Sandro Orlando, Style 29/9/2015, 29 settembre 2015
JING-JIN-JI – [UNA MEGALOPOLI DA 110 MILIONI DI ABITANTI]
Ai viaggiatori del 19esimo secolo Pechino doveva apparire come un immenso parco, con le tegole dorate della Città Proibita che s’intravedevano da lontano, scintillando tra la vegetazione. Oggi quello spettacolo non si ripropone più, e non solo perché è difficile che il cielo non sia oscurato da una cappa d’inquinamento, ma perché gli stupendi giardini che affollavano la vecchia Città imperiale hanno lasciato il posto a viali a otto corsie perennemente intasati dal traffico. L’aspetto della capitale cinese è radicalmente cambiato negli ultimi 30 anni, eppure anche le guide turistiche più recenti continuano a raccomandare gli itinerari di sempre, come se il tempo si fosse fermato. E probabilmente sarà così anche tra cinque anni, quando la Città Proibita si troverà a circa 200 chilometri dalla nuova circonvallazione che si sta costruendo intorno a Pechino, in vista della sua aggregazione con la municipalità di Tianjin e la provincia dell’Hebei. Perché nel 2020 Pechino non esisterà più come città, ma sarà solo un distretto di un enorme agglomerato urbano, che dalla baia di Bohai sul Mar Giallo si estenderà fino agli altipiani della Mongolia interna. Una megalopoli che conterrà circa 110 milioni di abitanti, su un territorio grande quanto la nostra penisola da Bolzano fino alla Puglia. La più grande città del mondo.
Le distanze sono d’altronde relative. Già oggi Pechino è collegata alla costa da un treno che impiega 33 minuti per percorrere i 120 chilometri del tragitto. C’è una corsa ogni dieci minuti, dalle sei del mattino a mezzanotte, eppure a causa dell’affollamento la linea verrà raddoppiata. Un’altra linea ad alta velocità sarà inaugurata entro l’anno verso Zhangjiakou, la città di montagna situata a 200 chilometri dalla capitale, che è stata designata come sede dei Giochi olimpici invernali del 2022. Anche Zhangjiakou, con i suoi quattro milioni e mezzo di abitanti, diventerà un distretto della nuova megalopoli che ingloberà tutta la regione: una sorta di quartiere ricreativo dedicato allo sci e agli sport invernali. Del resto di qui passerà anche la nuova circonvallazione esterna, un gigantesco raccordo anulare che correrà per più di 900 chilometri intorno alle pianure dello Hebei, diventando uno degli assi portanti del futuro sistema di trasporti di «Jing-Jin-Ji», come si chiamerà la nuova megalopoli. Una realtà monstre che supererà di gran lunga Chongqing, attualmente la più glande città del pianeta, con i suoi 34 milioni di abitanti.
La nuova autostrada, che per una buona metà è già pronta, sarà completata entro il 2017. E si andrà a sommare alle altre sei tangenziali sorte a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso come tanti anelli concentrici intorno alla capitale. La prima circonvallazione a essere costruita, alla fine del 1981, fu la Seconda, lungo il perimetro dell’ex città interna. La Prima invece, sarebbe stata realizzata solo più tardi, passando là dove un tempo si trovavano le vecchie mura della Città imperiale. All’epoca Pechino contava già nove milioni di abitanti, e disponeva di due linee di metropolitana: la costruzione di nuove tangenziali sembrava l’unica soluzione per risolvere i problemi di mobilità che la sua espansione urbanistica iniziava a porre.
Nel 2000 gli abitanti erano ancora 13 milioni. L’anno successivo però la città si aggiudicò i Giochi olimpici del 2008, e questo scatenò un boom edilizio senza precedenti. Nel 2003 fu terminata la Quinta circonvallazione, che separa ancora oggi il centro dalle periferie. Nel 2010 fu il turno della Sesta, che gira intorno alla città per quasi 200 chilometri. Ma Pechino ha continuato a crescere, e la sua popolazione ormai supera i 21 milioni e mezzo di abitanti, su un territorio grande quanto il Lazio.
La rete di trasporti però non ce la fa più: nonostante 18 linee di metro, otto stazioni ferroviarie, più di 30 mila autobus e oltre 90 mila taxi, la congestione del traffico ha toccato livelli disumani. Con quasi sei milioni di veicoli in circolazione, i tempi medi di percorrenza per spostarsi in città sono di cinque ore. Un inferno.
La crescita sregolata degli ultimi anni ha fatto nascere al di fuori dell’ultimo anello delle circonvallazioni una miriade di comuni-dormitorio composti da centinaia di prefabbricati tutti uguali alti 25 piani, senza un ospedale, una scuola, un cinema, e neanche un collegamento con la metro o la ferrovia, al massimo qualche centro commerciale. Come Yanjiao, una delle tante città satellite sorte dal nulla e già con 700 mila abitanti, che dista appena 35 chilometri da piazza Tienanmen. Peccato solo che la tangenziale per il centro della capitale s’interrompa davanti al cantiere di un ponte. Non è l’unica autostrada che finisce così, peraltro. Il fenomeno si è moltiplicato con la rapidità di uno sviluppo anarchico, che ha trasformato le campagne in quartieri, i quartieri in villaggi e i villaggi in città, prima che le grandi opere infrastrutturali venissero completate. Basti pensare che nel 1978, l’anno dell’avvio delle prime riforme economiche e della «decollettivizzazione» dell’agricoltura, l’area metropolitana di «Jing-Jin-Ji» era urbanizzata solo per l’otto cento: il resto era costituito da campi coltivati e pascoli, foreste e terreni abbandonati. Oggi tutto il territorio che si estende per un raggio di almeno 300 chilometri a Est e a Sud della capitale, fino alle metropoli di Qinhuangdao (tre milioni di abitanti) e Cangzhou (sette milioni), Shijiazhuang (dieci milioni) ed Hengshui (quattro milioni), costituisce un unico tessuto urbano. Una successione ininterrotta di centri abitati, che comprende anche 11 grandi metropoli con più di tre milioni di abitanti (le dimensioni di Roma), oltre alle municipalità di Tianjin (15 milioni) e Pechino.
Le direttive per «lo sviluppo congiunto di Jing-Jin-Ji» sono state approvate dal Politburo del Partito comunista cinese lo scorso 30 aprile, allo scopo di mettere un freno all’aumento incontrollato della popolazione della capitale, che nell’ultimo decennio è cresciuto mediamente di 600 mila nuovi abitanti l’anno, riducendo contemporaneamente la pressione sulle sue risorse ambientali. Obiettivo: non superare nel 2020 la soglia dei 23 milioni. Per quella data la rete metropolitana di Pechino potrà disporre di 30 linee, il sistema di tangenziali conterà sette raccordi anulari, 27 nuove tratte di treni a levitazione magnetica sfrecceranno attraverso la nuova area di «Jing-Jin-Ji», 18 autostrade saranno state potenziate e raccordate, e un nuovo super aeroporto a Sud della capitale si sarà aggiunto ai dieci che già servono il territorio.
Il rafforzamento delle infrastrutture di trasporto sarà accompagnato da una politica di decentramento. Il quartiere governativo verrà così trasferito nel distretto di Tongzhuo, una ventina di chilometri a Est di Tienanmen. Altri uffici, ministeri e tribunali finiranno invece a Baoding, una delle città di seconda fascia 150 chilometri a Sud di Pechino. La riorganizzazione coinvolgerà anche quelle aziende e fabbriche che non sono state già spostate negli anni scorsi, nel quadro di una riallocazione più efficiente delle funzioni produttive. L’industria dell’auto è finita ad esempio a Huanghua, cittadina costiera a meno di 100 chilometri dal porto di Tianjin; l’elettronica, l’aerospaziale e il petrolchimico hanno cominciato a traslocare nella zona franca di Binhai; banche e servizi arriveranno presto nel distretto finanziario di Yujiapu, che aspira a diventare la nuova Manhattan cinese. Una specializzazione che lascerà a Pechino le attività del terziario avanzato, come cultura, ricerca, sanità, ambiente.
La parola chiave è riequilibrio. Tre anni fa l’Ufficio nazionale di statistica annunciò che il grande sorpasso era avvenuto, e più del 50 per cento dei cinesi viveva in città. Ma nonostante gli interventi del governo centrale, i fenomeni di migrazione interna che hanno portato nel giro di appena 30 anni a far nascere in Cina 170 metropoli con più di un milione di abitanti (negli Usa sono dieci, in Europa 18) non accennano a interrompersi. Dal 1991 quattro piani di sviluppo quinquennale hanno ripetuto l’assioma di «controllare le grandi città, moderare lo sviluppo delle medie e incoraggiare la crescita delle piccole».
Un principio puntualmente disatteso. Il XIII piano (2016-2020), che sarà votato dal Congresso del Popolo a marzo, dovrà fare i conti con un’urbanizzazione che in pochi decenni ha sì moltiplicato il reddito dei cinesi di oltre 70 volte, ma anche creato enormi disastri ambientali, lasciando più di un terzo dei cittadini urbanizzati senza diritti. Perché quasi 300 milioni di cinesi, che formalmente risultano ancora abitare in campagna sulla base di un obsoleto sistema di controllo della residenza (hukou) anche se in realtà vivono nelle città più industrializzate della costa, sono esclusi oggi dal diritto a un alloggio, alle cure mediche, a una pensione, a un’educazione per i figli. Costituiscono quel «popolo fluttuante» di lavoratori migranti, in perpetuo movimento da una fabbrica dormitorio all’altra, che finora ha costituito l’immenso bacino di manodopera a basso costo su cui si è retto il miracolo economico cinese. Riusciranno i pianificatori della nuova capitale a conciliare sviluppo, ambiente e diritti?