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 2015  settembre 28 Lunedì calendario

VW, DEUTSCHE BANK, LUFTHANSA IL MODELLO GERMANIA BATTE IN TESTA

Il sorriso è sempre incantevole, ma adesso incanta meno. “E’ una tedesca”, tuba dalla tv Claudia Schiffer, facendo capire che, in materia di auto e non solo, non c’è di meglio. Anche se la macchina dello spot è di un’altra marca, dopo lo scandalo Volkswagen, davanti alla tv si sentono solo sghignazzi. O no? “Quanti chilometri ha fatto? 80 mila? Non è che la vende?” mi chiede il tassista incontrato casualmente in garage: “E’ una Vokswagen, roba buona” aggiunge. Forse il tassista non legge i giornali, però è seduto da una vita dietro ad un volante.
Il mito evocato dalla più famosa modella tedesca, insomma, non soccomberà tanto facilmente. Ma la tempesta che ha coperto di vergogna il gigante di Wolfsburg e i suoi trucchi può servire a mettere in prospettiva presente e futuro della più grande economia europea. Perché, se si scopre che le sue macchine sono taroccate, alla Germania rimane ben poco: “le banche sono malaticce, la produttività non cresce, gli investimenti sono inadeguati” ha scritto Philippe Legrain su Prospect. “Al netto dell’inflazione – aggiunge – il tedesco medio l’anno
scorso ha guadagnato meno del 1999”. A guardar bene, il miracolo tedesco non luccica. Nessuno pare abbia mai detto “quel che giova alla Volkswagen giova alla Germania”, ma la Volkswagen è molto più di un’industria qualsiasi. Hitler volle la fabbrica sopra un pantano sabbioso perché è esattamente al centro geografico del paese. Il suo museo è tuttora una delle attrazioni turistiche più visitate di Germania. In una parola, è un simbolo. Del modello economico tedesco: una sofisticata industria manifatturiera capace di vendere nel mondo. Del suo modello sociale: una stretta cooperazione fra azienda, sindacato, potere politico (il 20 per cento delle azioni è nelle mani del governo regionale). Del suo modello culturale: la ricerca della perfezione tecnica e dell’efficienza organizzativa. Nello scandalo, il simbolo è rimasto fedele a se stesso: industria sofisticata e perfezione tecnica si sono coniugate nel mettere insieme una truffa, curata fino al minimo dettaglio. Dove altre case automobilistiche cadono nell’incuria di un freno o di una frizione montati male, la Volkswagen aveva taroccato le sue auto diesel con un congegno perfetto e uguale per tutti: un gioiellino manifatturiero. Ma, se il simbolo traballa, tutto il sistema è scosso. Viste da vicino, dalle crepe nell’armatura della virtù teutonica fanno capolino vizi e difetti che i tabloid tedeschi amano scaricare sull’anima latina. La truffa Vokswagen è stata attuata con precisione tedesca, ma sembra uscita da un film di Totò. E, sia pure su scala inconfrontabile con quella Volkswagen, si scopre che qualche sbavatura da questione morale c’è anche al di là del gigante di Wolfsburg. Nel 2013, il presidente della Thyssen-Krupp è stato condannato per corruzione. Sette anni prima, la Siemens aveva dovuto pagare un miliardo di euro di multa per una storia di mazzette. E ancora più italiana è la storia boccacesca dei sex parties organizzati dalla stessa Volkswagen per ammansire dei potenti sindacalisti. Anzi, sembra scaturita da Arcore l’idea di una grande assicurazione di premiare i propri agenti buttandogli fra le braccia un plotone di prostitute nello scenario strepitosamente orgiastico delle terme di Budapest. Queste ombre latine sull’immacolata Germania non si fermano a sesso e mazzette. Noi avremo l’eterna incompiuta dell’autostrada Salerno-Reggio, ma la capitale del più importante stato europeo non riesce ad avere un aeroporto nuovo, perché chi ha costruito il tetto dello scalo di Berlino non ha calcolato che avrebbe dovuto reggere il peso dei condizionatori. E, prima di ironizzare sull’endemico caos Alitalia, mettiamoci nei panni di centinaia di migliaia di viaggiatori, che la Lufthansa ha lasciato più volte a terra in questi mesi, per gli scioperi a ripetizione dei piloti, impegnati a difendere – indovinate un po’ – i privilegi della loro pensione. I guai di Deutschland Ag, ovvero Germania Spa, non si limitano, però, a qualche scivolone da cronache giornalistiche. Volkswagen faticherà non poco per uscire dal pasticcio in cui si è cacciata pur di allargare al massimo il volume di vendite, ma, in generale, dietro il formidabile aspetto della corazzata tedesca, c’è un motore che perde più di un colpo. Lufthansa, grazie anche agli scioperi, ha visto nel 2014 i profitti ridursi dell’80 per cento. La più grande banca tedesca, Deutsche Bank, si prepara a tagliare di un quarto i suoi organici, mandando a casa 25 mila dipendenti. Nella classifica delle 500 più grandi aziende globali, la Germania è presente solo 28 volte, meno di Francia e Gran Bretagna. E i loro bilanci non sono sempre brillanti. Da lontano, sembra che l’economia tedesca vada a gonfie vele, ma i colossi dell’energia sono stati massacrati dalla rinuncia al nucleare: i profitti E.On sono crollati del 250% e tutto il comparto soffre. Allianz, la più grossa assicurazione, li ha migliorati solo del 3 per cento. La Mercedes anche meno, l’1 per cento. Metro, la grande catena all’ingrosso li ha visti sgonfiarsi del 65%. . Non tutti i giganti tedeschi, dunque, scoppiano di salute. E il malessere scende in profondità. Dallo scoppio della Grande Crisi, la Germania è andata in controtendenza, rispetto al resto d’Europa e sembra un motore inarrestabile. Ma, dal 2000 ad oggi, l’economia è cresciuta, in media, non più dell’1,1 per cento l’anno, meno di Usa e Regno Unito. Il boom delle esportazioni nasconde il fatto che, dagli anni ’90, l’industria è diventata sempre meno efficiente. La produttività del lavoro è cresciuta dello 0,9 per cento l’anno, meno del Portogallo. Quella per ora lavorata è inferiore ai risultati di Francia e Olanda. Quella per occupato è sotto la media Ue. L’una e l’altra sono in costante rallentamento, rispetto agli altri paesi. Dietro c’è la paralisi degli investimenti. Nel 2013, quelli dell’industria sono scesi ancora una volta, dello 0.8 per cento sul 2012. Ormai stanno sotto il livello di quelli italiani. Erano più del 22 per cento del Pil nel 2000, sono crollati al 17 per cento nel 2013, sotto la media della zona euro. Gli imprenditori, non diversamente da quelli italiani, preferiscono investire all’estero. Non pare, però, siano molto bravi: fra il 2006 e il 2012 hanno perso, sul portafoglio estero, almeno 600 miliardi di euro. Non stupisce, se si sono fatti consigliare dalle loro banche. Alla faccia della meticolosa prudenza, le banche tedesche hanno via via scommesso sui subprime, finanziato le bolle immobiliari in Irlanda e in Spagna, un boom dei consumi in Portogallo, il debito pubblico clientelare di Atene. Si sono sempre salvate, perché il governo di Berlino ha regolarmente avuto la forza politica di imporre dei salvataggi a carico del contribuente, che hanno consentito il recupero dei crediti spericolati concessi. Merkel e Schaeuble si sono battuti con il massimo di intransigenza per sottrarre ai controlli della Bce tutto l’arcipelago delle quasi 500 casse di risparmio che, sul modello che fu italiano, sono il terreno di coltura dello scambio fra partiti, amministrazioni locali, aziende e banche. Il mondo del credito tedesco è lo specchio più vistoso di quello che la Germania è , al di fuori dall’industria: un sistema ossificato, prigioniero di regole e prassi consolidate, che avrebbe bisogno di dosi massicce di “lenzuolate” alla Bersani. Nella classifica della facilità con cui si può aprire un’azienda, l’Italia è al posto 46. La corporativa Germania alla casella 114. Ma anche l’industria ha problemi a breve scadenza. L’export è in boom perché la Germania è riuscita a sostituire i clienti sempre più poveri di Eurolandia con i cinesi. Ma, in generale, la quota della Germania sull’export mondiale è passata dal 9 per cento del 2007 all’8 per cento 2013. Ed è troppo concentrata: veicoli industriali, auto, apparecchiature elettroniche, chimica. Nel Big Tech la Germania è assente, le start up inesistenti. A forza di rincorrere il pareggio di bilancio, il governo tedesco ha tagliato i fondi alla scuola, al di sotto di Francia e Inghilterra: un terzo dei giovani tedeschi si laurea, contro il 45 per cento degli inglesi. Anche i famosi apprendisti, vanto della scuola tedesca, cominciano a scarseggiare. Le premesse per uno scatto di innovazione, un po’ come in Italia, non si vedono. Noi, almeno, la riforma delle pensioni l’abbiamo fatta, allontanando la scure di un crac del sistema. I tedeschi hanno fatto, invece, marcia indietro, abbassando (per chi ha abbastanza contributi) l’età pensionabile a 63 anni. Gli esperti dicono che è una bomba ad orologeria. La Germania è il paese più vecchio d’Europa, più vecchio anche dell’Italia.
Maurizio Ricci, Affari&Finanza – la Repubblica 28/9/2015