Giuseppe Antonelli, Corriere della Sera - La Lettura 27/9/2015, 27 settembre 2015
IN BELLA O PESSIMA COPIA LA CANZONE SI FA COVER
Il disco e il libro
L’album De Gregori canta Dylan. Amore e furto uscirà il 30 ottobre. Ecco i brani: Un angioletto come te (Sweetheart like you), Servire qualcuno (Gotta serve somebody), Non dirle che non è così (If you see her, say hello), Via della Povertà (Desolation row), Come il giorno (I shall be released), Mondo politico (Political world), Non è buio ancora (Not dark yet), Acido seminterrato (Subterranean homesick blues), Una serie di sogni (Series of dreams), Tweedle Dum & Tweedle Dee (Tweedle Dee & Tweedle Dum), Dignità (Dignity). Sul tema delle traduzioni si veda Le parole che volevo ascoltare. De André traduce Cohen e Dylan di Andrea Podestà e Manuela D’Auria (Zona, pp. 126, e 14)
L’indovinello finale
La citazione che chiude l’articolo è tratta da Ai miei figli che dirò , cover di Knockin’ On Heaven’s Door
«Sei tu Peter? Tu che a Kensington vivi?». È il 1987, la trasmissione televisiva è Piccoli fans . Sandra Milo, squillante, la annuncia e Patty Pravo — circondata da bambini — comincia a cantare un testo che parla di fate e flauti «in un mondo di poesia». Ci si mette un po’ a realizzare che quella smielata I giardini di Kensington (titolo letterario che rimanda al Peter Pan in Kensington Gardens di Barrie) è la versione italiana di uno dei brani più duri e crudi di Lou Reed. Che quel ritornello si sta snodando sulle note del beffardo « she said hey babe, take a walk on the wild side ».
Ma non si tratta, in realtà, di un’eccezione. Le versioni italiane di canzoni straniere sono spesso riscritture che non tengono in gran conto il testo di partenza. Umberto Eco definisce la traduzione un dire quasi la stessa cosa : bene, qui si tratta di cantare quasi la stessa cosa. Solo che la cosa decisiva è la melodia: è la musica, il ritmo, il giro di voce della canzone originale a cui il nuovo testo si deve adattare. Tra il dire e il cantare c’è di mezzo (come direbbero Elio e le Storie Tese) un oceanico «e il». Tanto che non si parla in questi casi di traduzioni, ma di cover : cioè di nuove versioni del brano originale. La definizione viene dall’inglese cover version : letteralmente «versione di copertura», un po’ come per le operazioni in incognito degli agenti segreti. E in effetti, un po’ come negli X files , anche quelli tra testi italiani e testi stranieri sono sempre stati incontri ravvicinati di uno strano tipo. Incontri a metà tra Amore e furto , come recita il sottotitolo dell’album De Gregori canta Dylan , in uscita il 30 ottobre.
Doppiaggi
Il primo tipo somiglia al doppiaggio cinematografico, perché il testo italiano mira a rendere i suoni del testo originale mimando il labiale del cantato. Anche se, in questo caso, se ne infischia del senso. Per capire come funziona basta ascoltare Gli spari sopra di Vasco Rossi avendo davanti agli occhi il testo di Celebrate , degli irlandesi An emotional fish . L’italiano altri corrisponde a hardly , se siete ricalca she insists e questo posto era does best ; il verso che dà il titolo al brano — sorridete gli spari sopra sono per noi — fa il verso all’originale: celebrate this party’s over I’m going home . Ma, appunto, il testo parla di tutt’altro. (Qualche anno fa Vasco ci ha riprovato con Creep dei Radiohead, tradotta Ad ogni costo , anche a costo di usare una serie di na na na per rendere frasi diverse come in a beautiful world o she’s running out again : va bene la traduzione di suoni, ma tutto questo un senso davvero non ce l’ha).
A darci un’idea della diffusione di questo tipo — specie negli anni Sessanta, gli anni d’oro delle cover — è sufficiente qualche titolo. È l’uomo per me di Mina s’intitolava He walks like a man e Ciao ciao di Petula Clark era Downtown ; Lei m’ama partiva da Tell mama e Uno a te, uno a me da Les enfants du Pyrée . L’effetto non risparmiava neanche i Beatles e i Rolling Stones, se si pensa che Get back poteva diventare Chi è e Ruby Tuesday essere cantata come Rubacuori (Ruby Rubacuori: ricorda niente?). Nel decennio successivo, poi, il fenomeno si spinge fino alla Fili cantata da Ornella Vanoni o alla Sgualdrina di Renato Zero. I titoli originali erano, rispettivamente, Feelings e Dreamer .
Rifacimenti
Il secondo tipo è il rifacimento. Ligabue racconta di aver scritto la sua A che ora è la fine del mondo? usando solo lo spunto e la melodia di It’s the end of the world as we know it . «È una riflessione sugli effetti della televisione nel momento in cui Berlusconi vinceva le elezioni nel ’94. Il testo dei R.E.M. a quel punto era passato in secondo piano. Assolutamente inguardato». Qualcosa di simile vale per il Venditti di Alta marea (da Don’t dream it’s over) o, tempo prima, per Pregherò di Celentano (Stand by me) e per Che colpa abbiamo noi? (Cheryl’s going home) cantata dai Rokes su testo di Mogol. In quegli anni, la principale preoccupazione di chi scrive i testi è far cadere un accento alla fine di ogni verso. Come spiegava nel 1962 lo stesso Mogol, «spesso una frase musicale termina con l’accento sull’ultima nota, e il paroliere italiano è perciò costretto a impiegare un monosillabo, oppure una parola tronca. Né dell’uno né dell’altra, la lingua italiana è molto fornita, soprattutto rispetto alla ricchezza del vocabolario francese e inglese». Di qui l’esito contraddittorio di canzoni di protesta che sembrano uscite dalla penna del commesso farmacista di Gozzano: «Come potete giudicar/ come potete condannar/ chi vi credete che noi siam/ per i capelli che portiam», cantavano i Nomadi sulle note di The revolution kind .
Traduzioni
Gli incontri ravvicinati del terzo tipo sono quelli che si presentano come — più o meno libere — traduzioni. Tra gli esempi più recenti, la versione che Eugenio Finardi ha fatto della One of us di Joan Osborne (Uno di noi). «Mi resi conto — racconta Finardi — che traducendo alla lettera sarebbe venuta fuori una divinità un po’ alla Homer Simpson». Nondimeno, quel dio «solo e perso come noi/ anche lui con i suoi guai» ricorda abbastanza da vicino lo slob (l’indolente, il cialtrone) dell’originale.
Non sarà un caso che incontri ravvicinati di questo tipo avvengano soprattutto con testi scritti in altre lingue neolatine. Nel tradurre A banda del brasiliano Chico Buarque, ad esempio, Antonio Amurri sfrutta gli accenti del passato remoto, proprio come in portoghese: «E un uomo serio il suo cappello per aria lanciò/ fermò una donna che passava e poi la baciò/ dalle finestre quanta gente spuntò/ quando la banda passò». Maestro di questo tipo di traduzioni è stato Giorgio Calabrese, a cui dobbiamo — tra le altre — La pioggia di marzo (Agua de março) e Il disertore (Le déserteur) poi riprese da Ivano Fossati. La prima riesce a restituire con una certa autonomia le sensazioni di una primavera che è risveglio vitale. La seconda rende al meglio il tono ironicamente burocratico della struggente lettera di Boris Vian, a partire proprio dall’attacco: «In piena facoltà mio caro presidente,/ le scrivo la presente che spero leggerà».
Dylaniani e dylaniati
Entriamo così nella zona tutta particolare delle traduzioni d’autore. Come quelle di De André da Georges Brassens. Il gorilla , per dirne una: rispettosa del tono originale e fedele a quel trattenuto sarcasmo fino alla fine, quando il giudice grida mamma! come quel tale a cui «con una sentenza un po’ originale/ aveva fatto tagliare il collo». (Ancora più fedele risulta — per certi versi — la versione in milanese di Nanni Svampa, con el scimmiun che gh’ha voeuja de fa’ l’amur).
Ma De André si è cimentato più volte anche con Leonard Cohen — come qualche anno fa ha fatto De Gregori traducendo The future — e con lo stesso Bob Dylan. Celebre il ritornello italo-napoletano di Avventura a Durango , che emula l’anglo-spagnolo dell’originale: «Nun chiagne Maddalena/ Dio ci guarderà/ e presto arriveremo a Durango». Ma non è da meno la Via della povertà tratta da Desolation row , con Romeo che arriva da Cenerentola trafelato «e le grida “il mio amore sei tu”/ ma qualcuno gli dice di andar via/ e di non riprovarci più» (« You’re in the wrong place, my friend/ You better leave »).
Al di fuori di De André — e in attesa del disco di De Gregori — tra le cover italiane di Dylan si trova un po’ di tutto. Molte sono nate negli anni Sessanta dalla penna di Mogol: Come una pietra che rotola cantata da Gianni Pettenati, Mister Tamburino da Don Backy, La risposta è caduta nel vento da Luigi Tenco. Ma la versione che spicca su tutte non è di Mogol. È un testo scritto alla metà degli anni Settanta per la voce di Adriano Pappalardo: «Ai miei figli che dirò/ un’ombra è scesa su di me/ però in ginocchio non resterò/ no no no non ci resterò». Che canzone è?
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«Sei tu Peter? Tu che a Kensington vivi?». È il 1987, la trasmissione televisiva è Piccoli fans . Sandra Milo, squillante, la annuncia e Patty Pravo — circondata da bambini — comincia a cantare un testo che parla di fate e flauti «in un mondo di poesia». Ci si mette un po’ a realizzare che quella smielata I giardini di Kensington (titolo letterario che rimanda al Peter Pan in Kensington Gardens di Barrie) è la versione italiana di uno dei brani più duri e crudi di Lou Reed. Che quel ritornello si sta snodando sulle note del beffardo « she said hey babe, take a walk on the wild side ».
Ma non si tratta, in realtà, di un’eccezione. Le versioni italiane di canzoni straniere sono spesso riscritture che non tengono in gran conto il testo di partenza. Umberto Eco definisce la traduzione un dire quasi la stessa cosa : bene, qui si tratta di cantare quasi la stessa cosa. Solo che la cosa decisiva è la melodia: è la musica, il ritmo, il giro di voce della canzone originale a cui il nuovo testo si deve adattare. Tra il dire e il cantare c’è di mezzo (come direbbero Elio e le Storie Tese) un oceanico «e il». Tanto che non si parla in questi casi di traduzioni, ma di cover : cioè di nuove versioni del brano originale. La definizione viene dall’inglese cover version : letteralmente «versione di copertura», un po’ come per le operazioni in incognito degli agenti segreti. E in effetti, un po’ come negli X files , anche quelli tra testi italiani e testi stranieri sono sempre stati incontri ravvicinati di uno strano tipo. Incontri a metà tra Amore e furto , come recita il sottotitolo dell’album De Gregori canta Dylan , in uscita il 30 ottobre.
Doppiaggi
Il primo tipo somiglia al doppiaggio cinematografico, perché il testo italiano mira a rendere i suoni del testo originale mimando il labiale del cantato. Anche se, in questo caso, se ne infischia del senso. Per capire come funziona basta ascoltare Gli spari sopra di Vasco Rossi avendo davanti agli occhi il testo di Celebrate , degli irlandesi An emotional fish . L’italiano altri corrisponde a hardly , se siete ricalca she insists e questo posto era does best ; il verso che dà il titolo al brano — sorridete gli spari sopra sono per noi — fa il verso all’originale: celebrate this party’s over I’m going home . Ma, appunto, il testo parla di tutt’altro. (Qualche anno fa Vasco ci ha riprovato con Creep dei Radiohead, tradotta Ad ogni costo , anche a costo di usare una serie di na na na per rendere frasi diverse come in a beautiful world o she’s running out again : va bene la traduzione di suoni, ma tutto questo un senso davvero non ce l’ha).
A darci un’idea della diffusione di questo tipo — specie negli anni Sessanta, gli anni d’oro delle cover — è sufficiente qualche titolo. È l’uomo per me di Mina s’intitolava He walks like a man e Ciao ciao di Petula Clark era Downtown ; Lei m’ama partiva da Tell mama e Uno a te, uno a me da Les enfants du Pyrée . L’effetto non risparmiava neanche i Beatles e i Rolling Stones, se si pensa che Get back poteva diventare Chi è e Ruby Tuesday essere cantata come Rubacuori (Ruby Rubacuori: ricorda niente?). Nel decennio successivo, poi, il fenomeno si spinge fino alla Fili cantata da Ornella Vanoni o alla Sgualdrina di Renato Zero. I titoli originali erano, rispettivamente, Feelings e Dreamer .
Rifacimenti
Il secondo tipo è il rifacimento. Ligabue racconta di aver scritto la sua A che ora è la fine del mondo? usando solo lo spunto e la melodia di It’s the end of the world as we know it . «È una riflessione sugli effetti della televisione nel momento in cui Berlusconi vinceva le elezioni nel ’94. Il testo dei R.E.M. a quel punto era passato in secondo piano. Assolutamente inguardato». Qualcosa di simile vale per il Venditti di Alta marea (da Don’t dream it’s over) o, tempo prima, per Pregherò di Celentano (Stand by me) e per Che colpa abbiamo noi? (Cheryl’s going home) cantata dai Rokes su testo di Mogol. In quegli anni, la principale preoccupazione di chi scrive i testi è far cadere un accento alla fine di ogni verso. Come spiegava nel 1962 lo stesso Mogol, «spesso una frase musicale termina con l’accento sull’ultima nota, e il paroliere italiano è perciò costretto a impiegare un monosillabo, oppure una parola tronca. Né dell’uno né dell’altra, la lingua italiana è molto fornita, soprattutto rispetto alla ricchezza del vocabolario francese e inglese». Di qui l’esito contraddittorio di canzoni di protesta che sembrano uscite dalla penna del commesso farmacista di Gozzano: «Come potete giudicar/ come potete condannar/ chi vi credete che noi siam/ per i capelli che portiam», cantavano i Nomadi sulle note di The revolution kind .
Traduzioni
Gli incontri ravvicinati del terzo tipo sono quelli che si presentano come — più o meno libere — traduzioni. Tra gli esempi più recenti, la versione che Eugenio Finardi ha fatto della One of us di Joan Osborne (Uno di noi). «Mi resi conto — racconta Finardi — che traducendo alla lettera sarebbe venuta fuori una divinità un po’ alla Homer Simpson». Nondimeno, quel dio «solo e perso come noi/ anche lui con i suoi guai» ricorda abbastanza da vicino lo slob (l’indolente, il cialtrone) dell’originale.
Non sarà un caso che incontri ravvicinati di questo tipo avvengano soprattutto con testi scritti in altre lingue neolatine. Nel tradurre A banda del brasiliano Chico Buarque, ad esempio, Antonio Amurri sfrutta gli accenti del passato remoto, proprio come in portoghese: «E un uomo serio il suo cappello per aria lanciò/ fermò una donna che passava e poi la baciò/ dalle finestre quanta gente spuntò/ quando la banda passò». Maestro di questo tipo di traduzioni è stato Giorgio Calabrese, a cui dobbiamo — tra le altre — La pioggia di marzo (Agua de março) e Il disertore (Le déserteur) poi riprese da Ivano Fossati. La prima riesce a restituire con una certa autonomia le sensazioni di una primavera che è risveglio vitale. La seconda rende al meglio il tono ironicamente burocratico della struggente lettera di Boris Vian, a partire proprio dall’attacco: «In piena facoltà mio caro presidente,/ le scrivo la presente che spero leggerà».
Dylaniani e dylaniati
Entriamo così nella zona tutta particolare delle traduzioni d’autore. Come quelle di De André da Georges Brassens. Il gorilla , per dirne una: rispettosa del tono originale e fedele a quel trattenuto sarcasmo fino alla fine, quando il giudice grida mamma! come quel tale a cui «con una sentenza un po’ originale/ aveva fatto tagliare il collo». (Ancora più fedele risulta — per certi versi — la versione in milanese di Nanni Svampa, con el scimmiun che gh’ha voeuja de fa’ l’amur).
Ma De André si è cimentato più volte anche con Leonard Cohen — come qualche anno fa ha fatto De Gregori traducendo The future — e con lo stesso Bob Dylan. Celebre il ritornello italo-napoletano di Avventura a Durango , che emula l’anglo-spagnolo dell’originale: «Nun chiagne Maddalena/ Dio ci guarderà/ e presto arriveremo a Durango». Ma non è da meno la Via della povertà tratta da Desolation row , con Romeo che arriva da Cenerentola trafelato «e le grida “il mio amore sei tu”/ ma qualcuno gli dice di andar via/ e di non riprovarci più» (« You’re in the wrong place, my friend/ You better leave »).
Al di fuori di De André — e in attesa del disco di De Gregori — tra le cover italiane di Dylan si trova un po’ di tutto. Molte sono nate negli anni Sessanta dalla penna di Mogol: Come una pietra che rotola cantata da Gianni Pettenati, Mister Tamburino da Don Backy, La risposta è caduta nel vento da Luigi Tenco. Ma la versione che spicca su tutte non è di Mogol. È un testo scritto alla metà degli anni Settanta per la voce di Adriano Pappalardo: «Ai miei figli che dirò/ un’ombra è scesa su di me/ però in ginocchio non resterò/ no no no non ci resterò». Che canzone è?