Marco Di Capua, Panorama 1/10/2015, 1 ottobre 2015
RITRATTO D’INDUSTRIA
L’industria? Uno spettacolo. Quando certi fotografi entrano in azione il restyling della realtà è inarginabile, indifferenziato. Nulla sembra indegno di uno scatto, nemmeno i soggetti più tosti, lo sappiamo. Se le probabilità che la bellezza salvi il mondo sono praticamente ridotte a zero, il lavoro, con i suoi luoghi, le sue scene madri, ritagliato dall’obbiettivo di una macchina fotografica può comunque rappresentare il pianeta più ospitale dove fare atterrare il nostro sguardo. Molto vicino alla zona che su di noi
esercita il suo maggior fascino, quella dello spazio urbano, il gesto della creazione incontra i metodi, i volti e le architetture della produzione, generando cose interessanti, qualche volta vere meraviglie.
Sono questi i primi pensieri che si hanno davanti alle immagini della Biennale Foto Industria 2015 di Bologna che, curata da Francois Hébel e promossa dalla Fondazione Mast, propone ben 14 mostre disseminate in 12 luoghi storici della città (dal 3 ottobre all’1 novembre).
Ecco la serie Land Scape dell’americano David LaChapelle (Pinacoteca Nazionale). E di queste sue scintillanti raffinerie e solitarie pompe di benzina, con i colori che benché accesi non riscaldano, ci attrae la geometria astratta, lo smalto di una specie di mostro che diventa sgargiante congegno estetico. Così come nella dantesca desolazione di una cava acrobaticamente ripresa dal canadese Edward Burtynsky (Palazzo Pepoli Campogrande) scopriamo simultaneamente il senso di una denuncia e la forza strutturale della terra, come nell’epica di Sebastião Salgado. L’habitat della produzione industriale diventa anche allucinazione, pensiero fantastico per l’italiano Luca Campigotto (Spazio Carbonesi): il blow-up notturno della prua di una nave, che provenga dal porto di Genova o dai docks di New York, ricorda un’invenzione felliniana. Questo per dire quanto possa essere modulabile il tema. Che, infatti, non ci trascina solo tra fabbriche deserte, torri e altiforni, ma ci para davanti ai corpi e alle facce degli uomini, innescando tutta una micro narrativa intima, simbolica, sociale. Facce, uomini e perfino oggetti. Come nel caso del giapponese Hong Hao, che recupera uno sguardo particolare rivitalizzando il mondo silenzioso delle cose o come Neal Slavin, che celebra quell’idea della coesione e della complicità di gruppo così presente nella sua cultura.
In questa prospettiva, è esemplare l’opera del nostro Gianni Berengo Gardin (Fondazione del Monte, Palazzo Paltrani), con la sua bella utopia olivettiana anni ’60 in bianco e nero. Davvero avventuroso è il
cinema potenziale dell’americano O. Winston Link (Fondazione Cassa di Risparmio, Casa Saraceni), il quale tra il 1955 e il ’59 scattò una miriade di flash sulle ultime locomotive a vapore: però non quando se ne stavano ferme, troppo facile, ma quando, per esempio, sbuffando e urlando irrompevano sul fondo di un affollatissimo drive in.
Andando ancora più indietro, perché il feeling tra fotografia e industria è roba scritta nel dna della modernità, ecco la Germania degli anni Trenta di Hein Gorny (Museo della Storia) e l’avveniristica Parigi dei Venti di Léon Gimpel (Museo di Palazzo Poggi). Più vai a ritroso come nel film Il curioso caso di Benjamin Button più tutto ritorna giovane o, semplicemente, nuovo.