Gabriele Romagnoli, la Repubblica 27/9/2015, 27 settembre 2015
GERUSALEMME IL TRIANGOLO DELLE BERMUDA DELLA FEDE
E poi un giorno ne rividi uno. Lo teneva in casa una signora di Forlì, su una credenza nell’ingresso, sotto il peso di un posacenere di marmo rosato: ora che nessuno fumava più fungeva da fermacarte. O almeno fermava quel fazzoletto di carta che aveva la funzione di proteggere la casa intera: veniva da Gerusalemme. Pensai perfino che potesse essere lo stesso fazzoletto, o almeno uno proveniente dalla busta che avevo visto aprire mesi prima, da una pellegrina italiana, al santo sepolcro. La fila avanzava lenta, a ogni fedele era concesso il suo minuto di raccoglimento davanti alla pietra che avrebbe custodito il corpo di Gesù Cristo e il mistero della sua resurrezione. Questa donna si era chinata, aveva preso dalla borsa la busta con i fazzoletti, l’aveva aperta tirando la linguetta adesiva e, con lo sguardo basso, i movimenti meccanici, le labbra che pronunciavano una litanìa, aveva cominciato a passare uno dopo l’altro i pezzi di carta sulla pietra. Mi ero avvicinato, pensando di poter decifrare una preghiera, invece quel che avevo sentito era una serie di nomi. Toccava il sepolcro con un fazzoletto e sussurrava il nome di un destinatario. «Per la cugina Isora», ad esempio. A volte aggiungeva una motivazione. «Per la signora Eva, che sta tanto male». Riponeva con cura ogni carta in una diversa busta di plastica, in cui mi sembrò di scorgere un’etichetta con il nome. E tutte le buste, nella borsa con i manici, che uscendo infilò al braccio ripiegato con la cura dedicata a qualcosa che non si è disposti a perdere. C’era anche una signora di Forlì tra le dieci beneficiarie di quel rito? Oddio, sarebbe stata una incredibile coincidenza. Davvero? Attenzione alle parole. Perché il resto, tutto il resto, è invece più facile da credere?
Ci sono persone che hanno la sindrome di Stendhal e svengono di fronte alle opere d’arte. Li prende una specie di incrocio tra estasi e trance. Poi lo raccontano con occhi lucenti, come un’esperienza che ti sopraffà, ma ti eleva. A me provocano qualcosa di simile alcune città, come Sedona in Arizona, o Gerusalemme appunto. Non esattamente piacevole, di certo potente. Vi percepisco una forma di energia, una tensione circolare, tutto quel voler credere prima ancora di poterlo fare. Gerusalemme quasi mi annichilisce, perché è davvero troppo. Parlandone con rispetto, è il triangolo delle Bermuda della fede: ci puoi svanire dentro. Poi, a intervalli regolari, perfino adesso, i media ci raccontano di scontri davanti alla spianata delle moschee, come non fossero inevitabili, regolari quanto le piogge. Tu metti leone, tigre e ghepardo nella stessa gabbia e vedi. Quel chilometro quadrato dove tutto è stato fatto accadere è la prigione di ogni speranza di pace. Su un lato del triangolo c’è il santo sepolcro; su un altro la moschea “ultima”, Al Aqsa dalla cui roccia Maometto avrebbe spiccato il volo su un cavallo alato attraversando i sette cieli per ricongiungersi a dio; sul terzo il muro occidentale, meglio conosciuto come muro del pianto, nelle cui fessure gli ebrei infilano foglietti con il testo delle preghiere. Ancora carta, ancora caricata di significati e attesa. In un qualunque momento del tempo puoi fermarti in un punto compreso in quell’area e percepire la vertigine: un mormorio che diventa suono incomprensibile perché sovrapposizione di lingue che non vogliono ascoltarsi; immagini che si sfilacciano, Abramo tirato in tre direzioni a recitare la stessa parte con variazioni sul tema. E il nome, il nome stesso che si perde: negato, riscritto, taciuto. Al Quds, la città santa, lo è per tutti e per nessuno. È ovunque e da nessuna parte. Tre religioni, tre libri, ma se chiedi dove sia questo cuore in forma di insediamento umano otterrai risposte differenti, che riscrivono a modo loro la geografia e la storia. Alla fine la città santa è un’idea, per la quale si combatte da secoli, profanandola. Tutti la adorano e tutti la feriscono. La contraddizione è evidente, lo è anche a chi la determina, ma non sa rinunciarvi. Qualche volta, nel turbine di emozioni che provoca, viene da immaginare che qui, dovunque e comunque sia cominciato, finirà il mondo, in un falò di follia spacciata per verità.
Questo pensavo in una casa di Forlì, osservando quel pezzo di carta ripiegato sotto il peso del marmo. E che non sarebbe bastato a proteggere la famiglia che ci abitava e men che meno tutti noi, neppure se fosse stato passato, anche, sulle pietre del muro occidentale e sulla roccia della cupola. Avrei voluto fare un gesto semplice e liberatorio: scostare il posacenere, prendere il fazzoletto di carta, andare alla finestra, aprirla, aspettare un soffio di vento per affidarglielo e che se ne andasse nel mondo, dove ogni città è santa («per New York», «per Damasco», «per Bangkok»), dove ogni vita è sacra, invece è minacciata e più che in ogni altro luogo proprio a Gerusalemme, o cara.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 27/9/2015