Antonio Massari, il Fatto Quotidiano 4/10/2015, 4 ottobre 2015
UN TRENO CHIAMATO BERLINO CARRO BESTIAME PER LA LIBERTÀ
Io la desidero, questa mia deportazione. La desidero più di ogni altra cosa. Voglio uscire, da questo recinto di filo spinato, circondato da poliziotti in assetto antisommossa, ammassato come una bestia tra le bestie, su questo viale, dove avanziamo in centinaia alla velocità di mezzo metro l’ora, dove siamo senza acqua e senza cibo, finché qualche banana non ci vola addosso, e la agguantiamo e la sbucciamo come scimmie, oppure una volontaria non ci porge una bottiglia. Io voglio essere deportato il prima possibile, tutti qui lo vogliamo.
Ed è proprio per questo, perché siamo noi a desiderarlo, che questa transumanza non ci è insopportabile, ma ci appare persino gentile. Ringraziamo chiunque. Ringraziamo i poliziotti, mentre ci tengono a bada, e ringhiano, se usciamo dal gregge. Ringraziamo i volontari, per una bottiglia d’acqua o una fetta di pane e formaggio.
Il campo di Opatovac è un carcere a cielo aperto, ma siamo stati noi a volerci entrare. E per farci rinchiudere qui, per varcare un cancello in fila per 5, abbiamo accettato volentieri una coda di ore. Ieri sera ho finto di non avere documenti, ho detto ai poliziotti di chiamarmi Aziz e d’essere afgano, mi hanno fotografato e poi chiuso qui dentro. È questo, l’unico modo per passare la frontiera: ora – come tutti – sono in coda da 14 ore, per uscire da questo recinto e salire su un pullman. So quello che sanno tutti: se non creo problemi, se aspetto il mio turno, mi porteranno via. Dove?
Carcere a cielo aperto
Schierati sui binari tra le urla e sotto la pioggia
Non lo so, e nemmeno mi importa. Voglio solo uscire di qui. E poi voglio ricaricare il mio telefono scarico, trovare una connessione internet, dire alla mia famiglia che sto bene: tutti qui abbiamo una famiglia che aspetta notizie. È per questo che desideriamo così tanto un caricabatterie e una rete una wi-fi: per mandare un messaggio su Whatsapp o su Facebook, tranquillizzare chi ci vuol bene ed è preoccupato per noi. Chi non lo capisce, o è in malafede, o è un idiota. Alla 14esima ora arriva una busta con due fette di pane, una scatoletta di sardine, un litro di latte: è quasi mezzanotte, siamo rimasti in 200, ci hanno assicurato che i prossimi pullman sono per noi. Due ore dopo, possiamo partire. Usciamo dal recinto, saliamo sul pullman scortati dai poliziotti, sediamo felici come bambini in gita: è il senso di libertà. Eppure non siamo liberi. Non sappiamo neanche dove stiamo andando. Ma è il movimento che ci fa sentire liberi: stiamo finalmente andando altrove e guardiamo dal finestrino per capire: dove? Lo scopriamo in meno di mezzora: scendiamo alla stazione di Tovarnik. Ci incolonniamo verso i vagoni.
La polizia ci fa procedere in fila per uno e, arrivati al binario, ci mettono spalle al treno. Dobbiamo restare fermi, in questa posizione, finché non ci contano, mentre una videocamera ci riprende. Dopo la conta possiamo salire. Ringraziamo. Il poliziotto ci spinge nel vagone, ma siamo più di quanti possa contenerne, così procede a distribuire il nostro gruppo, che è in eccesso, dentro gli scompartimenti già pieni.
Ogni scompartimento ha 6posti, già tutti occupati, ma il poliziotto ci spinge dentro, così sediamo in otto, mentre altri due si sdraiano, e diventiamo 10. Ma non è sufficiente. Così i poliziotti decidono di occupare l’intero corridoio, riempiendolo di ragazzi, seduti uno accanto all’altro, il che rende impossibile, per chiunque, raggiungere l’unico bagno in fondo al vagone. L’operazione dura un paio d’ore. Ogni volta che un vagone si riempie, il treno si sposta di una decina di metri, per consentire ai poliziotti di riempirlo fino all’impossibile.
Si procede così per ogni vagone. Finché alle 3 di notte la locomotiva si muove. Siamo un treno di carne pressata, se dovesse accaderci qualcosa, sarebbe una strage. Andando via, salutiamo dai finestrini. E ringraziamo: “Thank you police”. E non siamo ironici. Questi poliziotti hanno davvero fatto tutto ciò che potevano. E adesso? Tra noi c’è chi dice che siamo diretti in Slovenia, chi in Ungheria, chi in Austria. Nell’attesa, fumiamo. Siamo un treno di carne sporca e affumicata. Non c’è verso di dormire. Le ore passano lentissime. Alle 8 siamo vicini a Zagabria, il treno si ferma, riparte in direzione opposta: “Tra mezz’ora sarete in Ungheria”, ci dice una poliziotta dal finestrino. Alle 9 del mattino siamo al confine: scendiamo dal treno e, per quanto mi riguarda, inizia il sesto giorno di viaggio.
Da 6 giorni non mi lavo e non dormo più di 3 ore. Il sesto è il giorno peggiore: quando scendiamo dal treno, mentre attraversiamo il ponte sul fiume, inizia un diluvio. Marciamo per le campagne, in un percorso che hanno già prestabilito, e ciò che vedo è solo fango e piedi che perdono scarpe. La bambina davanti a me ne perde una, il signore accanto rompe l’infradito, quello dietro inciampa. Siamo sempre più stracciati. Siamo sempre più bagnati.
Libertà a tappe
Tre ore per fare un metro nella fila verso l’uscita
Arriviamo al confine completamente fradici. I poliziotti croati ci passano in consegna a quelli ungheresi. E gli ungheresi ci urlano addosso, ci compattano per trasferirci su un altro treno, si passa 10 per volta, ormai completamente rincoglioniti, per ricominciare la stessa trafila: in fila per uno dentro i vagoni, che si spostano lentamente, finché sotto gli occhi dei fotografi non siamo pronti a partire. Quando sediamo nello scompartimento i nostri vestiti sono così fradici che dai pantaloni, all’altezza delle ginocchia, vedo salire del fumo: è il nostro vapore acqueo. Sono in uno scompartimento di soli afgani e accanto a me, per terra, siede una donna avvolta in una coperta rossa che le copre il volto. Le lascia scoperti soltanto gli occhi: sono verdi, grandi, le ciglia così lunghe e marcate che mi chiedo se non abbia portato con sé il rimmel. Dal finestrino vediamo filo spinato e decine di militari: l’Ungheria ha schierato l’esercito al confine, hanno l’ordine di sparare a vista su chiunque, tra noi, provi a superarlo senza il permesso. Dopo un altro paio d’ore il treno parte. L’ennesima attesa è finita. Nello scompartimento qualcuno ringrazia Allah. Gli altri rispondono in coro. All’unisono. Sono l’unico a restare muto. Con gli occhi sgranati per l’imbarazzo.
“Da dove vieni?” mi chiede il ragazzo seduto di fronte, che si chiama Ismail. Parla il farsi, non l’arabo, anche se per me ovviamente fa lo stesso. Non posso rispondere che sono afgano, gli chiedo di parlarmi in inglese, perché sono siriano. Mi offre da mangiare: nello zaino ha del pane farcito con la marmellata, omaggio di chissà quale volontario, e una scatoletta di tonno. Dividiamo. Pane, marmellata e tonno. Il finestrino striscia tra le selci, qui intorno è verde ovunque, siamo inzuppati fin nelle ossa, non possiamo aprire i finestrini altrimenti congeliamo, dalle nostre gambe continuano a salire delle colonne di fumo. E non è l’unico fumo di cui si riempie lo scompartimento. Davanti a me tre ragazzi, tra i 15 e i 18 anni, stanno affrontando il viaggio in un modo completamente diverso. Ognuno è profugo a modo suo. Ognuno ha il diritto di scappare dalla guerra – e in Afghanistan si combatte e si muore di fame.
Ognuno ha il diritto di desiderare una vita migliore. Anche dei ragazzini eroinomani e cocainomani. Il più spigliato tra loro prende un sacchetto dalla tasca, scioglie il filo che lo lega, posa la polvere su un cartoncino, metà la sniffa, metà la fuma, con gli altri due. Anziani, bambini, donne, ragazzi: tutti assistiamo alla scena senza battere ciglio. Non stanno trafficando droga. Anzi. L’hanno comprata in Grecia, mi spiegano, ed è di pessima qualità, mi dicono. Ma continuano a sniffare e a fumare. Finché il loro volto non si distende. Mi sorridono con tenerezza. Me la offrono. “No, grazie”. Il loro sguardo, in quest’esperienza, è quello che ricorderò per sempre. Ed è anche quello che ringrazio più di tutti: hanno portato pochi bagagli, ma non hanno lasciato a casa una grande percussione, che iniziano a suonare, mentre il treno macina lentamente chilometri.
Una musica benedetta
Le percussioni degli eroinomani afgani
È una musica benedetta, che ci rapisce da questa miseria, dai vestiti freddi e bagnati, ci restituisce i sorrisi, ci libera la mente. Questi tre ragazzi completamente fatti ci regalano l’unico momento di evasione di tutto il viaggio. Spero l’eroina non li distrugga, e possano vivere una vita dignitosa, come più dignitoso hanno reso il nostro passaggio in questo treno che attraversa le foreste ungheresi. Alle 5 del pomeriggio siamo a Hegyeshalom. E ovviamente non sappiamo dove sia, a parte il fatto che è una città ungherese, ma scendiamo e proseguiamo a piedi: i poliziotti ci indicano una direzione. Tutto qui. E noi la seguiamo. Non piove più, per fortuna, e i nostri vestiti si sono ormai asciugati sulla nostra pelle. Fa freddo. Molto freddo. E intorno a me c’è chi è rimasto in pantaloncini e ciabatte.
Le donne sorridono, i padri urlano ai bambini che piangono e tengono tra le braccia, i ragazzi scherzano con la gente per strada. Stiamo attraversando l’Ungheria, ce l’abbiamo quasi fatta: siamo vicini alla meta. In mezz’ora siamo in un’altra dimensione. “Lei è austriaca?”, chiedo alla poliziotta. “Sì”, mi risponde. “E dove comincia l’Austria?”. Indica l’incrocio a duecento metri da noi. È fatta. Niente più muri, filo spinato, deportazioni gentili. Possiamo circolare liberamente. Io e Ismail prendiamo un taxi per Vienna. Mi spiega che la sua famiglia – 70 persone – ha messo da parte risparmi per anni, pur di farlo partire. E ogni 4 anni un suo parente può partire. Ora è il suo turno. Ed è un giorno speciale: “Oggi è l’Eid”, mi dice, la festa islamica che potremmo paragonare al nostro Natale. A Vienna ci salutiamo. Lui si ferma tra le tende per i profughi. Io cerco un albergo, un carica batterie, un posto dove poter finalmente chiamare la famiglia.
“Antonio, come stai? Dove sei?”. Il messaggio su Whatsapp parte da Berlino. È Mohammed, il ragazzino ventenne partito da Aleppo, dove ha interrotto gli studi in medicina per la guerra. Vuol diventare medico in Germania. “Sono in un campo, nel villaggio di Werder Havel”, mi scrive. Vado a trovarlo. Sta bene. Il 15 dicembre incontrerà la commissione per i richiedenti asilo. “Qui mi danno 150 euro al mese più vitto e alloggio – mi racconta – e se faccio pulizie o cucino mi danno una paga extra”. “Il tuo viaggio è finito?”, gli chiedo. “No. Finirà solo quando sarò iscritto all’università. Mi hanno assicurato che tra un anno, dopo aver imparato il tedesco, potrò iniziare a studiare”.
“Hai bisogno di qualcosa?”, gli chiedo. “No, grazie. L’unica cosa di cui ho bisogno è impossibile da realizzare”. “Quale?”. “Vorrei tanto avere due anni in meno, essere minorenne, per poter chiedere il ricongiungimento con la mia famiglia. Non voglio che viaggino come me”. Mohammed, alla frontiera con la Turchia, è stato picchiato così duramente che per due giorni è stato ricoverato in un ospedale. Al suo amico hanno fratturato le braccia. “Ma ai miei l’ho detto soltanto adesso. Non volevo che mia madre e mio padre si preoccupassero. E non voglio che possa capitare anche a loro”.
Antonio Massari, il Fatto Quotidiano 4/10/2015