Marco Marzano, il Fatto Quotidiano 27/9/2015, 27 settembre 2015
IMPARARE LA SOTTOMISSIONE NELLE CASERME DEI SEMINARI
Nei seminari sono stato molte volte negli ultimi anni. Ho tenuto conferenze, fatto interviste, conosciuto tante persone. Una volta, qualche anno fa, proprio per capire meglio alcune caratteristiche del luogo, ho chiesto e ottenuto di potervi trascorrere una decina di giorni. Talvolta ho avuto l’impressione di entrare in una cattedrale del deserto, in un grande edificio semi spopolato, eredità di un glorioso passato già pronto per divenire un reperto di archeologia clericale. Altre volte ho avuto la sensazione di una maggiore residua vivacità. Le cifre sul reclutamento del clero sono spietate.
Il numero totale dei sacerdoti diocesani in Italia, con un’età media intorno ai sessant’anni, è passato dalle 41.833 unità del 1975 alle 31.580 del 2012 (fonte Osret). In quattro decenni, la Chiesa ha perso più di diecimila preti, circa un quarto del totale. Nell’ultimo ventennio, il numero complessivo dei sacerdoti diocesani (che include anche i numerosi presbiteri stranieri) è diminuito di circa 300 unità all’anno (per effetto del saldo tra decessi, abbandoni e nuovi ingressi). Il numero di preti in servizio potrebbe in realtà essere inferiore, perché vi sono taluni che, pur risultando formalmente presenti nei ranghi del clero, non esercitano più di fatto il ministero pastorale, risultando “sospesi dall’incarico” o “a riposo”. Questo significa che i circa 2800 candidati al sacerdozio per il clero diocesano del 2012 (che peraltro non diventeranno tutti preti) saranno comunque insufficienti per arginare l’emorragia di preti e per garantire la sopravvivenza dell’ancora fittissima rete territoriale di parrocchie (25.700 sempre nel 2012). I deficit di personale ecclesiastico non sono uniformi lungo la Penisola e sono maggiormente evidenti in alcune aree, ad esempio in un territorio di fortissima tradizione cattolica come il Veneto. Qui l’importazione di clero da altre aree del mondo diventerà necessaria, dato che nel 1970 c’erano 584 candidati al sacerdozio e nel 2012 il loro numero è sceso a soli 202. Quasi un terzo.
I seminaristi sono dunque relativamente pochi. La loro provenienza rispecchia la vitalità delle periferie cattoliche italiane. Un certo numero (decrescente) viene ancora dalle parrocchie e spesso da famiglie super cattoliche, altri (una quantità sempre più consistente) dai movimenti ecclesiali. Tra questi ultimi è più facile trovare dei convertiti, delle persone, non sempre giovani, convertitisi di recente al cattolicesimo e per questo talvolta sprovvisti della formazione di base, delle stesse nozioni elementari del catechismo.
In quale istituzione fanno ingresso gli aspiranti sacerdoti? I seminari sono strutture concepite quasi cinque secoli orsono durante il Concilio di Trento per migliorare e uniformare la qualità della formazione dei presbiteri cattolici. Sono istituzioni semi totali, simili, nel funzionamento di fondo, alle caserme o ai collegi maschili. Luoghi nei quali i ragazzi passano cinque intere giornate a settimana: studiando, pregando e socializzando tra loro e con i preti loro professori. Nel weekend vanno in parrocchia. Ma non nella loro parrocchia, bensì in quella alla quale vengono assegnati in servizio dai superiori dello stesso seminario.
La somiglianza con le caserme oi collegi maschili va al di là dell’organizzazione del tempo e riguarda il carattere della formazione. Come in caserma non solo si impara a maneggiare un fucile o a guidare un carro armato, ma si apprende una disciplina, uno spirito di corpo, una forma mentis molto peculiare e distinta da quella prevalente nel resto della società, così in seminario non si apprende solo la teologia e l’indispensabile bagaglio culturale del prete, ma anche il senso di appartenenza a una casta di eletti, di uomini speciali, di creature fuori dal comune, meritevoli di maggior rispetto e considerazione rispetto ai comuni mortali. E insieme a questo si coltiva il legame viscerale con l’istituzione ecclesiastica, si genera un vincolo di appartenenza totale che prevede, da parte del sacerdote, la totale consacrazione alla vita della Chiesa, la perenne obbedienza alla sua volontà della Chiesa e il rispetto, almeno formale e pubblico, della norma celibataria. Da parte sua, la Chiesa fornisce al suo funzionario, nel corso di tutta la sua vita da prete, il sostentamento, l’assistenza e un’eterna protezione in caso di qualche guaio, soprattutto se legato, in senso lato, alla sfera della sessualità.
Il rischio è che in seminario il futuro prete impari a ritenersi investito di una pericolosa aura di sacralità, che diventi un “uomo del sacro”. Alcuni riescono a non cadere in questa trappola, ma molti (soprattutto, a sentire i professori, i più giovani, quelli entrati nell’era di Ratzinger) purtroppo non ce la fanno e cominciano a sviluppare una passione quasi ossessiva per la liturgia, per gli abiti e le vesti, “per i pizzi e i merletti” (per citare l’’espressione di un amico teologo), per l’estetica del sacro e della tradizione. Questa gente, una volta in parrocchia, sceglierà di circondarsi di un gruppetto di tradizionalisti adoranti e spingerà la Chiesa ancora di più nella ridotta culturale delle processioni e della religiosità popolare e superstiziosa, nel ghetto della resistenza alla modernità.
Dal seminario si può naturalmente anche essere allontanati: ad esempio, perché si è giudicati inadatti al sacerdozio o perché non si riesce a passare gli esami. In realtà, questo avviene di rado perché è difficile che un’istituzione in difficoltà di reclutamento rinunci a formare nuovi funzionari. Un altro motivo di esclusione potrebbe essere rappresentato dall’omosessualità. Anche qui credo che la severità dei rettori si sia nel tempo ammorbidita. Qualche decennio orsono bastavano delle movenze effeminate, un taglio di capelli non proprio virile per essere allontanati dal seminario. Oggi la situazione è diversa e soprattutto molti vescovi premono perché le esclusioni dal seminario siano ridotte al minimo. In qualche caso, i ragazzi scartati vengono mandati in seminari più “tolleranti” con gli omosessuali e lì diventano tranquillamente preti. L’omosessualità tanto spesso severamente redarguita dalle autorità ecclesiastiche viene così nei fatti ampiamente tollerata al proprio interno.
Quel che viene da chiedersi è se la Chiesa Cattolica potrà mai davvero cambiare fino a quando non rivede in profondità e radicalmente la propria struttura clericale. Come potranno mai accettare di delegare il proprio potere ai laici persone formatesi in ambienti chiusi e castali come i seminari? Perché i giovani apprendisti sacerdoti non possono essere educati in normali istituzioni formative, nelle, quali dopo la scuola, si va a casa, si vive in famiglia, si va in parrocchia insieme a tutti gli altri fedeli, si esce con gli amici (non solo seminaristi) e la fidanzata (o il fidanzato)? E perché non possono fare questa vita anche le donne che lo desiderassero? Avremmo presbiteri meno capaci, meno adatti a guidare le loro comunità? O avremmo solo una Chiesa più evangelica, con meno gerarchie e più eguaglianza, più adatta a svolgere nel nostro tempo la sua predicazione? A voi la risposta.
Marco Marzano, il Fatto Quotidiano 27/9/2015