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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

IL CUORE INFRANTO


[in allegato, le fotografie di Alberto Novelli]

Il cuore delle Alpi Apuane – uomini e monti – è un innato eccesso: come la voce di Judy Garland, i gol di Maradona e la pazzia del Carrione, un fiumiciattolo che vien giù dalla montagna, spacca la città di Carrara in due, e, intasato di detriti e scarti di marmo, all’improvviso esplode e fa morti e feriti.
C’è un daimon, nelle Apuane, senza genere o età. Però, quanto possono durare ancora queste montagne? “Quando sarà finito il petrolio noi saremo ancora qui a cavare il marmo”, disse un gruista a Cathy Newman che nel 1982 scrisse un inarrivabile reportage per National Geographic.
Oggi i dubbi crescono e le perplessità sono diventate allarme. «I nuovi macchinari tagliano la pietra come il burro, siamo passati da 35 tonnellate l’anno per addetto allo scavo a 1.500, e così negli ultimi trent’anni si è scavato il corrispondente di due ere geologiche», dice Alberto Grossi, documentarista, autore di Aut-out, un premiatissimo corto su ciò che l’uomo ha fatto alla natura qui. «Solo a Carrara se ne vanno cinque milioni e mezzo di tonnellate di montagna l’anno e, di un milione di tonnellate in blocchi, solo 50 mila vanno in marmo statuario. Il resto è destinato a usi diversi: carbonato di calcio, sbiancante per la carta, base per cosmetici, mangimi e dentifrici o anche per abbattere l’acidità delle piogge e dei fumi industriali. Infatti davanti al palazzo comunale non c’è la statua al cavatore, storico artigiano-artista del marmo, ma un monumento alla benna di una ruspa».
Arte e scarti industriali, insieme nelle stesse frasi: quando si parla di queste cose tutto qui diventa estremo. In ogni blocco ci può essere un David di Michelangelo o Amore e Psiche del Canova, ma per andare a cercarlo le strade zigzagheggiano tra ravaneti (scarti di cava) instabili e un migliaio di camion carichi di sassi, che sputano fumo e fanno la spola con il porto. Ogni tanto uno si rovescia e resta ruote all’aria ai lati della strada bianca, nero come un coleottero steso sulla schiena.
Uomini, cose, acque e cielo: è zona di ossimori. Per Fosco Maraini, antropologo e scrittore, quelle vette seghettate che viste dal mare sembrano coperte di neve perenne erano “cavalle allineate nervose pronte a scattare all’insù”. Cime che trasmettono la febbre al cielo, destinate a non prender sonno: be-bop. Miles Davis, che suonava alla Bussola, le amava. Ma apparvero anche come immense pietre in posizione zen, gonfie “di quella solennità stupefatta, sovranamente silenziosa... che è nelle cose della luna”. Buddha che osserva il mondo. Così le decrisse Alberto Savinio, che aveva uno studio al Cinquale di Massa, geniale e sornione fratello dell’altrettanto geniale De Chirico.
Perché tutto, gesti e parole, qui è a vocazione immortalità (il tempo è più importante dello spazio). Su un piazzale davanti allo stadio di calcio, tra una Nike di Samotracia e la riproduzione del famoso dito di Cattelan, un enorme Zinedine Zidane dà un’altrettanto famosa testata a Marco Materazzi che, vinto, si arrende. «Ne sono già state fatte sei copie per i paesi arabi», dice Franco Barattini, ex ragazzo di cava tuttofare (“bagascio”), minatore, tecchiaiolo (virtuosi dell’arrampicata libera che salgono in parete per metterla in sicurezza), gruista e oggi proprietario dello studio. Siamo lontani dall’Arte ma il messaggio è chiaro, e spiega il successo di questo monumento nel Medioriente: l’Islam sconfiggerà il Cristianesimo. Un dato di fatto: gli investimenti dei paesi arabi si fanno sentire (la famiglia Bin Laden ha alcune carature in cave importanti) e le commesse per aeroporti ed edifici pubblici del Golfo fioccano.
Il blocco vola (e il lavoro con lui, dicono i cittadini frustrati) verso mercati sempre più lontani (Brasile, India, Cina) e le gru al porto di Marina di Carrara dove viene imbarcato sono sempre più alte. Due esempi: la torre della Bank of China di Hong Kong è opera della Henraux, storica ditta fondata da un ufficiale di Napoleone, e nei capannoni della Campolonghi di Montignoso, versante versiliese delle Apuane, stanno mettendo a punto i pannelli per l’aeroporto di Dubai, il più grande del mondo. Si capisce perché: li vedi lisciare la pietra e ti accorgi che sono molto più che operai e poco meno che artisti.
Ma sulle Apuane hanno dormito Canova e Henry Moore, Arp e Rodin, Jacques Lipchitz e Giuliano Vangi, fino a Pistoletto. Ci ha dormito Dante che le cita nell’Inferno, ma soprattutto ha dormito per ogni dove Michelangelo Buonarroti, come Napoleone all’Elba: i suoi capolavori li ha trovati dentro questi blocchi. «Donatello e Michelangelo per giustificare e nascondere un disastro ecologico», sbotta Elia Pegollo. Sono diversivi, amuse-gueule, stuzzichini per un pasto rancido, queste in sintesi le tesi sue e degli ambientalisti locali. “Alle Cervaiole, vicino alla cava di Michelangelo, ci sono voragini, risultato di un’opera di distruzione”, ha scritto Pegollo, un santo laico, ex insegnante e fotografo di prim’ordine; certe sue foto di fiori carezzati da vicino trasmettono la stessa sensualità dei dipinti di Georgia O’Keeffe. È figlio e nipote d’arte, cavatori. «Con il quantitativo escavato», dice Pegollo, «si potrebbe lastricare ogni anno un’autostrada a quattro corsie di 2.500 chilometri da Firenze a Stoccolma, oppure realizzare un monolite di 50 metri di lato e 600 d’altezza».
Al costo di? «I danni di questo prelievo frenetico sono visibili tra il Monte Cavallo e la Tambura. Il più alto valico delle Apuane, la Focolaccia, è stato abbassato di oltre 50 metri, il monte Serrone che domina Carrara non assomiglia più alle cartoline della città e nessun carrarese potrà vantarsi di chiamarlo, come un tempo, il piccolo Cervino. Il Carchio ha perso la sua caratteristica cuspide, l’antro del Corchia, una meraviglia unica in Europa, continua a essere minacciato dalle cave che minano anche lo spartiacque, e così le cave del Sella, del Cantonaccio alla base della parete nord del Pizzo d’Uccello, quelle della valle glaciale di Orto di Donna o del canale di Cerignano.
Sta saltando l’intero ecosistema, e una grossa fetta di colpa si deve attribuire alle moderne cave che sventrano il cuore dei monti con immense gallerie sinistre come obitori, coi piazzali invasi dalla marmettola, la fanghiglia composta da acqua e polvere di marmo e da micidiali chiazze di olii esausti. La rete di capillari che porta l’acqua dal cielo alla profondità della terra è recisa e le nostre sorgenti non rendono più l’acqua limpida e fresca da bere ma vomitano spesso e trascinano nei fiumi la memoria della polvere di marmo. Guardi cosa è successo al Frigido».
Il Frigido è il fiume che attraversa Massa, e ha la polla d’acqua più ricca della Toscana (1.500 litri il secondo); è corto, chiacchierino, trasparente, “lucente” (se ne innamorò Petrarca), e scende al mare in slalom ribaldi tra i ghirigori di marmo che si è scavato nei secoli. Le sue pozze, in località Guadine, invitano al tuffo e a spogliarsi di tutto. Ci vanno a nuotare le ninfe plebee in cerca di libertà, lontane dalle spiagge della Versilia troppo cara e impicciona. Ogni tanto però, per la lavorazione delle cave a monte, questa Arcadia si tinge di panna, e le ninfe travolte da un’acqua che ha il colore di un gelato all’anice ne escono imbiancate...
«Quale disastro ambientale?», reagisce Giuseppe Baccioli, presidente dell’Associazione industriali Massa Carrara. Va controcorrente, ed esibisce i numeri. «Le cave non sono uno sfascio nella natura, ma un valore estetico tra i più affascinanti del mondo, come le Piramidi... Se non ci fossero state le cave con il bianco dei ravaneti, gli squarci nella montagna opera dell’uomo, queste sarebbero state montagne come ce ne sono a centinaia, e infinitamente inferiori come valore paesaggistico rispetto alle Dolomiti o all’Himalaya. Chi sarebbe venuto a fotografarle? La coltivazione e l’estrazione hanno creato un valore aggiunto. Chi le vede ne rimane affascinato... Il blocco vola? Grazie a Dio... È stata la capacità imprenditoriale di alcune persone a creare nuovi mercati dopo anni di crisi. Non è un peccato, ha permesso di portare la nostra cultura del lavoro nel mondo». E il monte che viene mangiato? «Gli scarti, che vengono venduti, contribuiscono per il 40 per cento al budget cittadino... Oggi coltiviamo le cave a gradoni, cerchiamo spazio, indipendentemente se la vena è buona o cattiva però si creano condizioni di sicurezza. E ci sono meno incidenti sul lavoro». E il via vai dei camion che inquinano? «Mille camion significano mille camionisti, mille meccanici, mille fornitori di copertoni eccetera... Con l’introduzione di nuovi macchinari abbiamo moltiplicato la produzione, ridotto la manodopera in cava, è vero, ma incrementato l’indotto».
Francesca Nicoli sta lontana dalle polemiche. Concede: «Certamente un po’ di panorama sta cambiando, ma guarda qua», dice. Mostra la scaglia di un blocco per il suo studio e la alza al cielo controluce: «È fina, trasparente, naturale, docile, ma resistente al freddo e al caldo». Siamo in zona Fantiscritti, la più famosa del comparto. Lei è la direttrice dello studio d’arte Nicoli, un’eccellenza italiana: dal 1835 sei generazioni senza interruzioni (caso unico in un business malato di fallimenti e acquisizioni). La sua famiglia ha ritratto libertadores centramericani, il re del Siam, la regina Vittoria e Lord Gladstone, suo primo ministro. Tutti i modelli sono in un salone, come agli Uffizi. Con un colpo d’occhio si ripassano gli stili della scultura degli ultimi 150 anni, fino ad Arturo Martini, Asger Jorn, del gruppo CoBrA, Cesar, Louise Bourgeois, Antonie Poncet, Santiago Calatrava.
La svolta avanguardista è stata una sua intuizione. La maggioranza degli studi (Carrara, Pietrasanta) fa magnifiche riproduzioni di classici. Francesca Nicoli ha puntato sul domani: le performance di Vanessa Beecroft (contaminazioni di nudi femminili e monumenti di marmo), un’interpretazione della négritude di Naomi Campbell, un’installazione del Terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto nella piazza antistante il suo studio (70 blocchi di marmo di tutti i tipi da 70 nazioni, tanti quanti sono gli anni della fondazione dell’ONU). La sua ultima scommessa, Wixim, eterea artista di Singapore (mani trasparenti e ballerine ai piedi) raccoglie scaglie di marmi e onice colorati, li scannerizza «alla ricerca della loro anima», figure e paesaggi, poi tira fuori l’immagine dalla pietra e la stampa su seta.
Per arrivare alle Cervaiole da Forte dei Marmi ci vogliono 25 minuti di auto tra valli antiche e buie. Si sale fino a 1.250 metri. Anche lì vicino venne a cercare marmo Michelangelo e la sua cava si vede dal mare; una cosa bianca e lunga che spacca la montagna buia dell’Altissimo e sembra oscena. Oggi le Cervaiole scavate e disossate (“un’opera di distruzione e morte” secondo gli ambientalisti) hanno l’aria di una cattedrale gotica senza tetto, il cielo è lassù, i tagli alle pareti arrivano a perpendicolo (80 metri) e immensi gradoni di marmo rettangolari sono scolpiti in bilico sulla testa di chi guarda; la Natura è cubista.
Paolo Carli, presidente e amministratore della Henraux, proprietaria della cava, è irritato. «Gli ambientalisti ci accusano di avvelenare l’ambiente. Ma noi smaltiamo la marmettola, il veleno di polvere e acqua che si forma quando si taglia il marmo, in appositi enormi recipienti e portiamo quel che rimane alla discarica, secondo legge. Ricicliamo l’acqua pulita. Siamo in attività da due secoli. Non possiamo riciclarci e darci alla pastorizia come suggerivano alla Regione Toscana come rimedio al degrado ambientale. Facciamo parte del contesto umano e naturale di questo paesaggio. Proibiscono di scavare sopra i 1.200 metri, una pazzia: andrebbe vista caso per caso». Carli cerca un compromesso: «Regole non cervellotiche che permettano a noi di lavorare senza andare a gambe all’aria e agli ambientalisti, di non preoccuparsi. Ho reagito alla crisi del settore di qualche anno fa modernizzandomi e aprendo le porte all’arte contemporanea, perché attraverso l’arte si conquistano i mercati di eccellenza».
Fondata da un ufficiale di Napoleone, la Henraux è nata «prima dell’Ansaldo, della Pirelli e della Fiat ed è sempre stata in bilico tra arte e industria», spiega. Si fa forte della tradizione ma senza adorazione per le ceneri del passato: «Abbiamo una Fondazione che promuove giovani artisti, un gruppo di accademici, un premio con una giuria il cui presidente è Philippe Daverio». Carli ragiona di vivacità industriale e d’arte tra robot ultramoderni che preparano infissi per cinque continenti e scalpelli antichi. Renzo Maggi, scultore di fama, sta ultimando un’allegoria: c’è la Grecia (un adolescente un po’ efebico si libera dalle catene), l’Egitto con Iside e Osiride, l’orientalismo romano col dio Mitra, ci sono le ghiande rinascimentali dei Della Rovere.
Le Cervaiole non sono solo una cava. In cima al monte, quando le macchine si fermano, tra i blocchi bianchi allineati sul vuoto Carli ha organizzato un anfiteatro unico al mondo: sulla parete della cava si proiettano film, ogni tanto un concerto, molte sfilate, cocktail al tramonto. I ricchi russi del Forte ci organizzano eventi. Forse – ma non lo dice lui – vuole rimediare a qualche sconsideratezza del passato: al monte mancano 30 metri di cima finita in blocchi. Da qui si vede il mondo come dal Machu Picchu, e Forte dei Marmi coi fari dei night club dentro le nuvole sembra Los Angeles.
Di fianco, poco più in basso, in un groviglio di gallerie e pozzi che si estende per 60 chilometri, profondo 1.200 metri, c’è l’Antro del Corchia. Fa parte del più vasto dedalo di grotte d’Italia: caverne bellissime e spaventose, come quella di Tom Sawyer, protette da una selva invitante, amica e pastorale. Tutto sulle Apuane è appariscente ed esagerato. Charlton Heston girò qui Il tormento e l’estasi, il film sulla vita di Michelangelo. Anche il titolo di quell’opera è un bellissimo ossimoro. È a tutt’oggi la migliore descrizione dell’innato eccesso, che è il cuore di queste montagne.