Massimo Coppola, Rolling Stone 10/2015, 9 ottobre 2015
SWEET HOME STRASBURGO
[Giovanni De Mauro]
L’idea di Europa è condannata a rimanere solo un’idea?
«Io ho l’impressione che oggi ci troviamo in una terra di mezzo, in cui l’Europa che viviamo come cittadini sia un’entità indefinita. Da un lato, non è più solo una forma di relazione tecnica, economica e commerciale, perché ormai è avvenuta una progressiva e significativa cessione di pezzi di sovranità di ogni Stato. La quantità di decisioni fondamentali che vengono prese a livello comunitario è impressionante. Contemporaneamente a questa cessione di parti di sovranità non è avvenuta una sostanziale cessione di potere politico; gli organi europei dipendono largamente dai parlamenti nazionali. Mentre le burocrazie hanno ceduto pezzi di potere, non è accaduto lo stesso alla politica. Un giorno la Merkel dice una cosa e il giorno dopo Tsipras o Renzi la contraddicono. Finché non avremo un governo europeo con un premier europeo con poteri largamente superiori a quelli dei governi nazionali, l’idea di Europa come è stata immaginata inizialmente non troverà compimento».
Oltre a ciò mi pare che, mentre le sempre più necessarie riforme che vadano nella direzione che indichi non vengono realizzate, si stia erodendo il patrimonio culturale da cui tutto è partito.
«Finché non svuotiamo di potere e di senso i governi nazionali non ce la faremo. Qualcuno potrà dire che è impossibile per ragioni linguistiche, culturali, politiche, strutturali o legali, ma d’altra parte l’Europa che abbiamo oggi scontenta tutti. Non si capisce nemmeno di cosa parliamo quando parliamo di Europa».
Infatti siamo costretti a discutere di un’idea non potendo discutere di politiche reali. Qualche giorno fa, Lucio Caracciolo su La Repubblica arrivava a proporre di separarci dai Paesi che non si allineano a una politica di accoglienza verso i migranti. Una specie di terapia d’urto.
«Come quando si discute l’uscita dalla moneta unica di alcuni Paesi. Certo non possiamo pensare che ci siano scelte irreversibili. Al tempo stesso, credo però che il ruolo della politica debba essere quello di mediare, costruire consenso e trovare punti d’incontro. Bisogna capire dove siamo disposti ad arrivare per risolvere i problemi, quali sforzi vogliamo fare. È chiaro che, se ognuno decide per sé, è più semplice, ma allora questa dinamica può essere riprodotta a ogni livello, perfino a quello di quartiere. Uno può decidere che in quel quartiere si guida a sinistra e via. Il confine lo stabiliamo noi: fin dove possiamo spingerci per stare insieme pur con punti di vista diversi? Quando si supera la soglia oltre la quale diventa impossibile stare insieme? Puoi porre una questione fondamentale e fare l’appello: chi ci sta è dentro, altrimenti è fuori. Ma lo sforzo deve essere quello di mediare e comporre».
Beh, se costruisci un muro lungo un confine nazionale tra Stati europei...
«Ma se hai un parlamento sovranazionale con pieni poteri politici, tu semplicemente non lo puoi costruire quel muro».
Dunque non vedi un rischio di diluzione del patrimonio culturale europeo, delle fondamenta valoriali dell’Unione? Quanto abbiamo disperso di quell’idea con le crisi greca e dei migranti? Sono solo momenti difficili di un percorso lungo e doloroso che si compirà o credi che minaccino l’esistenza stessa dell’idea di Europa?
«I valori europei ci sono eccome. Queste sono questioni – soprattutto quella dei migranti – che vanno al di là dell’Europa. È una questione politica che l’Europa intercetta, perché banalmente è la frontiera più raggiungibile. Ma quello dei migranti è un tema politico non nuovo: come comportarsi con i flussi migratori è una questione aperta da tempo immemore. Ha a che vedere con il tema della distribuzione delle risorse e delle ricchezze nel pianeta, con le disuguaglianze, con i sistemi capitalistici che ci siamo dati. La crisi attuale dipende da tutto questo, non certo dall’Europa. Poi certo tutto questo tocca l’Europa, che è messa alla prova severamente. Ma, di nuovo, io credo che ci sia un’identità europea. Se vai a chiedere a un ventenne di Parigi, Londra o Budapest se si sente europeo, credo che ti risponda di sì. Forse si sente europeo ancor prima che francese, inglese o ungherese».
Anche io mi sento europeo, ma non so se sono europeo, né tantomeno come dare rappresentanza al mio essere europeo. E la questione della cittadinanza, come dici bene tu, dipende anche se non soprattutto da questioni sovraeuropee e globali. La lampante asimmetria tra globalizzazione economica e iperlocalizzazione crescente della politica per esempio: manca un governo mondiale dei diritti. Dovremmo ricordarci che c’è qualcosa sopra di noi, che essere europei non vuol dire essere “tutto”.
«Ma se senti di essere europeo, vuol dire che sei europeo».
Forse. Che idea ti sei fatto della possibilità di un intervento militare in Siria? C’è chi considera una guerra inevitabile, penso per esempio ad Attali...
«Io non amo le previsioni, né sono in grado di farne. Spero proprio che non ci sia alcuna guerra – oltre quelle che già purtroppo sono in corso. Credo che l’intervento militare sia sempre da limitare il più possibile. Non produce niente di buono, se non vittime innocenti sotto cumuli di macerie. Ci sono stati certamente casi nella storia recente in cui l’intervento militare è servito a mettere fine a una precisa e circoscritta violazione palese dei diritti civili elementari. Mi piacerebbe che a livello europeo ci fosse una sede deputata e riconosciuta attraverso la quale tentare ogni via per lasciare come ultima ratio – e sempre con un consenso il più largo possibile – l’eventuale uso della forza. Poi sappiamo bene che mandiamo dei caccia a bombardare contraeree fornite gentilmente negli anni precedenti dagli stessi governi che poi mandano i caccia a bombardarle. Non sarebbe meglio evitare in primis che si creino le condizioni per l’uso della violenza da parte di chicchessia?».
Indiscutibilmente. Vorrei sapere cosa pensi della vicenda delle fotografie del povero bimbo senza vita sulla spiaggia. Se da un lato, io personalmente ho intravisto in alcune esibizioni una specie di macabra e molto cinica campagna pubblicitaria, è innegabile che, per esempio negli Stati Uniti, quelle immagini abbiano contribuito a trasformare una crisi ritenuta “locale” in qualcosa di cui almeno parlare, se non occuparsi.
«Una delle cose che mancano di più all’Europa è un luogo fisico – un giornale, un mezzo d’informazione, un sito – che possa formare un’opinione pubblica europea. In queste ultime crisi, uno dei vuoti più drammatici è legato al fatto che in Italia non sappiamo cosa pensano in Grecia, in Grecia non sanno cosa pensano in Spagna e così via. In ogni Paese si costruisce un dibattito limitato e chiuso, mentre dovrebbe essere largo e, appunto, europeo. Per farmi un’idea è fondamentale ch’io sappia cosa pensano gli altri europei! Manca un luogo di questo tipo ed è un luogo che certamente contribuirebbe anche a dare senso a quell’idea di Europa e a quelle immagini e notizie che finiscono in un frullatore che spara via frammenti impazziti di informazione. È una cosa urgente. Vorrei ci fosse una cordata di imprenditori illuminati europei che fondasse un quotidiano europeo. Potrebbe anche essere in inglese, ma pensato per un pubblico europeo. Ma è una cosa che deve nascere come europea e non da una iniziativa singola. E deve nascere presto».
D’accordo con te, anche se forse io preferirei un canale audiovisivo di news europeo. Anche da un punto di vista imprenditoriale è assurdo che manchi una piattaforma di questo tipo, se ci pensi. Forse dovremo affidarci a quei ventenni che si sentono europei per vederlo nascere.