Alberto Cairo, la Repubblica 1/10/2015, 1 ottobre 2015
LA SPERANZA PERDUTA DELLA GENTE DI KABUL
Tre uomini discutono seduti al sole, un sole autunnale. Origlio.
Parlano della cattura di Kunduz da parte dei Taliban: se l’esercito cerca di riaverla, uno dice, sarà distrutta dai combattimenti, con chissà quanti morti. Conosco Rafi, Jakub e Masud da anni. Sono di etnia e estrazione sociale diversa. Diversi sono anche lavoro e livello di istruzione. Da qualche tempo hanno una cosa in comune: figli partiti alla volta dell’Europa. Il solito percorso: Iran, Turchia, Grecia. Del figlio Masud non ha notizie. Ripete, per darsi coraggio temo, che se la caverà, è un ragazzo in gamba e sa nuotare. Quelli di Rafi e Jakub sono in Ungheria. Stanno meglio che qua. Non c’è futuro qui, spiegano.
Malgrado viva a Kabul da 25 anni, ieri mi sono perso guidando. Ho cercato punti di riferimento nelle colline che tagliano la città, ma gli enormi palazzi sorti ovunque l’impedivano. Bloccato nel traffico, ho ingannato il tempo guardandomi intorno. Nel giro di poche centinaia di metri conto 4 scuole e 2 ospedali privati, 3 ristoranti specializzati in matrimoni e almeno 30 vetture tipo fuoristrada. Che cambiamento dal 2001! Ne ha fatta di strada il paese, uno può pensare. Poi, ad ogni rotonda, uno stuolo di mendicanti e poliziotti armati controllano auto e guidatori in un clima sinistro. Come vive la gente in Afghanistan? Mi sento chiedere spesso. Tira avanti, arrangiarsi resta la parola chiave. Tra campagna e città la differenza resta notevole. Grazie a internet e alla televisione sanno molto del mondo, non pochi giovani parlano l’inglese, anche ragazze. Ma la disoccupazione è altissima e trovi lavoro solo se raccomandato. Masud e Jakub dicono che non è stato tanto il timore di attentati a fare partire i figli quanto la certezza che l’Afghanistan ha perso il treno della rinascita. E che un altro non passerà.
Alberto Cairo, la Repubblica 1/10/2015
Alberto Cairo lavora in Afghanistan per il programma Ortopedico della Croce Rossa Internazionale.