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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

CHE BOTTE PRIMA DI FARMI PRETE

[Intervista a Terence Hill] –
Il mio nome è nessuno è il titolo di uno dei suoi film più famosi, forse quello che ha amato di più, ma potrebbe anche essere lo slogan per una vita da antidivo meticolosamente ricercata: Terence Hill, 76 anni portati come fossero 40, schiva accuratamente interviste, fotografie,
apparizioni (ha fatto un’eccezione per «Panorama d’Italia» a Spoleto), e da vero eremita dello spettacolo si defila volentieri tra Roma, l’America e la pace di Amelia, provincia di Terni, paese natale del padre. Ciononostante il suo mito resiste, passando attraverso varie rinascite, il celebre occhio azzurro brilla più che mai di curiosità e il parlare scarno rivela un’inattesa vena ironica, nascosta sotto l’onnipresente cappellino che ne protegge la timidezza.
Dopo aver reinventato il morente western all’italiana in coppia con Bud Spencer in film culto come Lo chiamavano Trinità..., Continuavano a chiamarlo Trinità, Altrimenti ci arrabbiamo, e dopo essere diventato citazione vivente tra cazzotti coreografici, fagioli e gag aggiornate al selvaggio west, in piena maturità ha incontrato don Matteo e con lui la serie più longeva della Rai, prodotta da Lux Vide, raddoppiando poi con il successo di Un passo dal cielo dove interpreta Pietro, solitaria guardia forestale tra i monti. Quasi un’autobiografia.
Dalla Trinità alla canonica, il passo di Mario Girotti (diventato Terence Hill nel 1967, grazie alle iniziali del nome della mamma tedesca Hildegard Thieme), non è stato breve, ma certo felice, e don Matteo gli calza a pennello al punto che, svela, «la tonaca del mio prete è la stessa dall’inizio della serie, non l’ho mai voluta cambiare. È lisa e rattoppata, la produzione me ne ha offerta più volte una nuova, ma io sentivo che in quel modo il personaggio era più vicino alla gente, incuteva meno timore di certe vesti talari tutte rifinite. Adesso, dopo l’arrivo di Papa Francesco nessuno mi chiede più di cambiare, anzi! Le biciclette, invece, sono sempre diverse, anche perché sul set ne hanno rubate tante». Non ha paura dell’etichetta da buono e quando gli chiedi se gli piacerebbe un ruolo da cattivo, risponde sorridendo con un «no». Punto. Poi s’incanta a parlare della ricetta dei tozzetti, i biscotti umbri con cui lo sommergono sul set a Spoleto dopo che ha suggerito a una pasticceria locale di modificarne l’impasto sostituendo l’olio d’oliva alla margarina. Un successo anche in questo caso.
E pensare che questo atletico maratoneta dello showbiz, a differenza di don Matteo, la vocazione non l’aveva proprio. «Fare l’attore non mi piaceva: all’epoca del mio primo film, Vacanze con il gangster di Dino Risi, 1951, ogni giorno avevo la febbre, il panico mi sommergeva, le pulsazioni andavano a 140. Oggi succede ancora, magari appena 120, ma ho capito che fare l’attore ha un senso. Il primo a farmelo scoprire davvero è stato Luchino Visconti sul set de Il gattopardo, poi c’è stato l’Actor’s Studio, due anni fondamentali per sciogliere i terrori. Infine la serie Trinità al fianco di Bud Spencer mi ha svelato che potevo far ridere. Mi è sembrato un dono straordinario e mi ha rassicurato: sì, questo è il mestiere che voglio fare».
Tornare in patria, dopo gli anni ‘60 e i film in Germania, fu una scommessa: «Di western ne avevo già fatti, era la gran moda del momento, ma tutti mi dicevano: è in Italia che lo spaghetti western trionfa, devi andare lì. E invece quando sono arrivato il genere era moribondo, la gente s’era stufata. Paradossalmente è stata la nostra fortuna. I produttori esitavano di fronte alle storie proposte da Enzo Barboni, in arte E. B. Clucher: dialoghi strani, tante scazzottature e neanche un cadavere. Invece è stata questa la novità che ha generato il successo. La commedia inserita nel western garantiva che ci potevi portare tranquillamente anche i bambini e le famiglie correvano».
Come capita spesso, non doveva essere lui il partner di Bud Spencer in Dio perdona, io no, il film del loro primo incontro nel 1967, ma nel corso di una rissa con la fidanzata l’attore prescelto, tale Peter Martell, si ruppe un piede con un calcio contro una porta e Terence prese il suo posto, mentre la produzione nobilitava l’incidente come «una caduta da cavallo». Nata per caso, la carriera di Hill diventa leggenda nel 1999, dopo l’Oscar a Roberto Benigni, quando il riverito Time, pubblicando la classifica degli attori italiani più famosi nel mondo, lo mette al secondo posto dopo Bud Spencer. Naturalmente, lui minimizza : «Sì, mi pare...ma è stato parecchio tempo fa, no?». Nostalgia? «Mai. Se penso a Trinità sorrido divertito, questo sì. Quel cinema comunque non si potrebbe più fare. Sul set c’erano almeno una dozzina di stuntman, oggi non esistono praticamente più. Né io né Bud, comunque, abbiamo mai usato la controfigura, venivamo da una grande preparazione atletica. Giravamo le scene di rissa fin quando finivano le panche in balsa e ci tiravamo quelle vere in legno. Suture e punti in testa a non finire. Ma il vero segreto, sforzo fisico a parte, era la lunghezza e il ritmo di quelle scene. Mentre giravamo, tutto coreografato, ci veniva dato il tempo con il metronomo, ogni battito una caduta, un balzo, un rimbalzo, un pugno. Per girare un intero scontro ci volevano dieci giorni, un minuto al giorno. Oggi prenderebbero a cazzotti noi, i costi sarebbero inarrivabili».
Sposato dal 1967, cioè da sempre per i canoni dello star system, con Lori Zwicklbauer, americana di origine tedesca, Terence Hill ha avuto due figli, Jeff e Ross, quest’ultimo scomparso per un incidente stradale, a soli 16 anni, nel 1990, in America dove allora risiedeva la famiglia. Per l’attore un dolore devastante, una sofferenza protetta con ostinazione dalla curiosità pubblica, e che per anni lo ha tenuto ancora più lontano dalla ribalta, dai riflettori. Infine il ritorno alla popolarità, incarnata in share tv spettacolari grazie alla svolazzante tonaca del prete ciclista e investigatore, un erede di Padre Brown nella provincia italiana, guarda caso proprio l’Umbria (la serie è stata girata a Gubbio e, nelle ultime due stagioni, a Spoleto) terra d’origine della famiglia Girotti.
Qui, ad Amelia, è nato il padre Girolamo, professione chimico, e qui a sei anni, nel 1945, l’attore è ritornato dopo la primissima infanzia vissuta sotto i bombardamenti a Lommatzsch con i nonni materni. E sempre dal paesino umbro, Terence, all’epoca ancora Mario, è partito per i suoi vagabondaggi tra Cinecittà, Germania e America, dove ha vissuto quasi 30 anni. «L’Umbria è una terra accogliente» racconta «magari brusca all’inizio, ma bellissima e nascosta, riservata. Coltivano il gusto imprenditoriale del piccolo è bello e questo carattere mi corrisponde. Mi è sembrata una coincidenza incredibile che Don Matteo si svolgesse in questi luoghi: avevo un po’ di paura a tornarci, invece ho ritrovato subito casa. Una benedizione».
Nella leggenda, sull’onda dei ricordi, entra pure l’antenato garibaldino Alarico Silvestri: «Era il fratello di mia nonna Marietta, un vero eroe con tanto di statua al Gianicolo: morì nel 1897 combattendo per l’indipendenza della Grecia. Da piccolo, ad Amelia, giocavo con il suo spadino e con il suo fucile, cimeli famigliari».
Dopo dieci stagioni e 15 anni di Don Matteo, e nonostante l’inalterato record di 8 milioni di spettatori in media a puntata, non si fanno sentire noia e stanchezza? «Il segreto è cambiare un po’ a ogni edizione, reinventarsi ogni giorno sul set, ma senza farsi notare. Cambiare ma non tradire, perché i delitti che don Matteo e i suoi compagni d’avventura risolvono sono sempre quelli, intorno ruota il mondo. Come dice Nino Frassica, il nostro irresistibile maresciallo Cecchini, la lunga serialità ti dà la possibilità di vivere una seconda vita, in questi anni lui è stato marito, padre, suocero, nonno. Il mio don Matteo non può dire lo stesso, ma anche in canonica son successe tante cose, e tanti sono i personaggi che l’hanno animata».
Il trucco dunque è questo, alternare amori e visitatori di passaggio, Belén Rodriguez che porterà un po’ di scandalo nella prima puntata della decima stagione, ancora un altro amore per il bel capitano Giulio Tommasi, l’attore Simone Montedoro, mentre evolvono le vite dei personaggi fissi come il brigadiere Grisoni (Pietro Pulcini) in servizio dalla prima puntata e gli eroi minori della parrocchia Pippo, Natalina, Tommaso, beniamini del pubblico di RaiUno. Domanda inevitabile: Terence Hill tornerà a inforcare la bicicletta anche nel 2017, a 78 anni compiuti, quando dovrebbe entrare in cantiere l’undicesima serie? «Tranquilli» replica sornione «non lascerò mai don Matteo. Anche se persino per un prete il destino non è tutto nelle mani di Dio, ma degli ascolti della decima stagione!».