Edward Paginton, Amica 29/9/2015, 29 settembre 2015
A CASA DI GILBERT
& GEORGE–
Appena dentro, mi affiancano e poi in processione, con George davanti e Gilbert dietro, andiamo verso l’ampia stanza sul retro della casa che, sin dagli esordi, è il loro studio. Attaccato a binari, che corrono al centro dello spazio, c’è il proiettore usato in passato per ingrandire immagini sulla parete di fronte. Giganteschi lavabi vuoti – un tempo impiegati per sviluppare le fotografie di grande formato e i pannelli che compongono le sculture a griglia – giacciono inutilizzati da quando, 15 anni fa, gli artisti sono passati al digitale. Gli ultimi a essere abbandonati, cinque anni fa, sono stati i grandi scanner a tamburo che usavano per convertire i negativi: tutte queste apparecchiature obsolete trovano ancora posto nel loro atelier, anche se, come afferma George, hanno solo un valore «sentimentale». Ovunque, manufatti preziosi popolano le stanze e gli scaffali della residenza di Gilbert & George a Fournier Street, nell’East End di Londra. Chiaramente, lavorare in digitale ha avuto il beneficio di liberare la loro pratica artistica. Non hanno più bisogno di sostanze chimiche, anche se George confessa: «Ci mancano tanto i guanti di lattice». L’atelier lo acquistarono insieme alla casa di Spitalfields nel 1968. E avendo la necessità di ampliarsi, rilevarono del terreno dalla proprietà accanto dove c’era una casa talmente abbandonata che gliela regalarono. Un risultato «straordinario», dice George, sottolineando il suono di una parola che usa di continuo, per riferirsi a osservazioni divertenti, sconcertanti e banali. Lui e Gilbert hanno in comune la stessa curiosità universale, punteggiata da una caricatura iperbolica del gentleman britannico.
Il numero 8 di Fournier Street è stato totalmente ristrutturato, ripristinando i decori del Settecento. Hanno restaurato addirittura la cucina, anche se Gilbert confessa che in casa «non si è mai cucinato niente – nemmeno un uovo à la coque». L’unico utensile in funzione è «il bollitore, per il caffè solubile». «Ci ha messo 300 anni per andare in malora», dice George. «Noi l’abbiamo preparato ad affrontare i prossimi 300, capisce? Abbiamo usato la stessa vernice originale, lo stesso intonaco, è tutto com’era». «Tutto, a parte i mobili», aggiunge Gilbert. I mobili dell’Ottocento, i vasi e i libri sono incorniciati da uno sfondo immacolato. «Deve essere immacolato», è la
giustificazione logica fornita da George, «per potere realizzare tutti quei quadri sgradevoli». Il tavolo della cucina, realizzato da Augustus Pugin, uno dei padri del Neogotico inglese, in precedenza era appartenuto a un monastero e, quando un amico antiquario del duo disse che per acquistarlo avrebbero dovuto pranzare con i monaci, gli artisti erano preoccupati che la loro visione secolare del mondo risultasse incompatibile: «Abbiamo detto: Aspetta un attimo, noi non sappiamo che genere di conversazione tenere con un monaco», spiega George. «Non dovete preoccuparvi, replicò il nostro amico, è un ordine in cui si fa voto di silenzio». Due tavoli gemelli in ghisa di George Bullock, che creò i mobili per Napoleone in esilio, sono disposti simmetricamente sotto due finestre che si affacciano sulla strada. Gilbert & George hanno persino un attaccapanni a stelo identico a quello di Napoleone. La loro predilezione per i grandi designer del XIX secolo è evidente. Sono presenti vasi di Christopher Dresser, Philip Webb, l’architetto che progettò la Red House, ed Edwin Godwin, ingaggiato da Oscar Wilde per arredare la sua abitazione. Nella collezione hanno un posto di primo piano oggetti e pezzi di design relegati nelle sale dimenticate del passato, da libri di biblioteche chiuse a raccolte di monete senza alcun valore economico. «Nella nostra arte come nella nostra vita, penso, siamo particolarmente interessati a ciò che viene scartato, nascosto o screditato». Nel 1969 Gilbert & George furono esclusi da una mostra collettiva intitolata When Attitude Becomes Form. Invece di comportarsi da spettatori passivi, si presentarono al vernissage senza invito con i volti multicolori metallizzati, come delle sculture viventi.
L’esclusione ogni volta li ha ispirati. «Siamo sempre stati coscienti di andare controcorrente. Eravamo fuori dagli schemi, ma volevamo vincere con la nostra visione del mondo, con il nostro modo di fare arte», racconta Gilbert, con un accento che risente ancora degli anni di formazione sulle Dolomiti italiane. Le imposte della stanza al secondo piano in genere sono chiuse, per evitare che la luce danneggi i vasi, i mobili e la vernice restaurata, come se la camera stessa fosse una fotografia che sbiadisce. «Non lecchi la vernice», dice George. La vernice al piombo, la stessa formula usata per decorare le pareti originali, ha mantenuto un vago odore di morte. Hanno sempre amato l’East End. «Pensiamo ancora che sia un luogo più genuino, a paragone degli altri posti che abbiamo visitato», dice George. «La maggior parte dei luoghi in cui abbiamo abitato sono della metà Anni 50 o inizio 2000. È così vero qui. Da Liverpool Street nella City, a Bethnal Green a Whitechapel è concentrata l’intera gamma dell’esistenza». Nel raggio di una ventina di metri, fa notare George, trovi sesso, denaro, religione, speranza, paura. «La forza vitale è la stessa». Per loro, a rendere Londra moderna è la fusione tra storia e presente, «i fantasmi del tempo», come li chiama Gilbert. Gli oggetti scartati che raccolgono per strada – adesivi fatti in casa, cartelli di protesta, propaganda religiosa, l’occorrente per drogarsi – ricevono nuova vita nelle immagini di Gilbert & George. «Si tratta sempre della contrapposizione natura/città», dice George. «È una cosa che adoriamo. Proprio questa mattina, in fondo alla strada, abbiamo visto dei fiammiferi e un’incredibile chiazza rossa. Straordinario! Esplosioni magnifiche». Il recupero degli oggetti ha a che fare anche con le convenzioni di classe. In una stanza c’è una sedia di Pugin che viene dal palazzo di Westminster. L’hanno fatta dorare di nuovo e si sono procurati del velluto di seta risalente allo stesso periodo. Gli schizzi del progetto, esposti al Victoria and Albert Museum, mostrano uno stemma al centro. «Ma non volevamo riprodurre quello, così ci siamo inventati un nostro blasone personale», racconta George. «Riconosce la graziosa creatura al centro?»: in mezzo alle due G delle loro iniziali si trova una grande piattola ricamata, la stessa che appare nei loro London E1 Pictures. Tornati nello studio, vicino ai grandi schedari grigi in cui è archiviata tutta la loro opera, stanno lavorando alle espressioni dell’umanità. Disposte accanto a una cartina di Londra, ci sono una serie di frasi scarabocchiate. Tra le migliaia di righe, c’è la parola “fuck” in tutte le lingue.
(traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)