Silvia Nucini, Vanity Fair 30/9/2015, 30 settembre 2015
ALESSANDRO BORGHI: «I SOGNI SI AVVERANO ANCHE SE NON VUOI»
Dal vivo e con la barba da hipster ha l’aria del generale prussiano pronto a lanciare una carica a cavallo. «È che con questi colori chiari sono un romano atipico, ma vero».
Ventinove anni, romano (fidiamoci) da immemori generazioni, cresciuto a viale Marconi, a metà tra Garbatella e Magliana, Alessandro Borghi ha usato questa sua romanità per portare al cinema due ruoli analoghi solo all’apparenza: Vittorio, il ragazzo di borgata di Non essere cattivo, il film postumo di Claudio Caligari, e Numero 8, un criminale sognatore in Suburra di Stefano Sollima. «Due storie che sono le più importanti della mia carriera, forse – chissà – lo saranno di tutta la mia vita», dice con la faccia incredula per come le cose hanno cominciato a girare per il verso buono. «Quest’anno è stato pazzesco: sognavo di andare a un festival, e Claudio Caligari (scomparso a maggio, ndr) mi ha fatto il regalo di farmici arrivare con il suo film, secondo me il più bello tra tutti quelli a Venezia, e di vincere il Nuovoimaie Talent Award come miglior attore».
Non essere cattivo rappresenterà l’Italia nella categoria «miglior film in lingua straniera» agli Academy Awards «ma non ci voglio proprio nemmeno pensare, già vedere il disegnino dell’Oscar accanto al nome del film mi fa sentire male. Anche se io gli altri film presi in considerazione li avevo visti tutti, e penso che il nostro sia stato la scelta giusta».
Come è finito sul set di questa storia intensissima, violenta, tossica, di amicizie vere e pericolose, di amori che salvano e altri che rovinano?
«Mi hanno chiamato per fare un provino con Valerio Mastandrea (produttore del film, ndr). Ho pensato: se le battute te le alza Mastandrea, sbagliare è praticamente impossibile. Poi ho conosciuto Luca Marinelli, che nel film interpreta Cesare, e tra noi è scattata un’alchimia davvero speciale, funzionavamo, in un certo senso Cesare e Vittorio erano già nascosti dentro di noi. Ho capito che la parte era mia quando Caligari ha detto a Mastandrea: “Fallo dimagrire”».
Vittorio è un bellissimo personaggio, un uomo che cammina in bilico tra il bene e il male, costantemente attratto da tutte e due le cose.
«Sì, è un personaggio che è stato meraviglioso interpretare. Gli sono grato e gli voglio bene perché mi ha permesso di raccontare tutti e due gli aspetti dell’animo umano. Durante le riprese io e Luca Marinelli abitavamo insieme, e questo ha fatto sì che Vittorio e Cesare fossero così uniti. Ci portavamo in casa un po’ di loro e portavamo sul set un po’ della nostra amicizia. Io e Luca in realtà non ci siamo mai drogati. Ma a parte questo, Vittorio è entrato dentro di me fino a farmi dimenticare di essere Alessandro. Quando abbiamo battuto l’ultimo ciak, sapendo che Luca sarebbe ripartito per Berlino, dove vive, e che avremmo dovuto toglierci quei vestiti anni Novanta, mi sono chiesto: e adesso cosa faccio?».
E cosa ha fatto?
«Niente, ho tenuto caro il grandissimo messaggio di speranza che secondo me il film regala. Ma è un’interpretazione soggettiva, perché non sappiamo che ne sarà di Vittorio. Pasolini diceva che il lavoro nobilita, questo film si interroga. È davvero così? C’è chi preferisce vivere senza regole, seguendo gli istinti, piuttosto che omologarsi a un modello in cui però non riesce a trovare un posto, una felicità».
Quindi c’è voluto tempo per uscire da quei panni?
«Molto. Ho capito che cosa intendono gli attori americani quando dicono che i personaggi rimangono addosso. In fondo recitare è giocare con l’anima, può anche essere un gioco pericoloso».
Lei come ha cominciato questo gioco?
«A 16 anni ho cominciato a fare il modello, ma devo essere onesto: non faceva per me. Non mi piace un lavoro dove il massimo della capacità che ti è richiesta è di essere bello, non è una cosa su cui c’è molto da lavorare, diciamo. Poi ho cominciato a fare lo stuntman, perché un amico era nel giro e i soldi mi facevano comodo. Poi un giorno, avevo 18 anni, un tizio mi ferma mentre esco dalla palestra e mi dice: vieni a fare un provino, per Distretto di polizia abbiamo bisogno di una faccia come la tua. Io gli ho dato il numero ma non sono andato all’appuntamento. Il giorno stabilito mi chiama la produzione: ti stiamo aspettando, vieni. E così è cominciata, una cosa ha tirato l’altra e io mi sono addormentato e mi sono risvegliato a Venezia».
Quindi lei è la dimostrazione che la recitazione non è una chiamata.
«Non è una chiamata, ma non si può imparare. È richiesta una condizione di base che o ce l’hai o non puoi inventarla: essere disposti a entrare in relazione con i propri sentimenti. Come chi fa il chirurgo non deve avere paura del sangue, chi fa l’attore non può temere le dinamiche della vita. Recitare l’empatia è la morte della recitazione».
Questo successo abbastanza improvviso la spaventa?
«No, io ci ho sempre creduto e non ho mai mollato. E sono andato avanti con determinazione, anche quando le parti che facevo erano troppo veloci o troppo superficiali per poter davvero tirare fuori le mie capacità. Il problema della televisione è questo: che si fanno storie ancora piene di cliché, io penso che ci vorrebbe un pochino più di coraggio. Credo che il pubblico televisivo, di fronte a serie più coraggiose e originali, non scenderebbe in piazza con i forconi, perché la gente si abitua a quello che tu dai. Però adesso sento che qualcosa sta cambiando: vedo talenti nuovi, giovani, anche nella scrittura che è un po’ il nostro problema».
Fuori dalle parti che tipo è?
«Normale: ho una mamma cuoca, un papà impiegato, un fratello che è la fotocopia di me a 22 anni e che adoro, una fidanzata che fa la ballerina e con la quale ancora non abito perché ha troppi costumi di scena: se entrano loro, esco io. Ma ci stiamo attrezzando, la porterò a stare nella mia casa della Garbatella, era di mio nonno e io ci sono legatissimo. In quale altro posto le signore si mettono in strada con sedie e tavolino a giocare a tressette?».
Da Venezia ha postato su Facebook la frase: i sogni si avverano.
«Insomma, Johnny Depp ha fatto il red carpet, lo stesso red carpet, dopo di me. Se possiamo fare questa cosa insieme vuol dire che ne possiamo fare anche altre, no? Io ci credo che i sogni si avverano, se lo vuoi».