Alessandro Piperno, Corriere della Sera - La Lettura 27/9/2015, 27 settembre 2015
L’ASTUTO PUDORE DEL CAPOLAVORO
Recita un vecchio adagio: chi parla sempre di sesso ne fa poco, e viceversa, immagino. Se ciò è vero allora i sommi romanzieri del Diciannovesimo Secolo dovevano essere amatori gagliardi. Nelle loro opere il sesso agisce come un fantasma svolazzante: è ovunque ma non si vede. A giudicare dalla malvagità con cui Flaubert si beffava delle défaillance sessuali di Musset, possiamo ipotizzare che, sessualmente parlando, si ritenesse un mandrillo. Del resto, la lotta ingaggiata da Tolstoj contro i dissesti della promiscuità erotica rivela con quanto ardore l’avesse praticata. E tuttavia entrambi nei loro romanzi più celebri, incentrati su brucianti passioni sessuali, eludono ogni allusione esplicita. Una scelta dettata dal gusto dell’epoca certo, dal cosiddetto puritanesimo romantico, dalle norme della censura e del buongusto, ma forse anche da qualcos’altro.
In una discussione tra gentiluomini nella dimora di Clifford Chatterley (uno dei più famosi cornuti della storia letteraria, secondo solo a Charles Bovary e Karenin), un certo Mr Hammond dice: «Non ci sfiora minimamente l’idea di seguire qualcuno al gabinetto, quindi perché mai dovremmo volerlo seguire quando va a letto con una donna?». Pare proprio che Mr Hammond (siamo all’inizio del Novecento) provi nostalgia per l’insana ipocrisia vittoriana. Certe cose si fanno ma è meglio non parlarne.
Più o meno negli stessi anni Forster rivelava come i romanzieri siano soliti risparmiare ai propri personaggi la mortificazione delle cosiddette necessità fisiologiche. Essi in effetti mangiano di rado, dormono poco, fanno sesso di nascosto e non vanno mai in bagno. Solo il romanzo modernista troverà il coraggio di violare i tabù della scatologia: la famosa defecazione di Leopold Bloom! Con il sesso avviene qualcosa di analogo: D. H. Lawrence rappresenta un liberatore dei costumi sessuali in letteratura. Gliene siamo grati naturalmente, ma un po’ gliene vogliamo. Liberi dalla censura, gli scrittori si sono sentiti autorizzati a molestarci con dettagli intimi ridicoli, pacchiani e involontariamente comici. Che non abbia ragione Mr Hammond allora? Parlare di sesso è noioso quasi quanto intrattenere un amico sulle fasi più truculente e drammatiche della digestione. Per questo uno scrittore prima di sbatterci in faccia le porcherie di un personaggio deve pensarci su almeno una dozzina di volte.
Il sesso in letteratura
Spesso si ritiene che scrivere romanzi significhi concepire ambiziose architetture narrative. Non è così. Il romanzo pone piccoli problemi quotidiani. Questioni di mero artigianato. Smontare e rimontare un periodo, e dopo che lo hai fatto smontarlo ancora e ancora. E tutto per ottenere il massimo effetto mimetico con il minor dispendio espressivo. Il sesso, per i motivi già illustrati, mette il romanziere serio di fronte a un coefficiente di difficoltà altissimo. Volendo semplificare sono tre le strade più battute per uscire dall’impasse, non tutte auspicabili:
1) La prima, assai cara ai narratori dell’Ottocento, è quella della discrezione o dell’ omertà . Un allusivo gioco di omissioni. Come nelle tragedie classiche in cui i fatti di sangue avvengono sempre fuori dalla scena, così il sesso dei romanzi realisti è sapientemente nascosto tra le righe. Si pensi alla famosa chiusa manzoniana: «La sventurata rispose». Per non dire del primo rapporto sessuale tra Emma Bovary e Rodolphe. Flaubert aveva una concezione rupestre della sessualità. Per questo il primo adulterio di Emma si consuma in un bosco, in mezzo alle sterpaglie, mentre i cavalli brucano l’erba. Ogni dettaglio è un preludio: i vapori che si allungano all’orizzonte, la vista del lago pallido ed evanescente, lo scricchiolio delle selle. «Rodolphe camminandole dietro, contemplava quella stoffa nera e lo stivaletto, la delicatezza della sua calza bianca che gli sembrava qualcosa della sua nudità». Da qui in poi i protagonisti non sono più Emma e Rodolphe, ma i loro vestiti: «La stoffa del suo abito s’incollava al velluto della giacca di lui». Siamo in pieno feticismo flaubertiano! Quando Emma cede e si abbandona, Flaubert cala malvagiamente il sipario. Tocca al lettore-voyeur lasciare briglia sciolta alla fantasia. Nella riga successiva, quando l’atto ormai è stato consumato, Emma è immersa in uno strano deliquio. Ma che ne è del suo cinico seduttore? Eccolo lì, sigaro tra i denti, ad aggiustare con il temperino una briglia spezzata. Soffermarsi sulla forza evocativa di questa immagine sarebbe come spiegare una barzelletta, resta il fatto che essa esprime come meglio non potrebbe il triviale appagamento del maschio dopo il coito.
2) In un certo senso si può dire che questa scena abbia ispirato L’amante di Lady Chatterley . L’idea che il sesso sia una cosa troppo ferina per consumarsi sotto le coperte di una comoda stanza da letto è parecchio flaubertiana. Ma mentre Flaubert è animato dal sarcasmo del nichilista, Lawrence si lascia contagiare dall’ebbrezza panica di Connie e Mellors il guardiacaccia. Il che lo induce a entrare nel merito. Pochi sospiri, molto sudore. Lawrence traccia la seconda via, in un certo senso antitetica alla prima: l’ esplicitezza . Addio eufemismi, ellissi, allusioni. Chiamiamo le cose con il loro nome. Intendiamoci: il cammino è appena iniziato. La prosa di Lawrence è ancora gravida di similitudini e metafore. I giri di parole si sprecano. La voluttà prende troppo spesso il sopravvento sull’ironia. Alcune frasi gridano vendetta per quanto sono ridicole: «Oh, se ora non fosse stato tenero con lei, che crudeltà sarebbe stata, dacché era tutta aperta a lui e priva di difese». Ma quando c’è da essere espliciti, Lawrence non si tira indietro. Questa è la sua rivoluzione. Moravia, Miller, Bukowski, Roth, Ellis... tutti gli devono qualcosa.
3) La terza via, la più battuta, la più volgare, la più sbagliata, la più ridicola, è la specialità dei romanzetti erotici. Vorrei chiamarla genitale . Consiste nell’isolare scabrosi dettagli anatomici, attribuendo loro un’anima propria, corredandoli di aggettivi enfatici: «il membro pulsante», «la vulva ardente», «il seno serico e rigoglioso» e altre sconcezze analoghe. La verità è che i soli modi in cui un romanziere serio può trattare il sesso sono il primo e il secondo: omertà o esplicitezza, tutto quello che sta in mezzo è d’una volgarità imbarazzante.
Poi c’è Nabokov naturalmente, ma questa è un’altra storia.
Il caso Lolita
Si potrà più o meno entusiasticamente aderire al giudizio di George Steiner — secondo cui Lolita è la sola storia d’amore degna di nota del secolo scorso — ma nessuno potrà misconoscere gli sconvolgenti problemi tecnici sollevati da un romanzo incentrato sull’amore di un depravato di mezza età e una dodicenne. L’impresa vale quella del tizio di cui si sono perse le tracce che tentò di scalare l’Everest in triciclo. Nessuna delle tre vie illustrate poteva essergli utile. L’omertà rischiava di degenerare in pruderie, l’esplicitezza in pornografia. In quanto alla terza, be’, parliamo di Nabokov, non so se mi spiego. I suoi problemi non sono etici, ma artistici. Per questo geniale allievo di Flaubert arte e moralità coincidono. L’indicibile è ciò che non può essere espresso in modo elegante. E il punto è tutto qui: esiste un modo elegante per raccontare l’ossessione venerea di un pedofilo?
Per prima cosa Nabokov ha bisogno di una voce narrante all’altezza, un tizio abbastanza eccentrico e miserabile da non consentire al lettore la completa identificazione. E allora ecco Humbert Humbert, parigino dalla genealogia composita, figlio del proprietario di un hotel di lusso in Costa Azzurra. Malgrado il proverbiale disprezzo nabokoviano per Freud, Humbert viene scaltramente fornito di un paio di lutti infantili uno più grave dell’altro: la morte della madre e quella di Annabel, la ragazzina le cui grazie puerili Humbert inseguirà per tutta la vita in ogni ninfetta fino a vederle incarnate nella sua Lolita nel più improbabile dei giardini. Che lavoro fa Humbert? Che domanda! Ma il mestiere più pervertito del mondo: il docente di letteratura francese. Del resto, è essenziale che sia un intellettuale, un dotto, un pedante. Si sa, una solida cultura umanistica contribuisce all’incremento della morbosità sessuale. È fondamentale che Humbert pensi come pensa e parli come parla. Il suo eloquio lambiccato e ipocrita è il vero protagonista del libro. Nabokov crea una lingua nuova: un inglese ridondante, pieno di inflessioni francesi e di allusioni colte. Un’invenzione da laboratorio di un grande immaginifico.
Ecco il primo colpo di genio. Nabokov capisce che una storia tanto estrema merita una lingua apposita. Humbert, sin dall’inizio del libro, prova a blandirci, invoca il nostro perdono e la nostra comprensione, e lo fa con maniere così maldestre che nessuno di noi è disposto a credergli. Eppure pian piano il suo stile ci solleva da terra, conducendoci lontano, su un’isola incantata, abitata da ninfe e fauni, dove il bene e il male sono ormai indistinguibili.
Le trame del desiderio
I tre lunghi capitoli di preparazione al primo amplesso tra Humbert e Lolita sono tra i momenti più alti della narrativa moderna. Un virtuosismo impareggiabile che, come tutte le grandi scene letterarie, si dispiega lentamente. Il tutto si consuma durante la lunga sosta ai «Cacciatori incantati», un hotel isolato e pretenzioso, pronto ad accogliere improbabili convegni religiosi e commessi viaggiatori di ogni sorta. L’atmosfera è soffusa, per così dire, di un pathos hitchcockiano. Lolita ha perso la madre, è in balia del patrigno, ma non lo sa ancora. Humbert ha in tasca il sonnifero con cui stendere la figliastra. In attesa che il farmaco faccia effetto (si rivelerà inefficace: Humbert è un criminale inesperto e tremebondo), va a bere qualcosa, familiarizzando con un individuo poco raccomandabile e molto inquietante. Poi di nuovo in camera.
La marcia di avvicinamento al letto di Lolita è tutto fuorché trionfale: è estenuante (in un certo senso dura una notte intera, se non addirittura una vita); come in Flaubert i rumori fanno da contrappunto ironico: ubriachi che vomitano in corridoio, scrosci di gabinetto, rombanti camion che lasciano i parcheggi. Il lettore è pronto, lo è anche Lolita, solo Humbert continua a tergiversare. «Se indugio tanto» ci dice en passant «sui tremori e i brancolamenti di quella notte lontana è perché voglio strenuamente dimostrare che io non sono, né mai sono stato, un bruto e un farabutto». Le sue giustificazioni retrospettive non ci persuadono naturalmente, ma se non altro danno conto di bramosie incontenibili. Lolita non è più una bambina, ma per l’appunto l’essere agognato.
Più ci addentriamo nell’oscurità della stanza, più c’impantaniamo nelle smanie paludose di Humbert. Nabokov, conscio di non potersi permettere alcuna franchezza, lavora sul desiderio: lo differisce finché è possibile. L’odore della piccola dormiente è un tormento: «Una brezza del paese delle meraviglie aveva cominciato a influenzare i miei pensieri, e ora essi sembravano in corsivo come se la superficie che li rifletteva fosse increspata dal fantasma di quella brezza». L’irresolutezza di Humbert è l’ennesima strategia narrativa. Tutti giocano al gatto con il topo: Humbert con Lolita, Lolita con Humbert, ma soprattutto Nabokov con il lettore. Consapevole che nessuno gli perdonerà uno stupro, agisce d’astuzia. Con un ribaltamento prospettico (tipico di certi stupratori seriali) Humbert ci racconta (chissà se in buonafede) di come Lolita quella fatidica notte (in realtà tutto avviene al mattino) abusò di lui. È lei — a quanto pare ha fatto pratica in colonia estiva — ad approfittarsi del suo goffo carceriere. Mentre Humbert riceve il suo premio insperato, Nabokov assesta l’ultimo colpo da maestro: «Ma non tedierò i miei sapienti lettori con un dettagliato resoconto della presunzione di Lolita. Basti dire che in quella bellissima, acerba ragazzina totalmente e irrimediabilmente corrotta dalle moderne scuole miste, dai costumi giovanili, dal raggiro delle serate intorno al falò e via dicendo, io non riuscii a discernere la minima traccia di modestia. (...). Ma tutto questo non ha importanza; il tema del cosiddetto “sesso” non mi interessa affatto. Chiunque può immaginare quegli elementi di pura animalità. Mi alletta un’ambizione superiore: fissare una volta per tutte il periglioso sortilegio delle ninfette».
Ciò che ad alcuni potrà apparire l’astuta pudicizia di un depravato, non è che una smaliziata dichiarazione di poetica: il sesso non è interessante, conta solo il sortilegio, almeno in letteratura.