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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

DEUTSCHE BANK, UN ALTRO COLPO AL MODELLO TEDESCO – 

La voragine che si è aperta nei conti di Deutsche Bank (6,2 miliardi di perdita nei primi nove mesi dell’anno) è un altro colpo alla solidità del modello tedesco, ma anche un indice dei problemi attuali del sistema bancario europeo. Due indizi non fanno ancora una prova, direbbe Agatha Christie, ma certo una notizia così clamorosa e inattesa (ancora nella relazione di fine giugno la banca aveva orgogliosamente sottolineato che «la forte crescita dei ricavi dimostrava la solidità del business») suggerisce almeno due analogie con il caso Volkswagen. In primo luogo, anche la grande banca era ed è cresciuta nel mito del “campione nazionale”. Come la casa di Wolfsburg era il paladino che sfidava (e batteva) la concorrenza europea, americana ed asiatica, così la banca di Francoforte si misurava da pari a pari con le grandi investment banks americane ed europee.
Deutsche Bank ha aumentato progressivamente le sue dimensioni, fino a raggiungere un totale attivo di 2 trilioni di euro prima della crisi (ritoccati a 1,7 trilioni a metà di quest’anno). Una crescita trascinata dall’attività in titoli (i prestiti rappresentano meno di un quarto del totale) e in derivati. Secondo la rilevazione Mediobanca, Deutsche aveva alla fine del 2012 l’importo più elevato di contratti derivati fra tutte le grandi investment banks globali (55 trilioni in termini di valore nozionale, tanto per gradire). Insomma, il cuore del modello di business era del tutto simile a quello di un immenso hedge fund, solo molto più indebitato e quindi più rischioso.
Grazie infatti ai misteri gloriosi dei modelli interni, questa montagna di rischi ha sempre prodotto un topolino in materia di requisiti di capitale. Le attività ponderate per il rischio, come da regole di Basilea, rappresentano circa un quarto del totale, cosicché, nonostante le recenti iniezioni di mezzi freschi, la banca ha oggi un patrimonio pari a poco più del 3 per cento del totale attivo.
Insomma, l’orgoglio di essere a tutti i costi campione nazionale ha comportato molte fragilità e ha ritardato l’azione di ribilanciamento del business che altre banche di investimento hanno intrapreso. Tutte queste criticità spiegano perché da oltre due anni il mercato ha penalizzato Deutsche Bank rispetto ai concorrenti e anche perché ieri la borsa ha reagito positivamente alla notizia. Semplicemente perché gli azionisti hanno tirato un sospiro di sollievo, quando hanno capito che, per quanto grave, la perdita non richiede una nuova emissione di capitale.
Il secondo motivo di parallelo con Volkswagen è che anche Deutsche mette in mostra preoccupanti debolezze dei controlli interni e la loro incapacità di prevenire e impedire comportamenti irregolari, anche penalmente rilevanti come le manipolazioni seriali del mercato del Libor o di quello dei cambi. Per un paese che ha dato giudizi sui partner europei fortemente impregnati di moralismo (le “cavallette” che pensano solo ad indebitarsi per consumare; i bari dei dati sui deficit di bilancio e via rimproverando) si tratta di un colpo non da poco. E comunque le irregolarità del passato lasciano un’eredità pesante sui conti della banca: una parte del risultato negativo dei primi nove mesi è dovuto a costi legali per 1,2 miliardi di euro: più di due terzi del reddito dell’intero 2014.
In generale, i problemi odierni di Deutsche mostrano – portati all’estremo – le debolezze dell’investment banking in uno scenario in cui il pendolo della regolamentazione del capitale volge finalmente nel senso della prudenza. Problemi che sono accentuati dai dubbi crescenti che circondano la sostenibilità del debito dei paesi emergenti, aumentato come ricorda il recente rapporto sulla stabilità finanziaria del Fondo monetario da 4 trilioni di dollari nel 2004 a oltre 18, che potrebbero comportare problemi proprio per questo tipo di banche.
E siccome anche il modello del retail banking non sprizza proprio salute da tutti i pori, perché afflitto dai crediti deteriorati e dal fatto che il basso livello dei tassi di interesse comprime i margini dell’intermediazione (come ricorda un recente paper della Bri), il credito stenta a ripartire e dunque scarseggia una delle risorse fondamentali per una ripresa duratura, perché gli investimenti pubblici e privati languono sui livelli anormalmente bassi di questi anni.
Solo un’azione concertata di banche centrali e autorità di vigilanza consentirà di superare senza scossoni questa fase difficile. L’Europa dispone ora di un meccanismo unico di supervisione perché finalmente si è riconosciuto che il modo con cui le regole sono applicate è tanto importante quanto le regole stesse e che per troppe banche la severità dei controlli prudenziali è stata sacrificata sull’altare di un malinteso orgoglio nazionale.
Il meccanismo unico di vigilanza nell’area dell’euro, grazie ad un’autentica maratona organizzativa, ha compiuto un anno fa la valutazione della qualità dell’attivo, che è stato un primo elemento di chiarezza, anche se l’esercizio ha guardato più ai rischi del credito che a quelli finanziari. Siamo in prossimità di una seconda tappa importante,: il Supervisory Review and Evaluation Process che come ha ricordato recentemente Ignazio Angeloni, vuole contribuire a fare chiarezza sull’intera gamma dei rischi, in particolare quelli finanziari. E se l’esercizio sarà davvero efficace, sarà un ulteriore stimolo per le banche ad adattare le proprie strategie alla realtà del dopo crisi e alle esigenze del mondo produttivo.