Vittorio Zucconi, la Repubblica 9/10/2015, 9 ottobre 2015
GALLUP, L’ADDIO DEL RE DEI SONDAGGI
L’imperatore dei sondaggi è nudo e ammette di esserlo. Gallup, sinonimo e signore da 80 anni del sondaggio d’opinione politico moderno, si chiama fuori dalla corsa alla Casa Bianca 2016 ammettendo l’impossibilità di fare rilevamenti corretti. E un’intera industria che vale miliardi di dollari costruita sulla capacità divinatoria delle preferenze del pubblico, per dentifrici o panini, candidati politici o interventi di guerra, oggi trema.
Il totem del sondaggio, attorno al quale danzano politici, industrie, pubblicitari, giornalisti e conduttori televisivi adoranti che li usano come intrattenimento spacciato per approfondimento, aveva nella società creata da George Gallup che nel 1936 seppe prevedere il trionfo di Franklyn Delano Roosevelt, il proprio idolo più alto. In una ressa di società di ricerche d’opinione, che soltanto negli Usa si contano a centinaia per soddisfare le ambizioni e le insicurezze di politicanti e per creare l’illusione della preveggenza, Gallup aveva mantenuto il proprio marchio di rispettabilità e di affidabilità fino alle ultime presidenziali americane quando diede Mitt Romney sicuro vincitore su Barack Obama. Naturalmente oggi Barack Obama è presidente e Mitt Romney viaggia nel circuito del “pollo di cartone”, nel giro dei ben pagati discorsi a banchetti.
Ma Gallup, che ha ammesso il proprio ritiro dal business dei pronostici delle “corse dei cavalli” elettorali per bocca del proprio direttore Frank Newport al quotidiano Politico , non è affatto migliore o peggiore dei concorrenti che continuano, e continueranno, a inondare il mercato con sondaggi divenuti il fine, e non il mezzo, delle campagne elettorali. È stato semplicemente il più onesto quando ha ammesso che condurre sondaggi politici oggi, nella polverizzazione di cellulari, rete, microblog e nella crescente reticenza o ambiguità del pubblico che per l’85 per cento si rifiuta di rispondere, è una pseudoscienza più vicina alla divinazione che alla realtà. Per questo, insieme con un al-tro rispettabilissimo istituto senza scopo di lucro, il “Pew” si dedicherà a ricerche su temi, valori, trend, umori, anziché partecipare al gioco dei pronostici con i nomi del concorrenti.
Come moderni sciamani chiamati a danzare per far piovere, che ballano fino a quando piove attribuendosene poi il merito, le società di sondaggisti attribuiscono, non alle proprie metodologie, ma all’ostinazione del cielo, all’insondabilità e alle mutevolezza degli umori, i propri errori, gridando al trionfo quando, per inevitabilità statistica, una ci prende. Ma la pioggia, cioè il successo, si sta facendo sempre più scarsa. Gallup ha mancato quasi tutte le previsioni elettorali negli Usa nell’ultimo decennio, pur nell’apparente semplicità di una politica bipolare, ben più elementare del fritto misto di formazioni che s’azzuffano nei ring politici europei.
I flop del sondaggisti, e dei tragicomici exit poll, sono ormai copiosamente dimostrati anche in nazioni di varia cultura politica, in Grecia, dove hanno sbagliato tutte le previsioni, in Italia, dove i successi del movimento di Grillo nel 2013 o del Pd di Renzi alle Europee colsero tutti di sorpresa, e in Portogallo, dove la rimonta della destra era data per impossibile. Come gli economisti, secondo la celebre battuta del Nobel Samuelson, ormai anche i sondaggisti passano più tempo a spiegare perché abbiano sbagliato anziché a illustrare perché abbiano indovinato.
Ma la colpa del fallimento di tanti sondaggi sta spesso più negli occhi di chi li guarda che nel lavoro di chi li fa. Presi come oracoli assoluti, osannati da chi vede la propria fazione crescere e denunciati come manipolati da chi perde terreno, i sondaggi non hanno mai preteso la infallibilità. Gallup, che centrò il trionfo di Roosevelt nel 1936 e mancò il successo di Truman nel 1946, si rifece poi con Kennedy nel 1960, vincitore con un margine minuscolo su Nixon. Ma fu violentemente attaccato dal Team Obama quando insistette a sottovalutare le chance del senatore afroamericano.
L’addio di Gallup, sconsolato di fronte alla zuppa di candidati repubblicani che si strappano cestini di voti alle primarie segnati da numeri poi irrilevanti nell’elezione finale, non metterà comunque fine al “Culto del Sondaggio”. Dei due miliardi di dollari che Hillary Clinton spenderà fra primarie ed elezioni generali, se ci arriverà, come di quelli che il suo avversario, Mister o Madame X, sborserà, i sondaggi saranno la seconda voce di spesa dopo gli spot televisivi e il bottino è troppo ghiotto perché altri sondaggisti non ci si gettino sopra. Nella loro ambiziosa insicurezza, i politicanti hanno bisogno di loro e sono pronti a spendere da 15 a 35 dollari per ogni persona interpellata.
Come osserva Nate Silver, che con il suo blog “538” ebbe l’idea di aggregare i sondaggi e trarne una media per avvicinare il risultato, sempre meno poll significano sempre meno attendibilità e tutti sono alla ricerca di un nuovo metodo per sondare un pubblico sempre più insondabile, dai “Robopoll”, con risposte automatiche, alla fumosità della mitica Rete al vecchio sistema della suola delle scarpe, bussando alla porta degli interpellati. Ma i sondaggi sono ormai il latte materno delle campagne elettorali e della propaganda, come dimostra Donald Trump che sbandiera il suo essere (per ora) davanti, e nessuno rinuncerà. Fino a scoprire, come tenta oggi di dire Gallup, che tutti sacrificano soldi e danzano attorno a dei falsi e bugiardi.