Fabio Deotto, Corriere della Sera - La Lettura 27/9/2015, 27 settembre 2015
DOMANDE
& RISPOSTE –
Thomas ha rapito un astronauta, l’ha imbottito di cloroformio e l’ha legato a un pilone di cemento in una base militare abbandonata. Una volta che l’uomo si sarà svegliato e avrà smesso di imprecare, Thomas gli porrà una delle tante domande che da anni lo tormentano: perché non siamo sulla Luna? Comincia così I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?, il nuovo romanzo di Dave Eggers (uscito per Mondadori il 22 settembre), e così continua per altre 192 pagine. Il protagonista, Thomas, ha un’adolescenza difficile alle spalle e un avvenire ancora peggiore davanti a sé, ha bisogno di capire perché la sua vita — come quella di altri milioni di cittadini americani — stia scivolando giù per lo scarico; per farlo arriverà a rapire e interrogare una serie di persone, tra cui un politico, un vecchio insegnante accusato di pedofilia e la sua stessa madre.
È un libro potente, coraggioso, in cui Eggers dimostra di saper affrontare con insospettabile agilità tematiche complesse e controverse senza mai cedere alle sirene del facile (e vendibile) moralismo. Ma quello che distingue I vostri padri dal resto della produzione dell’autore di San Francisco è altro: in questo romanzo di fatto manca un narratore. Niente descrizioni, niente digressioni, nessun discorso indiretto libero, la narrazione è affidata a un solo elemento: i dialoghi. Si tratta, tecnicamente, di quello che i critici anglofoni definiscono dialogue-novel : un romanzo-dialogo.
Nel suo saggio The Form of Talk: A Study of the Dialogue Novel , il critico Matthew Badura descrive il romanzo-dialogo come «un esperimento romanzesco ancora in corso in cui la narrazione viene sostituita dal dialogo». Volendo cercare un modello di partenza per questo esperimento bisogna risalire al IV secolo a. C. e in particolare ai dialoghi socratici di Platone. Nelle opere del filosofo greco, tuttavia, gli elementi narrativi sono ridotti all’essenziale: i personaggi e le ambientazioni hanno l’unico scopo di fornire al lettore coordinate riconoscibili, disancorando così il ragionamento dalla pura dimensione teorica.
È un tipo di approccio che rimane costante lungo tutto il Medioevo e per buona parte dell’Età Moderna. L’impostazione dialogica viene utilizzata quasi esclusivamente per confezionare dissertazioni teoriche o, in alternativa, opere teatrali destinate alla sola lettura (i cosiddetti closet drama ). Non stupisce allora che i primi esempi di romanzi-dialogo non siano altro che opere filosofiche in veste narrativa. Persino Jacques il fatalista e il suo padrone di Denis Diderot, uscito postumo nel 1796, nonostante la presenza di numerosi rimandi letterari, ha come obiettivo un’indagine intellettuale attorno al concetto di libertà e, tangenzialmente, una dissacrante demistificazione della stessa tradizione romanzesca.
A partire dal Novecento diversi autori cominciano a sperimentare servendosi del dialogo come oggetto narrativo a sé stante, e uno dei primi a ottenere un risultato eccellente è Virginia Woolf. Nel 1928, la scrittrice inglese si è già guadagnata un posto di tutto rispetto nell’olimpo della letteratura, ma a lei questo non importa più di tanto. Il suo obiettivo, ora, è allontanarsi il più possibile dal tipo di scrittura con cui tutti la identificano, liberarsi di ogni fardello esteriore per concentrarsi sulla pura percezione soggettiva; per dirla con Nadia Fusini: vuole «l’impersonalità della poesia, (...) l’astratta potenza di una lingua che racconti di tutti e di ciascuno, e canti ciò che è comune e non personale». Questo processo di ricerca dura tre anni e darà come risultato Le onde , un romanzo dichiaratamente sperimentale, in cui l’autrice delega ogni elemento della narrazione ai singoli personaggi, che si passano il testimone per cucire descrizioni, digressioni e riflessioni in una sorta di lungo monologo alternato. A differenza del dialogo vero e proprio, che di fatto è un confronto disarmonico, qui gli scambi assecondano un ritmo inesorabile, riproducendo l’andamento altalenante di un accavallarsi di onde. Questo perché, tecnicamente, nonostante le virgolette e i «disse», quelli de Le onde non sono precisamente dialoghi, quanto piuttosto soliloqui.
Ma se nel romanzo di Woolf il narratore è ancora presente (seppur sotto forma di brevi intermezzi), altri autori decidono di liberarsi completamente della voce narrante. In un’intervista concessa alla Bbc nel 1950, lo scrittore americano Henry Green afferma come il dialogo sia il mezzo migliore che un autore ha per comunicare con il proprio lettore. Secondo Green, quando i personaggi parlano non ci deve essere altro se non la loro voce, nessun avverbio, nessuna spiegazione: lo scrittore, in sostanza, deve scomparire. «Non possiamo certo sapere cosa gli altri stiano pensando o provando», dice Green. «Come può dunque l’autore esserne tanto sicuro?».
La coda , romanzo d’esordio del russo Vladimir Sorokin pubblicato in Francia nel 1985, è sostanzialmente la storia di una folla che si mette in fila fuori da un negozio per ricevere beni di prima necessità. Nella Russia degli anni Ottanta le code erano una costante: la scarsità delle merci costringeva le persone a incolonnarsi davanti agli empori senza necessariamente sapere che cosa vendessero. Sorokin decide di restituire questa condizione alienante componendo un romanzo di soli dialoghi, in cui le voci della folla si alternano senza soluzione di continuità. Se la scelta di Virginia Woolf era dettata dall’esigenza di «saturare ogni atomo», Sorokin è mosso da una chiara intenzione satirica, oltre che dalla pura volontà di sperimentare. Stiamo parlando di un romanzo in cui, su 252 pagine, ne vengono dedicate trenta a un estenuante appello per contare le persone ancora in coda e altre diciassette ai gorgheggi sconnessi di un amplesso.
Al netto delle diverse scelte stilistiche e tematiche, c’è una cosa che accomuna la maggior parte degli scrittori che si sono cimentati nel romanzo-dialogo: la volontà di concedere al lettore una maggiore responsabilità nella fruizione dell’opera. L’autore si fa da parte, rinuncia a imporre il proprio punto di vista, affida le coordinate essenziali della narrazione alle sole voci dei personaggi e, così facendo, investe il lettore di un ruolo più attivo, lasciando a lui il compito di riempire gli spazi. Naturalmente esistono delle eccezioni. In Inganno , Philip Roth racconta la vita di una coppia di adulteri alternando le loro conversazioni pre e post-coito. L’autore americano gioca consapevolmente a disorientare il lettore, fornisce pochi appigli per comprendere cosa stia realmente succedendo, invece che includerlo nella narrazione lo allontana, mettendolo nella posizione di un voyeur che origlia una conversazione tra amanti dall’altra parte di una porta chiusa. Il processo di mimesi autoriale su cui Virginia Woolf tanto aveva lavorato qui viene intenzionalmente trascurato: Inganno è costituito di soli dialoghi eppure si percepisce la presenza di Roth in ogni frase, tanto da risultare a tutti gli effetti una delle opere più autobiografiche dello scrittore di Newark.
Ma torniamo a Eggers. Ne I vostri padri l’abilità mimetica dell’autore è lampante: i dialoghi sono l’ossatura di una struttura narrativa da cui è stato espunto tutto ciò che non appartiene alla voce dei personaggi, e il lavoro di differenziazione delle voci è così efficace che l’autore riesce ad allontanarsi dalla pagina scritta senza quasi lasciare tracce. Si tratta di un gioco di prestigio, naturalmente, ma poiché questo gioco è al servizio di un progetto narrativo e non di un divertissement filosofico o di uno sperimentalismo fine a se stesso, il trucco funziona. Il lettore non è più il destinatario di una storia, bensì un osservatore interno: si trova anche lui insieme al protagonista in quella base militare abbandonata, testimone di una serie di interrogatori che presto riveleranno una trama ben precisa, costretto a farsi un’opinione sulle tematiche affrontate senza che un narratore intervenga a imboccarlo.
Come molti altri romanzi-dialogo, I vostri padri rivela la volontà dell’autore di scomparire, un cupio dissolvi che è dettato in parte dalla necessità di stimolare il lettore a prendere parte a un’indagine morale, in parte dal timore di rimanere prigioniero dei propri stessi stilemi. In una recensione sul «New York Times» Michiko Kakutani ha definito l’impostazione dialogica di questo romanzo «una camicia di forza che impedisce al signor Eggers di esercitare i propri virtuosi poteri descrittivi». Kakutani potrebbe anche avere ragione, se solo la scelta di Eggers non fosse frutto di una strategia consapevole.
Scrivendo sul suo diario, il 16 novembre 1931, Virginia Woolf parlava de Le onde come «il primo lavoro nel mio proprio stile». Rinunciando a vestire i panni del narratore, Woolf aveva trovato una voce più autentica e libera. Con questo nuovo romanzo, Eggers sembra muoversi nella stessa direzione.