Stefania Carini, Rivista Studio 29/9/2015, 29 settembre 2015
LE VECCHIE MANIERE DELLA NUOVA TV
LONDRA – Julian Fellowes imita Maggie Smith alias Lady Violet. È allora che il canonico momento “domande&risposte” dell’incontro stampa organizzato a Londra per il lancio della sesta e ultima stagione di Downton Abbey diventa indimenticabile. Nella sala cinema del Mayfair Hotel, cinque stelle appena sopra a Green Park (un po’ lugubre, ma serve un ottimo mojito), si assiste in mattinata alla prima puntata della sesta stagione: Lady Mary è sotto ricatto ma agisce ormai come “l’uomo di casa”, la signora Hughes e il signor Carson sono alle prese con una commovente dichiarazione d’intenti matrimoniali, Lady Violet e Lady Isobel sono pronte a un nuovo scoppiettante battibecco. Alcuni fili narrativi si chiudono velocemente, e tutto sembra pronto per il gran finale voluto dal creatore della serie Fellowes (premio Oscar per Gosford Park) e dal produttore esecutivo Gareth Neame (molto prolifico in tv, da Spooks a Roma). Entrambi sono sul palco pronti a rispondere ai giornalisti dopo la visione dell’anteprima. Il primo non sente nulla («Sono completamente sordo»), il secondo gli ripete le domande rendendole pure più belle. Viene il dubbio che sia solo una gag di Fellowes per apparire ancor più distante, elegante, snob, ma sempre in un modo delizioso.
Nel pomeriggio (dopo veloce e scarno buffet) si svolgono le interviste con gli attori: tanti tavoli, una sala enorme, finestre velate. I volti di Downton Abbey, talvolta irriconoscibili causa trucco e vestiti moderni, si siedono anche due alla volta di fronte a sei o sette giornalisti costretti a rubarsi la parola. Lady Mary (Michelle Dockery) è poco loquace, molto meglio la sua cameriera Anna (Joanne Froggatt). Maggie Smith non c’è, ovviamente. È fugacemente “apparsa” solo quando Fellowes, appunto, ne ha imitato la cadenza ricordando una scena dello show, per poi aggiungere: «Eccezionale. E riesce a passare dalla commedia alla tragedia e viceversa in maniera fluida, credibile». Nell’interpretare Maggie Smith nei panni di Lady Violet, Fellowes ha però reso palese quello che abbiamo sempre sospettato: la matriarca di Downton incarna all’interno della serie il punto di vista (spesso divertito) dell’autore.
Downton Abbey racconta di nobili e di servitù, e di rigide regole gerarchiche. E narra di come questi due universi si rapportano al nuovo, per esempio la borghesia. Queste classi sociali si incontrano, si confrontano e infine per forza di cose cambiano. Anche perché è il mondo attorno a Downton Abbey che continua a cambiare, e nulla può essere più come prima. Il seppur lento mutamento è il cuore del racconto, e tutto accade a causa di progressivi slittamenti sociali, nuove invenzioni quotidiane, grandi eventi sconvolgenti. Tutto accade anche perché i personaggi evolvono. L’introduzione dell’elettricità («First electricity, now telephones. Sometimes I feel as if I’m living in an H.G. Wells novel» bisbiglia Lady Violet), la tremenda tragedia della Prima guerra mondiale, il confronto/scontro dei caratteri di fronte agli eventi della vita. La Storia e le storie si intrecciano.
«Mi basta sapere di avere fatto una buona serie capace di piacere a molti. Spero sia ricordata con affetto», afferma l’autore. Downton Abbey stessa dunque, non solo quel che racconta, assume ormai la forma di ricordo lontano, è memoria e commozione, con l’ultima stagione, che in Gran Bretagna andrà in onda dal 20 settembre su Itv. Da noi dal 18 ottobre andrà in onda la quinta, spostata da Retequattro a La5, rete del digitale terrestre del Biscione dedicata a un pubblico femminile, dove sarà trasmessa anche la sesta. A fine agosto è stato reso disponibile il primo trailer: Lord Grantham spiega a Carson che non possono «fermare la Storia». Così mentre risuona Time to Say Goodbye (una versione in inglese di Bocelli cantata con voce femminile), ecco la carrellata dei personaggi pronti a dirci addio. Ed è subito nostalgia canaglia con lacrima.
Non è però questo un sentimento che accompagna da sempre la visione di Downton Abbey? Come era bello una volta, nonostante tutto (succede anche guardando Mad Men). Forse è lo show stesso a porsi come “archeologia nostalgica” del passato, finendo così per essere conservatore? Non è un paese conservatore in fondo anche la Gran Bretagna? «Abbiamo mostrato svantaggi e ingiustizie di quel tempo», risponde Fellowes. «Non c’è mai stata l’intenzione di convincere il pubblico che fosse un’epoca meravigliosa cui tornare. Eppure è anche vero che questo è un Paese tradizionalista, che ama essere connesso con la propria storia. Negli anni Novanta c’è stata una sorta di sfida da parte dei media, e di Blair: reinventarsi come una società capace di guardare avanti secondo uno stile più all’americana. Ma non era del tutto vero: per traghettare i britannici in una certa direzione devi abbracciare la loro storia. Forse Downton e altri eventi ci hanno fatto capire che la Cool Britannia è stata un’eccezione non una nuova direzione». Continua Neame: «In ogni trama mettiamo sempre in scena due punti di vista, uno più progressista e uno più conservatore. Abbiamo affrontato temi come l’omosessualità o l’istruzione in maniera liberale».
Pensiamo alle donne della serie: tutte cercano in qualche modo di sfuggire alle restrizioni imposte dalla società dell’epoca per trovare una propria indipendenza. Incarnano la voglia di modernità che cova sotto pizzi e velluti. E Downton Abbey stesso incorpora questa doppia natura: un melodramma in costume così inglese eppure capace di far propria una scrittura moderna all’americana. E Neame non ha dubbi: «È una serie europea capace di far parte di quella che chiamiamo Golden Age della tv americana. Non è un adattamento letterario, come altri prodotti inglesi d’ambientazione storica, costretti a seguire una struttura già data, spesso con un’unica trama lineare. Oggi consumiamo un tipo di intrattenimento diverso, con più linee narrative, più personaggi. In Downton Abbey, abbiamo unito un’ambientazione tipicamente inglese a una struttura produttiva moderna, contemporanea e soapy». Continua Fellowes: «Il trucco dello show è che sembra un tradizionale period drama inglese, ma la sua struttura è più vicina a West Wing ed E.R. È stata una scelta voluta: gli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta hanno reinventato la narrazione televisiva. E questa è la tradizione cui guardare, non quella inglese degli anni Settanta, che pure ho molto amato».
Downton Abbey è stato un fenomeno sul piano degli ascolti, ma in Inghilterra e negli Stati Uniti. Da noi è andata diversamente. In onda su Retequattro in prima serata dal 2011, la serie ha totalizzato una media di 1.400.000 spettatori (5,6 per cento di share) per la prima stagione e di 1.200.000 spettatori (4,7 per cento di share) per la seconda. Rispetto a certi nostri standard, non ha fatto così male, anche perché la media di Retequattro allora ha oscillato tra il 6 per cento e il 5. In un mondo di scaricamenti illegali, poi, spesa in parte la non simultaneità di messa in onda con il Paese di origine (e non è un caso che ci si stia muovendo in quella direzione). Inoltre Retequattro forse non era il canale adatto, e dunque adesso tocca a La5, di nicchia e più targhettizzata. Ma in fondo quale rete generalista italiana è adatta a un prodotto simile? Quale serie raffinata della Golden Age ha ottenuto un vero grande successo popolare sulle nostre tv negli ultimi anni? Porse l’ultimo risale al 2005-2006. Era Dr. House.
Il nuovo stile telefilmico americano (l’Età dell’Oro) nasce negli anni Ottanta, e sta influenzando in parte anche l’Europa, come dimostra Downton Abbey. È caratterizzato da serialità interepisodica, cast corale, più linee narrative stratificate e dense, linguaggio visivo curato, tematiche spesso ardite. All’inizio era lo stile di alcuni prodotti, alla fine è diventato lo stile dominante. È un racconto popolare nel senso più alto del termine, che utilizza però un linguaggio narrativo, seriale, visivo raffinato. Certo, c’è popolare e popolare, c’è raffinato e raffinato: la rivoluzione è iniziata dalla tv generalista per poi diffondersi alla pay, con show sempre più di nicchia. Eppure vale più Lost che parla a tutti di Mad Men che parla a pochi. Conta insomma abituare progressivamente tutto il pubblico a nuove tipologie narrative. Gli americani lo hanno fatto non perché sono “bravi&buoni”, ma perché era l’unico modo per non far fuggire verso altri media un pubblico pregiato, giovane, colto, moderno.
Noi avevamo iniziato bene. In prima serata su Canale 5 (dopo che Rai non lo aveva capito) ecco nel 1981 Dallas: lo show negli Stati Uniti mostrava le potenzialità in prime time di una certa complessità narrativa, seppure in stile soap, tanto da contagiare anche altri generi, come il poliziesco Hill Street giorno e notte. Avevamo continuato più che bene: 1991, in prima serata su Canale 5, ecco Twin Peaks, il telefilm che aveva messo in chiaro che la tv non sarebbe mai stata quella di una volta. E adesso? Su Canale 5 va alla grande, quando trasmesso anche in prime time, Il segreto. Un buon titolo, certo, ma nel suo genere: è una telenovela pomeridiana, non una serie da prima serata. Gli investimenti narrativi e produttivi sono ben diversi. Forse però è più in linea con certe fiction della rete, come L’onore e il rispetto. Perché Il segreto, un fenomeno di innamoramento collettivo difficile da spiegare, è anche sinonimo di come la nostra tv faccia fatica a fare sue narrazioni più mature. Pur essendo patrimonio della generazione degli anni Ottanta e Novanta, il telefilm americano, anche quello di nuovo corso, è stato spesso maltrattato dalla programmazione e non ha mai influenzato nel profondo la nostra produzione. I gusti cambiano anche per abitudine, e il nostro grande pubblico da prima serata non ha fatto in tempo a far proprio quello stile. Con l’avvento di Sky (e di Mediaset Premium poi) il telefilm è diventato contenuto pay, insomma di nicchia, anche per titoli assolutamente da tv generalista.
Forse basterebbe insistere. Raidue ha creato due serate telefilmiche di genere poliziesco con buoni ascolti grazie a Castle, NCIS, Elementary, Criminal Minds, permettendosi anche il complesso The Good Wife. Italia Uno ha puntato in prima serata sui titoli superomistici come Arrow e The Flash, di grande ascolto. Ci paiono titoli meno “di qualità” di quelli della Hbo? Quella è la nicchia anche negli Stati Uniti. Anche per queste serie però la matrice è sempre lo stile del nuovo telefilm, certo nella sua versione più popolare. È dall’abitudine alla visione di tali titoli che si deve partire per proporre show generalisti più sofisticati, tipo Downton Abbey e altro. Sul versante della produzione italiana, si è tentata una qualche evoluzione strutturale all’americana grazie alle serie della Taodue di Pietro Valsecchi, a Tutti pazzi per amore, a Una grande famiglia, seppur con una resa finale spesso grossolana. Certo, meglio con Romanzo Criminale e Gomorra, ma è Sky. Perché alla fine è dalla tv generalista che può partire un mutamento profondo. Quando iniziammo a produrre di nuovo fiction autoctona, si fecero cose buone come Il Commissario Montalbano, Raidue, 1999. Che solo dopo è diventato prodotto da Raiuno: è ora per tutti, è un grande successo, è vincente spesso anche in replica, è esportato all’estero (in Inghilterra, per dire, Bbc4). Certo, Montalbano è ancora vecchio stile (l’origine letteraria con una sola linea narrativa). Ma dovrebbe essere il punto da cui partire: il nostro popolare da ibridare prima o poi con E.R. e West Wing.