Imma Vitelli, Vanity Fair 30/9/2015, 30 settembre 2015
ANCHE I SANTI QUI FANNO LA GUERRA
Nella valle della Beqaa, in Libano, sul versante nordorientale, c’è un villaggio cristiano di nome Ras Baalbek. Ce ne sono tanti, di villaggi cristiani, nella Beqaa, ma nessuno è come Ras Baalbek.
Al pari di corvi, pronti a colpire, sono accampati sulle colline i miliziani di Daesh, lo Stato Islamico in Iraq e in Siria. «Arriveranno in paese solo passando sui nostri corpi», mi dice Khodr Issa, un quarantenne nervoso, di fede cattolica, fabbro di professione. «Costi quel che costi, le nostre campane continueranno a suonare». Khodr Issa ogni giorno imbraccia un kalashnikov e fa la guardia alle case e alle chiese e alle pendici dei monti su cui talvolta sventola la bandiera nera del nemico.
Alle uniformi militari e ai proiettili hanno provveduto i notabili del paese, gente come Rifaat Nasrallah, l’uomo che ha organizzato la difesa e che ora mi dice duro: «Non faranno di noi dei profughi. Questa è la nostra terra, qui sono le nostre radici».
L’ora zero, a Ras Baalbek, è scoccata il 27 gennaio del 2014: il giorno in cui sui monti Qalamun, che dividono il Libano dalla Siria, sono arrivati gli stranieri. «Quel giorno ci hanno attaccati con missili e mortai», dice Nasrallah, un armadio d’uomo, in maglietta rosa e mocassini blu. «Sono scesi a valle e hanno rapito cinque persone. Sono venuti in fabbrica a cercare anche me, ma non mi sono fatto trovare». E mica non lo conoscevano, gli abitanti del paese, l’ormai noto copione; mica non avevano visto, in Siria, le chiese bruciate, i vescovi, i preti e le suore rapiti. Dall’inizio della guerra civile, circa un terzo dei 600 mila cristiani siriani sono stati costretti alla fuga; nelle terre amministrate dal Califfato, nelle province di Raqqa e Hasaka, la vita quotidiana delle minoranze non islamiche, non sunnite, non sottomesse, non affiliate, è una grottesca via Crucis.
Il giorno dopo l’attacco, il 28 gennaio 2014, il signor Nasrallah convoca un’assemblea generale. Non è una riunione come le altre: è una chiamata alle armi. I rappresentanti delle famiglie e delle tribù – in paese vivono 10 mila cristiani – decidono all’unanimità.
Venderanno cara la pelle. Creeranno una forza di difesa. Daranno un padre o un figlio o dei fondi alla causa.
Tutto questo, il signor Nasrallah me lo racconta nel salotto della sua ariosa casa. L’uomo è un imprenditore molto occupato, pare; vende marmi, che importa anche dall’Italia. Non ha molto tempo; ha un appuntamento importante, e segreto, oltre i monti: in Siria. Uno sguardo alle pareti rivela le sue simpatie, le sue alleanze: ci sono immagini di Mahmud Ahmadinejad, l’ex presidente dell’Iran, e di Hassan Nasrallah, il leader dell’Hezbollah, la milizia sciita libanese, che controlla gran parte della valle della Beqaa. C’è pure un curioso porta caramelle con sopra la foto di Vladimir Putin in versione Rambo a torso nudo col cavallo. L’Iran, l’Hezbollah e Putin sono la ragione per cui Bashar al Assad è ancora al potere a Damasco; senza di loro sarebbe già stato appeso a un palo dai ribelli all’ingresso della Moschea Omayyade.
Il signor Nasrallah (nessuna parentela con il leader dell’Hezbollah) è un duro, sotto la maglietta rosa indossa in vita una pistola ceca da 9 mm. Gli dico, d’istinto, che mi fa impressione, questa storia di cristiani con le armi, di guerriglieri con le croci incise sulle canne dei fucili. Nasrallah mi guarda come fossi un’aliena planata per sbaglio dal Pianeta Papalla. «Questa non è Siena», mi dice sarcastico. «Questa è la valle della Beqaa. Gesù ha detto porgi l’altra guancia ma non ha detto di diventare profughi, di abbandonare le proprie case, di rinunciare alla propria dignità. Dopo tutto, anche Gesù perse la pazienza quando scacciò quei ladroni dei mercanti dal tempio. I killer sono alle nostre porte. Si trovano a meno di 5 chilometri dal divano su cui siede lei».
Dalla finestra, in effetti, intravedo le brulle vette dei monti Qalamun. Mentre parliamo, 60 uomini della Difesa locale sono di pattuglia; in mattinata prima del nostro arrivo c’è stata una schermaglia. A 18 chilometri a sud di Ras Baalbek, il comune di Arsal è da più di un anno sotto il controllo dell’Isis e di al Nusra (Al Qaeda); hanno in ostaggio una dozzina di soldati dell’esercito libanese. «Sui monti, ci sono libanesi e stranieri», dice il signor Nasrallah. «Il comandante è un saudita. Ci sono tanti ceceni». Un paio di mesi fa, hanno ammazzato 17 soldati libanesi e 9 combattenti Hezbollah. Ed è chiaro che, senza Hezbollah, da tempo non ci sarebbero più cristiani in paese.
Chiedo al signor Nasrallah di cosa abbia bisogno. «L’Occidente cristiano ci ha lasciati soli. Dove sono i vostri ambasciatori? Siete rimasti a guardare». Gli chiedo di essere più preciso. «Il Papa è il capo della Chiesa, dovrebbe sapere cosa fare. Io sono un suo fedele. Non bastano le preghiere. Che cosa sta aspettando? Di vedere le nostre teste posate sulle nostre schiene?». Gli faccio notare che Bergoglio non ha un esercito. «Neppure Gandhi l’aveva, eppure ha liberato l’India pacificamente. Gandhi era con la gente che aveva bisogno. Il Papa potrebbe farci sentire la sua presenza. La nostra solitudine è totale».
Nasrallah parte per la Siria; prima di andare ci affida a un paio dei suoi uomini in pattuglia. Il paesaggio è biblico e remoto; mi fa impressione pensare che in queste terre Gesù predicò duemila anni fa nella sua lingua, l’aramaico. A Ras Baalbek ci sono cinque chiese, di cui due bizantine, e un incantevole monastero dedicato alla madonna «Nostra Signora di Ras Baalbek», con angeli e fontane, dove vanno i malati e gli infelici a chiedere miracoli.
Sulla linea del fronte, i volontari indicano una costruzione in pietra su in collina, sul jabal: è la cappella medievale di Mar Koulia, ormai irraggiungibile, minacciata com’è dalle orde che incombono, tra le nuvole, in quota. Chiedo ad Aqel Nasrallah, un cattolico-partigiano di 45 anni, un uomo tondo, dal sorriso mite, cosa prova a fronteggiare un nemico che vuole morire. L’uomo ride.
«E qual è il problema? Crede che io sia qui per cantare? Se è la morte che vogliono, gliela diamo. Se vengono per uccidere, moriamo insieme».
Aqel è convinto che a sostenere i suoi nemici sia l’Occidente: «Altrimenti come farebbero ad avere tutti quei soldi? I cadaveri hanno le tasche piene di dollari e le scarpe nuove». Gli faccio notare che i signori su in collina hanno tagliato la testa ad alcuni miei colleghi. Scuote il capo: «Non li combattete. E così facendo, li sostenete. Basta vedere quello che è successo alle chiese in Siria».
Cerco riparo all’ombra di una croce; lo trovo tra le delicate icone bizantine della Chiesa Greco Cattolica di San Elian. Mi hanno detto, i combattenti, che i cinque sacerdoti del villaggio pregano per loro. «Ma certamente», conferma Ibrahim Nehmo, il parroco.
«Cosa altro possiamo fare? Dove possiamo andare? In Europa? Dove? La gente difende la propria terra». Padre Nehmo è originario di Aleppo, francofono come spesso il clero nel Levante. Padre Nehmo è apocalittico e gioviale, dice cose terribili con il sorriso sulle labbra. «Subiamo una guerra per procura: tra la Russia, l’Iran e la Siria da una parte e l’America, l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo dall’altra». «C’è chi pensa che sia una guerra di religione», dico. «Sciocchezze. È una guerra per il potere. Il problema in Europa è che non conoscete l’Islam. Lo conoscete attraverso libri come Le mille e una notte. Dall’inizio ho detto che la guerra in Siria avrebbe distrutto il Levante. Ma gli europei cominciano ora a capire che la guerra distruggerà anche Roma». Prego? «Non lasciamo le nostre case in Oriente perché ormai il pericolo è ovunque. Entro il 2025 avrete in Europa 55 milioni di musulmani. Tra questi basta che 5 mila siano dell’Isis e bye bye Europa. Verrete qui, profughi, a comprare la nostra terra. Sarete i benvenuti».
Lo guardo interdetta, non sapendo bene cosa dire. Mi viene in mente una enorme statua che ho visto davanti a un’altra chiesa. Era bianca e minacciosa; era la scultura di un santo che brandiva ieratico una sciabola. «Anche i santi qui fanno la guerra», era stato il commento di Rifaat Nasrallah.