa sia dal primo ministro Netanyahu sia dall’opinione pubblica: se c’è una minaccia esistenziale alla sopravvivenza dello Stato ebraico questa viene da Teheran, non da Gaza dove ha sede il governo di Ḥamās né tantomeno da Rāmallāh dove siedono l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), entrambe per il momento presiedute da Abu Mazen.
In secondo luogo, e come conseguenza immediata, quando gli europei e gli Usa guardano alle fonti di tensione nei rapporti con Israele, la questione palestinese è sul piatto della bilancia insieme all’accordo con l’Iran. L’ostilità creata in Israele da quest’ultimo va bilanciata con una maggiore prudenza sul primo argomento. Non a caso, il discorso di Renzi alla Knesset il 22 luglio citava come motivo di disaccordo la firma con l’Iran, cercando poi di ricucire sulla questione palestinese in nome della soluzione dei due Stati (sulla quale Netanyahu è ancora formalmente d’accordo) e per lavorare allo sviluppo economico palestinese – un’idea cara al primo ministro israeliano, quella della «pace economica» in alternativa a quella politica.
Con l’amministrazione Obama, stando ad alcune fonti diplomatiche, potrebbe succedere anche il contrario: la tensione accumulata per le interferenze di Netanyahu nel dibattito al Congresso sull’accordo iraniano potrebbe sfociare in un rinnovato impegno della Casa Bianca e del dipartimento di Stato a favore dei negoziati sulla questione israelo-palestinese. Ma quei membri del Congresso che hanno fatto uno sgarbo a Israele sull’Iran difficilmente lo ripeteranno sui palestinesi. Non è solo questione della potenza della lobby pro Israele a Washington ma anche dell’effettiva popolarità dello Stato ebraico tra gli elettori americani.
Con l’approssimarsi delle nuove elezioni presidenziali, in pochi vorranno ap- parire come antisraeliani. Ne sono un esempio le dichiarazioni del vicepresidente Biden, in odore di candidatura nel 2016, che traduce in americano il nostro «a Fra’ che te serve?». Il 9 settembre, Biden ha dichiarato a una cena con la leadership ebraica americana nella sua residenza ufficiale che gli Usa sono «completamente e totalmente» preparati a vedersi con l’intelligence e la Difesa israeliani chiedendogli una sola cosa: «Di cosa avete bisogno?».
Ma gli israeliani hanno detto no. Bisognerà vedere nei prossimi mesi se ci saranno nuovi tentativi da parte americana e tuttavia la strategia israeliana è chiara: Obama tra poco più di un anno sarà fuori dalla Casa Bianca; Netanyahu ha comunque dimostrato di saper mobilitare più congressmen di tanti leader politici americani; tutti i candidati alle presidenziali per ora si prospettano come più filoisraeliani dell’attuale presidente.
Il terzo motivo per cui l’accordo sull’Iran non promette bene per la centralità della questione israelo-palestinese ha a che fare con il Medio Oriente. L’Iran, molto più della Palestina e dell’emergere dello Stato Islamico, stabilisce i veri schieramenti oggi nella regione. Ed è per questo che sauditi e israeliani possono ammettere pubblicamente di avere rapporti informali o che diversi ministri israeliani possono sostenere la necessità di consolidare l’alleanza implicita con Riyad o Abu Dhabi in funzione antiraniana. La consapevolezza di non essere più, a causa dell’occupazione dei territori palestinesi, degli intoccabili nella regione ha rafforzato la fiducia in se stessa della leadership israeliana.
Quanto al nuovo re saudita Salmån, la sua priorità è il contenimento e lo sradicamento degli alleati dell’Iran in Siria e in Yemen. Questo combacia con la lotta trentennale di Israele contro l’espansione regionale iraniana, visto che sia al-Asad in Siria che gli ḥūṯī in Yemen sono alleati di Teheran e nemici di Riyad.
D’altronde, la paura israeliana dell’accordo con l’Iran non deriva soltanto dalla convinzione che la Repubblica Islamica rimanga vicina ad avere la Bomba, quanto all’accresciuto ruolo regionale dell’Iran come conseguenza dell’intesa con il P5+1. La strategia saudita e le possibili convergenze con altri paesi del Golfo, anzitutto gli Emirati Arabi Uniti, fanno ben sperare Gerusalemme.
I palestinesi, in questo quadro, sono o irrilevanti oppure una potenziale fonte di inutile disturbo: più di una potenza araba, negli ultimi 15 anni, si è scottata le dita cercando di ricucire lo strappo tra Ḥamās e Fatḥ. In più Ḥamās è un ospite sgradito quasi ovunque tranne che in Qatar in quanto costola della Fratellanza musulmana egiziana (che tutti tranne Doha hanno contribuito ad abbattere nell’estate del 2013), nonché organizzazione che in passato ha avuto buoni rapporti proprio con l’Iran. La guerra civile siriana ha demolito buona parte di tali rapporti, almeno da quando Ḥamās ha deciso di abbandonare il regime di Damasco sostenuto dall’Iran. Tuttavia le relazioni tra gli islamisti palestinesi e Teheran sono in risalita proprio perché il Movimento di resistenza islamica palestinese non può più contare su alcuna amicizia nel mondo arabo.
Israele: il consolidamento di Netanyahu
Poche questioni hanno creato tanta solidarietà nazionale in Israele come il nucleare iraniano. Tutto lo spettro politico dei partiti sionisti si distingue molto poco dalle posizioni del premier Netanyahu, lasciando fuori solo parti minoritarie della sinistra e la Lista unica che rappresenta in gran parte i cittadini israeliani di origine palestinese.
L’opinione pubblica sembra essere sulla sua linea. Ad agosto, secondo il sondaggio Peace Index dell’Israel Democracy Institute, il 72,7% dei cittadini di religione ebraica concordavano con Netanyahu che l’Iran è una minaccia esistenziale per Israele. Secondo il 78% l’Iran non rispetterà gli accordi. Nonostante un’ampia maggioranza ritenesse che la sua campagna per far bocciare l’accordo dal Congresso Usa fosse condannata al fallimento e che avrebbe danneggiato i rapporti con Washinghton, non emergeva una forte opposizione alla linea del primo ministro1.
Certo, il fallimento della strategia di Netanyahu, che puntava a una bocciatura dell’accordo da parte del Congresso, ha prodotto qualche critica. Ma più sulla tattica che sulla strategia. L’editorialista Shlomo Shamir sul quotidiano di centro-destra Ma’ariv lo ha criticato per aver puntato tutto sulla lobby pro Israele, la famosa e potentissima Aipac che ha investito 30 milioni di dollari in pubblicità contro l’accordo. Nel frattempo ignorando la leadership ebraica americana e usando i diplomatici sbagliati nella battaglia di Washington.
Ma a parte qualche decina di membri del vecchio establishment e la comunità scientifica, le voci israeliane che hanno criticato la sostanza dell’opposizione di Netanyahu all’accordo sono state poche e isolate. Lo scienziato Uzi Even, che ha lavorato al reattore nucleare di Dimona, ha detto che l’accordo «è stato scritto da esperti nucleari e blocca tutte le strade che io conosca per costruire una Bomba». L’ex capo del Mossad Efraim Halevy ha sostenuto che l’Iran ha fir- mato un testo che prevede un sistema unico di ispezioni, molto intrusivo e che per questo l’accordo è «cruciale per la sicurezza di Israele». Secondo il quotidiano di centro-destra Yediot Ahronot, sia il Mossad che l’intelligence militare hanno definito l’accordo come «ragionevole», dato che include modi per evitare la proliferazione iraniana nei prossimi dieci anni. Nessuno di loro è stato invitato a parlare alla Knesset, il parlamento israeliano. Né l’opposizione si è dimostrata interessata a organizzare eventi con esponenti dei servizi segreti per incalzare il primo ministro. D’altronde, come ha potuto dire in un messaggio su YouTube Netanyahu, «Isaac Herzog, il leader dell’opposizione laburista, ha detto che non ci sono differenze tra di noi quando si parla dell’accordo sull’Iran. (…) Tale questione è bipartisan in Israele»2.
In parlamento, Netanyahu conta solo teoricamente su una ristrettissima maggioranza di 61 seggi su 120. In realtà sull’Iran come in generale sulla politica estera e sui rapporti con i palestinesi, Netanyahu nel video su YouTube non bluffava: la sua maggioranza è ben più ampia e comprende i sei deputati del partito degli ebrei di origine russa Israel beitenu di Avigdor Lieberman nonché il Campo sionista di Isaac Herzog che include il Partito laburista e che teoricamente con 24 seggi sarebbe la più grande forza di opposizione. A questi si aggiungano gli 11 deputati dell’ex alleato di centro-destra Yesh Atid, guidati dalla star televisiva Yair Lapid, ora del governo ma sostenitori del rifiuto all’accordo.
Nessuno di questi partiti fa segnare particolari differenze con il primo ministro né sull’Iran né sui palestinesi. Questo porta la maggioranza su cui Netanyahu può contare in politica estera a 102 seggi su 120, numeri che sarebbero l’invidia di ogni presidente del Consiglio. Fin quando Netanyahu sarà in grado di tenere viva l’allerta su entrambe le questioni ma focalizzandosi sulla minaccia iraniana, sarà difficile che emerga un’alternativa alla sua leadership.
In questa strategia, l’unico elemento che potrebbe far mancare il sostegno del Campo sionista e di Yesh Atid potrebbe essere un eccessivo raffreddamento dei rapporti con gli Usa e con gli europei, in conseguenza non solo dell’opposizione di Netanyahu all’accordo nucleare ma anche di un suo sabotaggio di possibili colloqui di pace con i palestinesi. Ed ecco la seconda parte della strategia del primo ministro: oltre a mantenere alta la guardia sull’Iran e far notare sempre agli occidentali quanto abbiano deluso lo Stato ebraico con quell’accordo, è necessario anche dare costantemente l’impressione di essere i più disponibili alla ripresa del negoziato con i palestinesi. Ovviamente a condizioni ben precise.
Il successo di Bibi: il processo senza pace
In visita da David Cameron ai primi di settembre, Netanyahu si è detto pronto a riprendere il processo di pace con i palestinesi «senza alcuna condizione e voglio farlo immediatamente»3. Non era in realtà la prima volta che faceva dichiarazioni del genere. A Federica Mogherini in visita a Gerusalemme a maggio ave- va ribadito il suo impegno per la soluzione dei due Stati, purché i palestinesi riconoscessero Israele come lo Stato ebraico. Mogherini aveva detto di credere alla sincerità di Netanyahu. Quasi l’inizio di una moderata luna di miele tra i due, almeno secondo Mogherini, che si è convinta di poter fare con Netanyahu quello che non riuscì a suo tempo a Kerry e cioè fargli firmare un accordo di pace. Il leader conservatore israeliano invece usa la disponibilità europea a far ripartire il processo di pace per dimostrare alla Casa Bianca di avere alternative al rapporto privilegiato con gli Usa. Sempre in questo spirito, molti leader israeliani enfatizzano una «soluzione regionale» nella quale sarebbero protagonisti gli alleati del Golfo in funzione antiraniana.
Si tratta di una precisa strategia diplomatica che mira a costruire relazioni e alleanze per superare l’isolamento sulla questione iraniana. Alla fine, nonostante le loro forti riserve, i paesi arabi alleati dell’Occidente hanno negoziato il loro sostanziale appoggio all’accordo sul nucleare iraniano con il sostegno euro-americano alla guerra in Yemen e il silenzio-assenso sulla Siria.
Il processo di pace con i palestinesi, in questo senso, servirebbe a tenere insieme gli europei e a rendere l’alleanza implicita con i paesi arabi meno imbarazzante per questi ultimi. La garanzia per Netanyahu è che si tratterebbe di un processo senza pace, così come tutti i tentativi fatti negli ultimi quindici anni. Sul piano interno, infatti, il patto di coalizione non parla di «soluzione dei due Stati», mentre nella prima riunione del governo si è parlato di «diplomatic settlement» in cui coinvolgere anche i paesi della regione4.
Infatti, nonostante la sua coalizione molto spostata a destra, Netanyahu può muoversi su questo terreno con una certa sicurezza. Il processo di pace si è oramai definitivamente svuotato di contenuti e serve tutt’al più a dimostrare di non essere completamente immobili.
Basta vedere la vicenda della risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu a cui stava lavorando la diplomazia francese. Pensata come un modo per rilanciare il ruolo di Parigi nella politica araba e in risposta all’ondata di voti parlamentari in favore del riconoscimento della Palestina, la risoluzione doveva con- tenere i «parametri di base» utili a organizzare una conferenza di pace – organizzata dalla République, ca va sans dire. Questi parametri avrebbero incluso, per esempio, la divisione di Gerusalemme invisa a quasi tutto Israele ma anche forti limitazioni al diritto al ritorno per i profughi palestinesi o il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, questioni scottanti per i palestinesi. Dopo la rielezione di Netanyahu e in reazione alla sua opposizione all’accordo sull’Iran, sembrava anche che Obama avrebbe appoggiato (o quantomeno non ostacolato) questo progetto.
Invece, come sempre accade nel «processo senza pace», i veti incrociati hanno affondato la risoluzione. È rimasto in piedi il meccanismo pensato a suo tempo dai francesi: un International Support Group (Isg) di cui avrebbero fatto parte Usa, europei e alleati arabi oltre ovviamente alle due parti. Il compito di questo organismo sarebbe quello di condurre colloqui per far partire i negoziati, quello che gli americani chiamano «talks on talks». Tra gli obiettivi anche spingere per misure temporanee in grado di ricostruire la fiducia tra le parti. Queste però costringerebbero Netanyahu a scelte complicate come la chiusura di alcuni check-point o addirittura ritiri molto parziali da aree della Cisgiordania.
Gli europei hanno entusiasticamente appoggiato l’Isg in un vertice a luglio. A margine dell’Assemblea Generale dell’Onu si è tenuta una prima riunione. Alla fine, il nuovo giocattolo è semplicemente il «quartetto allargato»: cioè i quattro soggetti (Usa, Russia, Onu e Ue) che da dieci anni sovrintendono alla non realizzazione della road map che ora si allargherebbero ai paesi arabi alleati di Netanyahu nel contrasto all’Iran.
Le possibilità di successo di tale iniziativa si possono facilmente immaginare. E tuttavia per Netanyahu sarebbe la quadratura del cerchio, permettendogli di dimostrare estrema disponibilità al negoziato mentre si mantengono i nervi saldi sui «parametri», contando sul fatto che le reciproche linee rosse israeliane e palestinesi impediranno ogni accordo.
E sapendo che i palestinesi non sono pronti ora e che, viste le circostanze sia interne sia regionali, non lo saranno nel prossimo futuro.
Le crescenti divisioni palestinesi
I due grandi partiti palestinesi gestiscono governi separati da oramai otto anni: Ḥamās nella Striscia di Gaza e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen a Rāmallāh e in Cisgiordania. L’Anp è egemonizzata da Fatḥ, che fu di Yasser Arafat, e tuttavia oramai può essere descritta come una costellazione di potentati personali in cui i capi dei diversi servizi di sicurezza giocano un ruolo di primo piano. Le ultime elezioni palestinesi sono del 2006 e, vista la vittoria di Ḥamās, furono rigettate dall’Occidente. Poco dopo venne la divisione tra Gaza e Cisgiordania. A oggi l’Anp è governata per decreto dal presidente Abu Mazen, mentre il parlamento non viene convocato e parte dei suoi membri sono agli arresti.
L’Olp, un tempo gloriosa organizzazione ombrello di tutte le anime del movimento nazionale palestinese, è oggi organizzativamente e politicamente un ectoplasma, con pochissima indipendenza dall’Anp. Mentre l’Olp dovrebbe rappresentare tutti i palestinesi nel mondo (la stragrande maggioranza infatti non risiede in Cisgiordania), l’Anp dovrebbe occuparsi di amministrare i territori da cui si è ritirato Israele in base agli accordi di Oslo. Nella realtà però il presidente delle due organizzazioni è lo stesso (Abu Mazen appunto) e Ḥamās non è rappresentata nell’Olp.
Quando si parla di riconciliazione nazionale palestinese si intende solitamente la realizzazione di uno dei tanti accordi siglati tra Fatḥ e Ḥamās, l’ultimo dei quali è della primavera 2014 e ha dato luogo alla nascita di un governo di con- senso nazionale presieduto da Rāmī Ḥamdallāh. Si tratta di un gabinetto tecnico, sostenuto da Usa e Unione Europea. Ma anche questa riconciliazione è completa- mente ferma. E il governo di unità nazionale non governa ancora su Gaza.
Troppo difficile fondere le due burocrazie dopo otto anni e troppi gli osta- coli a livello regionale: né i paesi del Golfo né l’Egitto sarebbero entusiasti di una cooperazione tra Abu Mazen e Ḥamās, che è una branca della stessa Fratellanza musulmana che al-Sīsī e i suoi sostenitori regionali stanno reprimendo in Egitto. Ḥamās è incerta se riapprofondire i rapporti con Teheran o tentare la carta saudita. Una tanto strombazzata delegazione di alto livello in visita in Arabia Saudita è stata in realtà ammessa solo a un’udienza generale del re in occasione del Ramadan. Un po’ come dire che si è incontrato il papa, ma in un’udienza con altre decine di persone.
E se anche la riconciliazione Ḥamās–Fatḥ dovesse funzionare, lascerebbe irrisolti due nodi fondamentali. Primo, chi rappresenta il quasi mezzo milione di palestinesi di Gerusalemme Est? Le organizzazioni palestinesi sono state completa- mente sradicate dagli israeliani negli ultimi quindici anni e gli episodi di violenza dell’ultimo anno testimoniano di una situazione potenzialmente esplosiva. Secondo, tra la tragedia siriana e le sue ripercussioni in altri grandi bacini della diaspora palestinese come Libano e Giordania, è pura teoria pensare a strumenti di rappresentanza per quei milioni di palestinesi che non vivono nella Palestina storica.
Come se non bastassero questi elementi di debolezza, ce ne sono altri due più fondamentali e di difficile soluzione. Primo, Abu Mazen ha manifestato in va- rie occasioni la volontà di dimettersi. D’altronde il suo mandato era spirato addi- rittura nel 2009. Il problema è che non ci sono eredi apparenti e anzi c’è uno sfidante ostile, l’ex membro di Fatḥ Muḥammad Daḥlān, che a lungo è stato sostenuto dagli Emirati e, in parte, dall’Egitto, stimolando le paure dei suoi ex compagni di partito di trovarsi di fronte a una strategia regionale volta a cambiare la leadership. Nonostante gli addentellati di Daḥlān nella regione e in alcuni campi profughi, la sua scalata al vertice è improbabile.
Si profilano invece due tipi di soluzione, altrettanto deboli: un altro grande vecchio dell’Olp (i nomi più gettonati sono Ṣā’ib Erekat [‘Urayqāt] e Nabīl Ša‘aṯ), che mancherebbe però di potere reale e sarebbe tutt’al più un capo negoziatore, ma non il capo della struttura dell’Anp; un uomo dei servizi di sicurezza (o una direzione collegiale, un po’ come è stato lo Scaf egiziano), che però mancherebbe di legittimità popolare. In questo caso, si fa il nome di Māğid Farağ, capo dei servizi di intelligence e quindi uomo di fiducia sia per le potenze arabe sia per Israele5. In entrambi i casi si tratterebbe di figure deboli a capo di un’Autorità sempre più simile a un governo locale con ambasciate all’estero piuttosto che a un embrione di Stato.
Il secondo problema di non facile soluzione è la mancanza di una vera strategia in campo palestinese. Vent’anni dopo la firma degli accordi di Oslo II che misero in piedi la struttura vigente dell’occupazione e crearono l’Anp, non è chiaro come la leadership attuale voglia superare la suddetta occupazione militare e arrivare all’indipendenza. Si è parlato sia di «internazionalizzazione» che di «legalità internazionale», ma entrambe hanno portato a mosse poco più che simboliche, che non smuoveranno i rapporti di forza nel medio periodo – e forse neanche nel lungo.
In questo quadro, e in assenza di idee nuove e ricambio generazionale, il movimento palestinese non è una seria minaccia né per Netanyahu né per Israele nel suo complesso. Il che libera spazio e risorse da dedicare alle vere sfide: l’Iran e il nuovo sistema di alleanze regionali. Ma anche per gli israeliani sono arrivate delusioni: finora l’accordo sull’Iran è stato barattato dai nuovi alleati arabi di Israele con il sostegno occidentale alla guerra in Yemen e il silenzio assenso sull’escalation turco-saudita in Siria.