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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

IN CERCA DI UN ALTRO GIOVE


Ad alta quota, nelle remote Ande del Cile centrale, il cielo notturno è così scuro che si riesce a malapena a distinguere le costellazioni, immerse come sono in una moltitudine di stelle più deboli. Questa visione familiare eppure aliena può essere sconcertante, ma altri pensieri rendono inquieto Bruce Macintosh quando alza lo sguardo, in una tarda serata di maggio del 2014. Anche qui, a 2700 metri sul livello del mare, un oceano di atmosfera si frappone all’osservazione, e il vento si sta alzando. Le stelle cominciano a scintillare un po’ troppo per i suoi scopi.
Macintosh è qui in cerca di altre Terre, o più esattamente di altri Giovi, la cui esistenza, secondo alcuni scienziati, è un necessario presupposto per quella di pianeti rocciosi abitabili simili alla Terra. Non intende dare la caccia a pianeti extrasolari come fa la maggior parte degli altri astronomi, effettuando osservazioni per mesi o anni finché lievissime alterazioni del moto o della luminosità di una stella rivelano gradualmente la presenza di un mondo invisibile. La sua strategia è molto più essenziale: vuole ottenere vere e proprie fotografie di pianeti remoti, osservarli come puntini luminosi in orbita attorno alle loro stelle e vedere, al di là dell’abisso di anni luce che li separa da noi, il loro disco striato di gas. Macintosh, astronomo della Stanford University, definisce questo metodo «imaging diretto».
Ma il vento non è l’unica preoccupazione di Macintosh: 600 chilometri più a nord, su un’altra arida vetta cilena, Jean-Luc Beuzit tenta di fare esattamente la stessa cosa. Beuzit, astronomo dell’Institut de Planétologie et d’Astrophysique di Grenoble è amico di Macintosh, ma anche suo rivale. I capricci del destino e dei finanziamenti hanno portato i due sulle Ande nello stesso momento, a setacciare il cielo in cerca di pianeti e tentare di scoprire se il nostro mondo è comune o è una rarità a livello cosmico.
Lo strumento a cui Macintosh si affida in questa competizione astronomica è un complesso di ottiche e sensori, delle dimensioni di un’automobile e del costo di parecchi milioni di dollari, denominato Gemini Planet Imager (GPI). È montato sull’enorme specchio di 8 metri del telescopio Gemini South, un disco levigatissimo di vetro argentato che occuperebbe un ottavo di un campo regolamentare da pallacanestro. La risposta di Beuzit a GPI è un marchingegno ancora più grande, delle dimensioni di un furgone, denominato SPHERE, acronimo di Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch. SPHERE è montato su un altro telescopio di 8 metri, presso il Very Large Telescope array dell’European Southern Observatory. Entrambi i progetti hanno avuto una fase di sviluppo superiore a un decennio, ma hanno debuttato a qualche mese di distanza l’uno dall’altro. Appollaiati su vette remote, osservano più o meno le stesse stelle, cercando di essere i primi a realizzare sensazionali fotografie di Giovi alieni.
Degli oltre 5000 pianeti extrasolari che sono stati scoperti negli ultimi vent’anni, solo un numero irrisorio è stato fotografato direttamente. Ottenerne immagini è difficile perché anche i pianeti più grandi e meno abitabili sono comunque oggetti molto deboli e, visti da grande distanza, appaiono vicini alle loro stelle, di gran lunga più luminose. La fotografia di un pianeta – anche se è solo una minuscola chiazza di pixel – racchiude preziose informazioni su composizione, clima e potenziale abitabilità dell’oggetto. La ricerca di mondi simili a Giove di GPI e SPHERE è lo stato dell’arte: non sono stati ancora costruiti telescopi abbastanza grandi e perfezionati da riuscire a distillare la debole luce di una Terra aliena dal soverchiante bagliore della stella vicina. Ma, quando e se diventerà possibile, questi futuri osservatori useranno quasi certamente strumenti sviluppati in questi due progetti.
In astronomia, come nella vita di tutti i giorni, vale il principio del «vedere per credere». Sebbene l’imaging diretto possa essere arduo, è potenzialmente molto più veloce delle tecniche standard di individuazione di pianeti, dato che si affida a fotografie che si ottengono in ore o giorni anziché a un’analisi minuziosa di grandi archivi di dati stellari, che può richiedere mesi o anni per essere completata. Ecco perché nella gara per realizzare le prime immagini di Giovi alieni non è esagerato affermare che contano anche i minuti.

La tartaruga e la lepre
Il tempo è una preoccupazione costante per Macintosh, mentre lavora nella sala di controllo di Gemini South in quella tarda serata del maggio 2014. Ha un volto da ragazzo, con una zazzera bruna e occhi vivaci dietro le spesse lenti degli occhiali. Si sostiene solo con bevande gassate e adrenalina, ancora in preda al jet lag dopo una serie di voli dalla California al Cile. Ha una scarpa slacciata e un lieve odore di bruciato pervade l’aria, proveniente da una cena a base di pizza surgelata ormai carbonizzata nel vicino tostapane. E mentre guarda una serie di schermi di computer che monitorano i dati fondamentali di GPI, sembra che nella stanza ci sia solo il suo corpo: la mente è altrove, nell’adiacente cupola che ospita il telescopio di otto metri, intenta a seguire i fasci di luce che rimbalzano nel suo strumento.
Prima che GPI possa iniziare la caccia a nuovi pianeti, deve superare il processo di commissioning, una lunga serie di test e calibrazioni iniziata a fine 2013 e ormai arrivata alle fasi finali. Si tratta di un lavoro tedioso e oscuro: nessuno è mai stato premiato per aver garantito che uno strumento funzionasse. In una competizione dove si misurano i minuti, GPI ha un vantaggio di 250.000 minuti rispetto a SPHERE, che ha appena iniziato le prime fasi del commissioning. Tuttavia per Macintosh e una magra consolazione, perché SPHERE è dotato di strumenti con prestazioni migliori e può contare su più tempo garantito a disposizione presso il telescopio. Questi vantaggi dovrebbero offrirgli la possibilità di osservare un maggior numero di stelle, in un campo di vista più ampio, con una risoluzione spettrale superiore, in un intervallo di frequenze più esteso. In altri termini, anche se GPI è partito molto prima, come la lepre della celebre favola di Esopo, SPHERE potrebbe comunque superarlo, allo stesso modo della tartaruga, e individuare per primo i tanto cercati pianeti.
Lo scintillio delle stelle è una conseguenza della turbolenza atmosferica, che ha costretto GPI a ritardi rispetto alla tabella di marcia. In attesa che il vento si calmi, Macintosh mi racconta aneddoti di diversi anni fa, quando lui, Beuzit e altri membri dei gruppi di GPI e SPHERE si divertivano ai convegni di astronomia di tutto il mondo, senza immaginare che un giorno sarebbero stati avversari. Quei momenti sono passati. «Ci incontravamo per sbronzarci e raccontare storie», ricorda Macintosh. «Ma anche adesso i nemici non sono loro: sono nubi e vento».
Dopo circa mezz’ora il vento si è calmato. «Ok, diamo un’occhiata a HD 95086», esclama Macintosh, girandosi sulla sedia per rivolgersi alla decina di membri del gruppo nella stanza. Tutti passano all’azione, digitando comandi sulla tastiera dei computer che controllano il telescopio nella cupola accanto. In pochi istanti lo strumento è puntato sul bersaglio, una stella nana bianco-azzurra che si trova a 300 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Carena. HD 95086 è una stella giovane in termini astronomici – ha un’età di appena 17 milioni di anni e ha un pianeta gigante con una massa cinque volte superiore a quella di Giove, che orbita a una distanza dalla stella approssimativamente doppia rispetto a quella di Plutone dal Sole. Questo pianeta è già stato osservato nel corso di precedenti e meno potenti progetti di imaging diretto, quindi il gruppo calibrerà GPI confrontando le nuove immagini con i risultati già disponibili.
Come tutti i mondi che sono oggetto delle ricerche di GPI, questo particolare pianeta ha avuto appena il tempo di raffreddarsi dopo la formazione e appare molto luminoso nell’infrarosso. In termini di luminosità, la maggior parte dei pianeti è milioni o miliardi di volte più debole della propria stella, come una particella di polvere attorno a una palla di fuoco termonucleare. Ma i pianeti di tipo gioviano nelle prime fasi della propria esistenza sono diversi. Sono più simili a tizzoni roventi che si raffreddano intorno a un falò, ecco perché GPI e SPHERE hanno qualche probabilità di poterli osservare e stabilire come si sono formati ed evoluti.

Le misteriose origini di Giove
Fra gli esperti, è un dato di fatto imbarazzante che non si conosca esattamente come abbia avuto origine l’oggetto più grande in orbita attorno al Sole. Ma è una lacuna che va colmata a tutti i costi, perché Giove e gli altri pianeti giganti sono gli architetti del sistema solare e plasmano tutto ciò che li circonda.
I pianeti giganti conosciuti che orbitano attorno ad altre stelle sono per la maggior parte abbastanza diversi da Giove. Molti seguono orbite ravvicinate, con un periodo di pochi giorni, che non hanno alcun termine di confronto nel sistema solare. La teoria prevalente è che questi mondi infernali siano nati molto più lontano dalla propria stella e che si siano avvicinati a essa, seguendo una traiettoria a spirale, in seguito a interazioni gravitazionali con altri pianeti o flussi di gas. Una simile migrazione pregiudicherebbe l’abitabilità del sistema, lungo il cammino infatti il campo gravitazionale di un pianeta gigante che si sta avvicinando alla propria stella molto probabilmente scaglierebbe eventuali piccoli pianeti rocciosi nell’oscurità dello spazio esterno o li farebbe precipitare nella fornace stellare. Simili pianeti giganti sono troppo vicini alla propria stella per ottenerne un’immagine diretta con la tecnologia attuale.
Anche Giove, nelle prime fasi della sua vita, effettuò probabilmente una migrazione simile a quella dei suoi cugini esoplanetari molto più caldi, ma per ragioni sconosciute fu una migrazione solo temporanea, e non portò il pianeta gigante a ridosso del Sole. Al contrario, Giove si avventurò forse fino all’altezza dell’attuale orbita di Marte, per poi ritirarsi di nuovo nel sistema solare esterno, dove da allora è sempre rimasto. E, sebbene i moti di un pianeta gigante possano pregiudicare l’abitabilità di un sistema planetario, nel caso di Giove sembra abbiano reso addirittura più ospitale il sistema solare. Si ritiene che, come minimo, le peregrinazioni di Giove abbiano scagliato comete e asteroidi ricchi d’acqua verso il nostro pianeta già formato, dando origine agli oceani che sono fondamentali per la vita. Ma l’incursione di Giove nel sistema solare interno potrebbe anche avere sgombrato il campo da altri pianeti preesistenti, agevolando la formazione della Terra. In ogni caso, un giorno Giove potrebbe riprendersi quello che ha donato. Tra milioni di anni potrebbe provocare nuovamente un bombardamento di asteroidi giganti o comete sul nostro pianeta, generando impatti catastrofici che farebbero evaporare gli oceani e distruggerebbero la biosfera.
Tutti questi dettagli, in una certa misura, possono essere fatti risalire alla natura e alla cronologia della misteriosa nascita di Giove. Di certo c’è che poco più di 4,5 miliardi di anni fa il collasso di una nube fredda di gas e polvere formò il Sole. I resti della nube che non vennero inglobati nella stella nascente generarono un disco, e da questa materia si generarono i pianeti. Essendo relativamente piccoli, i mondi rocciosi si assemblano facilmente in un processo «dal basso verso l’alto» di accrescimento attorno a un nucleo, in cui i frammenti rocciosi che collidono si accumulano a poco a poco in un arco di tempo fino a circa 100 milioni di anni. La maggior parte dei ricercatori ritiene che Giove si sia formato allo stesso modo. Ma la sua formazione avrebbe dovuto essere molto più rapida, con la costruzione di un nucleo delle dimensioni della Terra in una decina di milioni di anni; in questo modo Giove avrebbe avuto tempo a sufficienza per raccogliere attorno a sé un’atmosfera massiccia prima che la materia gassosa del disco fosse spazzata via dall’intensa radiazione della giovane stella.
C’è però un’altra possibilità. I pianeti giganti potrebbero formarsi più o meno allo stesso modo delle stelle, in un processo «dall’alto in basso» alimentato dall’instabilità del disco. In questo scenario, un oggetto simile a Giove diventerebbe un pianeta attraverso il rapido collasso diretto di un aggregato freddo e molto denso di gas e polvere nelle regioni periferiche di un disco circumstellare. È quasi impossibile stabilire oggi quale dei due scenari sia valido per Giove, poiché le eventuali prove ancora presenti sono letteralmente sepolte dalla densa e opprimente atmosfera del pianeta gigante.
Fortunatamente c’è un altro modo per verificare se i pianeti giganti hanno origine attraverso l’uno o l’altro dei due processi, che consiste nel misurarne la temperatura. Una formazione diretta dall’alto in basso, a partire da un aggregato di gas in fase di collasso, sarebbe così rapida che un’enorme quantità di calore rimarrebbe intrappolata nel pianeta. Il processo inverso invece porterebbe a pianeti giganti che, sebbene inizialmente roventi, diventerebbero poi relativamente più freddi. «Via via che il gas si accumula attorno a un nucleo roccioso, la sua caduta è intralciata dal gas sottostante, dall’atmosfera che si sta formando attorno al nucleo», spiega uno dei membri di GPI, Mark Marley, con il quale ho parlato più tardi. Marley è un teorico della formazione planetaria all’Ames Research Center della NASA e ha contribuito a mettere a punto un modello di questo processo. «Il rallentamento del gas provoca lo sviluppo di un’onda d’urto e gran parte dell’energia del gas in caduta viene irradiata verso l’esterno; questo meccanismo raffredda velocemente il pianeta in formazione. Perciò, quando il gas smette di affluire, il pianeta è molto più freddo di quanto sarebbe se si fosse formato tramite collasso diretto».
Questo significa che la temperatura di un pianeta gigante è, a tutti gli effetti, un ricordo della sua nascita. Via via che il pianeta invecchia e si raffredda, quel ricordo tende a svanire. Con i suoi circa 4,5 miliardi di anni, Giove ha dimenticato da lungo tempo in che modo si è formato. Ma i pianeti giganti di età inferiore ad alcune centinaia di milioni di anni, i pianeti che GPI e SPHERE cercano di fotografare nell’infrarosso, dovrebbero conservare intatti i propri ricordi termici. Con l’osservazione di centinaia di giovani e luminose stelle vicine, entrambi i progetti potrebbero misurare la temperatura e indagare la storia di decine di pianeti giganti, decifrandone i segreti della formazione e chiarendo come potrebbero avere origine sistemi planetari abitabili simili al nostro.

Fotografare un Giove alieno
Mentre il gruppo di GPI si prepara a osservare HD 95086, un cerchio monocromo appare su uno degli schermi di Macintosh. Sembra contenere un liquido fatto di pixel, come l’ingrandimento digitale di un fiume impetuoso o la statica sullo schermo di un televisore non sintonizzato.
«Quello che si vede è il vento», spiega Macintosh. «È la luce della stella che attraversa la turbolenza atmosferica e arriva a un rivelatore che controlla le nostre ottiche adattive.» Queste ultime sono schermi deformabili azionati da computer, che cambiano forma centinaia o addirittura migliaia di volte al secondo per contrastare le distorsioni provocate dall’atmosfera, permettendo agli astronomi di ottenere immagini di oggetti celesti in grado di competere con quelle dei telescopi spaziali. Digitando alcuni comandi sulla tastiera e fornendo istruzioni verbali al suo gruppo, Macintosh aziona le ottiche adattive di GPI. Montati sotto al telescopio di otto metri, i due specchi deformabili – un woofer in vetro acquistato di serie e un tweeter più piccolo, costruito su misura, dotato di oltre 4000 attuatori – ora si curvano in sincronia, facendo corrispondere ogni effimero disturbo o (lusso dell’aria sovrastante in grado di degradare l’immagine con un lieve avvallamento o rialzo della propria superficie, annullando così ogni perturbazione della luce stellare. Il risultato sembra magico: il cerchio turbolento sullo schermo di Macintosh torna a essere uniforme e tranquillo, come se l’atmosfera sopra di noi fosse scomparsa all’improvviso. HD 95086 è ora un punto luminoso sullo schermo. Non c’è traccia di un pianeta.
Per evidenziare quest’ultimo, di cui si conosce già l’esistenza, Macintosh aziona un altro dispositivo, un coronografo, che intercetta la maggior parte della luce stellare: la radiazione incontra una serie di maschere che filtrano il 99 per cento dei fotoni. Quelli che riescono a passare sono focalizzati e diretti su uno specchio con un foro centrale levigato con precisione a scala atomica. «La luce della stella cade nel foro», spiega Macintosh, mentre quella di un pianeta rimbalza sullo specchio e prosegue il suo cammino nello strumento, raggiungendo uno spettrografo super-raffreddato che la separa nelle lunghezze d’onda (o colori) costituenti.
L’immagine sullo schermo è ora un alone punteggiato di luce biancastra attorno a una profonda ombra centrale che corrisponde alla posizione di HD 95086. I punti – o macchie – sono dovuti alla luce stellare indesiderata che riesce a oltrepassare il coronografo e possono nascondere un pianeta nelle immagini di GPI o, viceversa, simularne la presenza. Per distinguere tra un pianeta e una macchia, il gruppo realizza fotografie a diverse lunghezze d’onda dell’infrarosso. «La separazione tra stella e macchia è proporzionale alla lunghezza d’onda dell’immagine», afferma James Graham, responsabile scientifico del progetto GPI e professore all’Università della California a Berkeley, mentre guardiamo lo schermo. Alle lunghezze d’onda più corte, cioè più blu, una macchia appare più vicina alla stella, mentre a lunghezze d’onda maggiori, più rosse, la stessa macchia sembra allontanarsi, spiega Graham. «Perciò, quando si osserva l’intera sequenza di lunghezze d’onda, le macchie si muovono, ma un pianeta rimane immobile.»
Macintosh fa scorrere avanti e indietro la serie di immagini, come fotogrammi di un film, e l’alone sembra respirare, espandendosi e contraendosi per il moto simultaneo di tutte le macchie. Tutte, tranne una: un puntino solitario e immobile di luce planetaria pescato in un mare di perturbazioni stellari. In meno di mezz’ora, siamo passati dal vedere solo il vento all’osservare un mondo remoto attorno a un’altra stella. Ulteriori analisi spettrali realizzate sui dati di GPI indicano che il pianeta è assai rosso, forse a causa di un eccesso di polvere nell’alta atmosfera che diffonde la luce. È un piccolo dettaglio, ma è entusiasmante poterlo evidenziare su un mondo che si trova a 300 anni luce di distanza.
Non tutti i bersagli sono così difficili da osservare; le stelle più vicine e più luminose possono mostrare più facilmente alcuni loro segreti. In precedenza GPI ha impiegato solo 60 secondi di esposizione per fotografare Beta Pictoris b, un giovane e caldo pianeta gigante a 63 anni luce dalla Terra, che orbita attorno alla propria stella a una distanza quasi doppia rispetto a quella che separa Giove e Sole. La facilità con cui è stato osservato questo pianeta fa pensare che l’imaging diretto stia diventando routine: un’immagine simile di Beta Pictoris b era già stata ottenuta con un dispositivo un po’ più vecchio montato su Gemini South, anche se in quel caso erano state necessarie più di un’ora di osservazione e una massiccia post-produzione. Le nuove immagini hanno permesso al gruppo di GPI di stimare l’orbita di Beta Pictoris b con una precisione mai raggiunta: si è così scoperto che nel 2017 il pianeta, visto dalla Terra, potrebbe transitare davanti alla propria stella, un allineamento raro che sarebbe manna dal cielo per gli scienziati che cercano ulteriori informazioni sul remoto gigante.

Un puntino tremolante
Nelle ore che rimangono prima dell’alba, il gruppo di GPI fotografa stelle binarie, deboli dischi di detriti e anche Titano, satellite di Saturno, spingendo lo sguardo attraverso la densa e fosca atmosfera ricca di idrocarburi fino alla sua superficie maculata. All’alba, quando ormai il bagliore del Sole che sorge comincia a rischiarare l’orizzonte, Macintosh si appoggia allo schienale della sedia e sospira, esausto ma soddisfatto.
Nell’ultima notte della settimana di osservazioni, il gruppo di GPI scopre il suo primo pianeta, che orbita intorno a una stella dell’età di 20 milioni di anni a una distanza doppia di quella tra Giove e Sole. Non è Macintosh il primo a individuarlo: il merito va a Robert De Rosa, specializzando dell’Università della California a Berkeley, che nota il puntino tremolante mentre osserva, sopra la spalla di un collega, alcune immagini di GPI per il resto poco significative. Le osservazioni successive mostrano che il nuovo pianeta ha una massa 2-3 volte superiore a quella di Giove, con un’atmosfera ricca di metano e una temperatura sufficiente a fondere il piombo. Il pianeta dista circa 100 anni luce dalla Terra, ma è l’oggetto più simile a Giove che sia stato finora individuato.
«Questo è il primo pianeta mai scoperto che somigli a una versione calda di Giove anziché a una stella molto fredda», commenta Macintosh. «Potrebbe essere abbastanza giovane da serbare memoria del suo processo di formazione. Con un numero sufficiente di osservazioni potremo determinarne massa ed età e capire se si è formato dal basso in alto, come riteniamo abbia fatto Giove, o dall’alto in basso come una stella.»
Macintosh mi chiede di non divulgare questa scoperta fino a che il gruppo di GPI non abbia scritto un articolo scientifico e lo abbia presentato per la pubblicazione. «Anche SPHERE potrebbe vedere il pianeta con facilità» ammette. «E non sappiamo se abbiano già osservato la stessa stella. Siamo preoccupati che possano anticiparci.» [L’articolo è stato pubblicato ad agosto 2015 su «Science», si veda la sezione «Per approfondire». N.d.R.]

Prima luce per il futuro
Poco dopo l’alba, lascio Gemini South, salgo su un aereo diretto a nord, noleggio un’automobile e mi avvio su una strada deserta ad alta quota che attraversa il deserto di Atacama in Cile, percorrendo oltre 600 chilometri per raggiungere SPHERE prima che scenda la notte. Arrivo all’osservatorio che ospita lo strumento, il Very Large Telescope, poco dopo il tramonto. In una stanza di controllo, Beuzit, il leader del progetto, arringa le truppe per dare inizio al commissioning. Gli astronomi sono chini sugli schermi dei computer e conversano in francese, tedesco e inglese, cercando di ignorare telecamere e microfoni di una troupe cinematografica che realizza un documentario. Beuzit, con la chioma scura e incolta e la barba, ricorda un po’ il regista Stanley Kubrick. Passa da una postazione all’altra, fermandosi qua e là ad ascoltare e dare consigli. Su uno scaffale è appoggiata una bottiglia vuota di champagne e sull’etichetta campeggia la scritta a pennarello «Prima luce di SPHERE».
SPHERE si comporta in maniera perfetta durante il commissioning, producendo meravigliose immagini di una varietà di oggetti celesti, tra cui un debole anello di polvere attorno a HR 4796A, stella dell’età di otto milioni di anni che si trova a 237 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Centauro. Quando, più tardi, ho guardato l’anello con la stella centrale nascosta dalla maschera, ho avuto l’impressione di essere osservato: sembra un occhio enorme che scruta dagli abissi dello spazio interstellare. Ma, nonostante le belle immagini, Beuzit mi spiega che, nella notte della mia visita, SPHERE non è ancora pronto ad andare a caccia di nuovi pianeti. Le ottiche adattive del sistema hanno qualche problema: alcuni attuatori che variano la curvatura dello specchio deformabile composto da 1377 elementi, e del costo di un milione di euro, non funzionano a dovere e nessuno del gruppo riesce a capirne il motivo. La soluzione definitiva, prosegue Beuzit, potrebbe essere la sostituzione dell’intero specchio con uno nuovo, basato su una tecnologia differente degli attuatori. Tuttavia, è ottimista sul fatto che sia SPHERE sia GPI non solo raggiungeranno, ma supereranno i loro obiettivi. Nel frattempo il commissioning è andato avanti: si è concluso all’inizio del 2015, fornendo una serie di osservazioni scientifiche preliminari nonché immagini di diversi sistemi planetari già fotografati in precedenza.
Quando chiedo della rivalità tra SPHERE e GPI, la prima reazione di Beuzit è sorridere e sorseggiare il caffè. Dopo una pausa risponde, scegliendo bene le parole. «Quando tutti e due cominceremo a scoprire nuovi pianeti, nessuno ricorderà chi è stato il primo a iniziare le osservazioni», dichiara. «Non dico che non ci sia competizione. Ma Bruce Macintosh e io ci conosciamo da 15 anni, e tutti e due sappiamo quanto sia difficile questo tipo di progetto. Festeggiamo i nostri successi e condividiamo le nostre difficoltà per migliorare entrambi i sistemi, per preparare la strada alla prossima generazione di osservatori e di dispositivi per l’imaging.»
«Stiamo entrando in una nuova era, in cui tutti questi nuovi strumenti diventano operativi quasi simultaneamente», continua Dimitri Mawet, professore del California Institute of Technology e in quel periodo responsabile scientifico della strumentazione di SPHERE. «Scopriremo senza dubbio cose straordinarie, ma faremo anche progredire in maniera significativa la tecnologia delle ottiche adattive. Questo sarà fondamentale per la prossima generazione di telescopi, che avranno bisogno di questo tipo di controlli solo per mantenere allineati i loro giganteschi specchi.»
Uno di questi nuovi telescopi sorgerà appena 20 chilometri a nord-est di SPHERE, a 3000 metri di quota sul Cerro Armazones. Poco dopo la mia visita, la vetta è stata spianata con esplosivi per creare lo spazio necessario all’European Extremely Large Telescope, uno dei tre grandiosi osservatori che si prevede entrino in funzione fra circa un decennio. Accoppiato con il colossale specchio di 30-40 metri di uno di questi osservatori, che avrà una capacità di raccogliere la luce di gran lunga superiore a tutti gli strumenti attuali, un sistema simile a SPHERE o GPI potrà fotografare non solo oggetti intrinsecamente luminosi come un Giove alieno, ma anche pianeti più freddi, 1000 volte più deboli e potenzialmente abitabili, in orbita attorno alle stelle più vicine al Sole. Una missione spaziale dedicata all’imaging diretto potrebbe poi studiare questi pianeti in maniera ancora più approfondita, cercando segni di vita, ammesso che simili mondi esistano. La prospettiva di scrutare Terre aliene con immagini dirette è proprio quello che motiva molti di coloro che lavorano a progetti come GPI e SPHERE.
È quanto mi ha detto Macintosh: «Vedo quello che stiamo facendo come un incedere lungo la via per fotografare un’altra Terra. Un giorno ci riusciremo. Se raccoglieremo dati sulla popolazione di piccoli pianeti rocciosi che hanno caratteristiche rilevanti – oceani, ossigeno atmosferico e così via – e scopriremo che sono un numero esiguo, sarà importante. Non cambierà di certo il cammino della nostra civiltà, almeno non nel futuro prevedibile. Ma da un punto di vista filosofico, poter dire “non ci sono altri mondi come il nostro entro 1000 anni luce” potrebbe indurci a fare qualcosa di più per non rovinarlo del tutto.»