Paolo Conti, Corriere della Sera - La Lettura 27/9/2015, 27 settembre 2015
SUL BORDO DEL MONDO
L’Isola Che Non C’è, patria ideale dei bambini di tante generazioni grazie a James Matthew Barrie che nel 1902 la inventò per il suo Peter Pan, si trova solo nei Mari della Fantasia. Invece l’Isola Inaccessibile (si chiama davvero così) esiste, sta nel cuore dell’Oceano Atlantico. E fa parte delll’Arcipelago di Tristan da Cunha, il più remoto e sperduto luogo abitato del mondo: 2.431 chilometri da Città del Capo, 3.415 chilometri da Montevideo. Dipende dal Territorio britannico d’Oltremare di Sant’Elena, distante 2.172 chilometri, altra isola lontanissima e per questo scelta dagli inglesi per il definitivo esilio di Napoleone. L’Inaccessibile è da sempre disabitata, e gli ultimi studi assicurano che non c’è traccia di mammiferi. Solo stuoli di splendide specie di uccelli (anche questi degni di una fiaba: berta minore fosca, l’uccello delle tempeste facciabianca, l’uccello delle tempeste ventrebianco) e poi elefanti marini, otarie.
L’uomo abita invece a Tristan da Cuhna, ai piedi del vulcano Queen Mary’s Peak. La capitale porta il roboante nome (riecco Peter Pan) di Edimburgo dei Sette Mari, ma è un piccolo agglomerato di casette. La sua comunità giorni fa ha diramato un avviso per cercare un insegnante per i suoi 23 studenti, gli under 18 di una tribù di appena 268 individui umani. I tristanesi sono autoironici: «Il viaggio sarà epico, ma sarete accolti da una comunità amichevole. Richieste eccellenti capacità relazionali e apertura all’avventura, che vi aiuteranno a integrarvi e adattarvi a vivere in un luogo così remoto».
Un precedente illustre dovrebbe scoraggiare chiunque. Il reverendo Edwin H. Dogson, fratello più giovane di Lewis Carroll, prestò servizio come missionario anglicano per quattro anni dopo il 1880. Nelle sue memorie lasciò traccia di un’autentica disperazione: «Non c’è la minima ragione per cui le persone continuino a viverci. Pregavo ogni giorno Dio affinché ci portassero tutti via da qui». Invece i tristanesi nonostante tutto (l’impossibilità di costruire un aeroporto e persino un porto, le navi ancorano in rada e raggiungono terra con piccoli battelli, le imbarcazioni da pesca impiegano sette giorni dal Sudafrica per raggiungerla, funziona un solo collegamento annuale di una nave merci e passeggeri con Sant’Elena, la RMS Saint Helena) amano la loro isola, intendono restarci, provano un grande senso di appartenenza e definiscono outside world, il mondo di fuori, il resto della civiltà. Una storia di ancestrale attaccamento a una micropatria, di resistenza fisica e psicologica collettiva, di appartenenza a un Pianeta Altro. Lo scrittore francese Hervé Bazin, che dedicò a Tristan da Cunha il suo libro I beati della Desolazione, definì l’isola «un racconto filosofico che ha il vantaggio d’essere vero».
La storia di Tristan da Cunha risale al 1506, quando il portoghese Tristao da Cunha la avvistò per la prima volta, dandole il proprio nome, accettato poi dagli inglesi. Ci furono molti e avventurosi tentativi di abitare l’isola, incluso quello del pirata Jonathan Lambert nel 1812 che venne ucciso dal marinaio livornese Tommaso Corri, sbarcato con lui e poi sommariamente processato dalle autorità inglesi nell’assoluta mancanza di testimoni.
Ma la storia dell’attuale Tristan da Cunha, delle sue abitudini e delle sue regole uniche al mondo, risale al 1817 quando l’inglese William Glass decise di restare sull’isola con sua moglie e altri due uomini: fu l’unico di una spedizione organizzata nel 1815 proprio per popolare l’isola. Due anni dopo se ne andarono quasi tutti. Glass rimase come governatore e stabilì le regole che tuttora governano la vita tristanese: spese e ricavi di ogni genere sono condivisi tra tutti i membri della comunità, nessuno può arricchirsi sulle spalle altrui, ogni disoccupato ha il diritto-dovere a un posto di lavoro, non esiste il concetto di proprietà della terra né è possibile impartire ordini agli altri. Il concetto del denaro (ovviamente la sterlina inglese) è stato introdotto durante la Seconda guerra mondiale, quando l’arcipelago fu usato come stazione della Royal Navy per controllare i movimenti delle navi tedesche nel Sud Atlantico. Ma ebbe poco sviluppo, il baratto resta tuttora la vera forma di un’economia basata sull’inscatolamento di pesce e soprattutto sull’esportazione di squisite aragoste famose tra i gourmet come le «Tristan rock lobster».
L’isola, per tutto l’Ottocento e il Novecento, non ha mai superato la quota dei 300 abitanti. Alcuni spettacolari naufragi contribuirono a popolarla. Prima la goletta americana «Emily», che affondò vicino all’isola nel 1836. Nel 1892 fu il turno del brigantino «Italia» che trasportava carbone dalla Scozia a Città del Capo, comandato da Rolando Perasso. Bruciò al largo per autocombustione, solo la perizia di Perasso permise di avvicinarsi a Tristan da Cunha e di mettere in salvo l’equipaggio. Lì rimasero, sposando donne del luogo, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto, di Camogli. E così, nella lontanissima Tristan da Cunha, esistono famiglie di radici liguri, i Lavarello e i Repetto, accanto ad altri due cognomi inglesi (Patterson e Swain, il fondatore), due americani (Hagan e Rogers, per via del naufragio di «Emily»), uno scozzese (Glass) e uno olandese (Green).
Ma la più concreta prova di appartenenza dei tristanesi alla loro terra risale alla grande eruzione del 1961: i 290 abitanti furono evacuati, prima a Città del Capo e poi in Gran Bretagna. Come racconta proprio Hervé Bazin nel libro I
beati della Desolazione uscito nel 1970 per Bompiani, dedicato alla vicenda, tutti i tristanesi si ammalarono di nostalgia per la loro isola: rifiutarono lo stile di vita della contemporaneità, erano spaventati dal traffico (sull’isola, ai tempi, funzionava un unico trattore) e dalla criminalità, dalla stessa televisione, oggetto inutilizzabile nel loro remoto Eden. Molti anziani morirono. Così scrive Bazin: «Presi dalla nostalgia del luogo natio, abbandonato in così drammatiche circostanze, e decisi, per una crescente insofferenza per le novità e la complessità dell’esistenza nell’Inghilterra del XX secolo, unita a insuperate difficoltà di acclimazione e inserimento nella più vasta comunità nazionale, a farvisi ricondurre a onta dei rischi connessi con la presenza del vulcano, gli esuli non tardarono a pretendere il rimpatrio».
Nel settembre 1962 Johnny Repetto guidò un manipolo di coraggiosi reduci per studiare la possibilità di rientro. Nel giro di pochi mesi tornarono quasi tutti a pescare aragoste, inscatolare pesce, preparare frittate con le uova degli uccelli marini, barattare latte e formaggio, occuparsi dei vecchi, scrutare l’orizzonte per scoprire l’arrivo dei pescherecci dal Sudafrica, a indicare luoghi senza nome e legati a lontani episodi come «là dove la capra è scappata». Ora funziona benissimo internet (per sapere tutto su Tristan da Cunha consultare www.tristandc.com, chiunque dovesse progettare un viaggio sappia che la domanda dev’essere sottoposta all’autorizzazione del Consiglio dell’Isola e i prezzi per l’affitto di un cottage sono abbastanza alti, in più c’è il lungo viaggio su peschereccio da Città del Capo). La tv si riceve dalla fine del Novecento, il minuscolo «Camogli Hospital» dispone di una sala operatoria e di un defibrillatore. L’essenziale è che tutto il resto rimanga lontano, nell’outside world, nel mondo esterno. Perché Tristan da Cunha è l’unico continente in cui sia possibile vivere felici.