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 2015  settembre 27 Domenica calendario

LUCIA POLI “MIO FRATELLO È IL GIOCO, IO L’IMPEGNO SIAMO SOLISTI AMANTI DELLE SCIOCCHEZZE”

Tutta la vita artistica di Lucia Poli si può riassumere in una domanda semplice e insidiosa: quanto è stata condizionata dalla fama inarrestabile di un fratello bravissimo e ciarliero? Guardo questa donna, di elegante bellezza, che siede, nel suo salotto romano, compunta come una novizia davanti a una madre superiora e penso che la timidezza sia a volte una risorsa. A nessuno, sospetto, fa piacere il confronto. E poi su cosa? Teatro, vita, intelligenza, scaltrezza, successo? C’è la misura e la dismisura che i fratelli Poli si sono divisi. E ci sono i bilanci, le partite conclusive, dove è difficile dire chi sia più bravo. Sorride senza scomporsi, Lucia: «Dovrebbe esserci qualche anima caritatevole che passi con l’aspirapolvere sulle nostre storie e tolga errori, banalità, pretese insensate. Ma non c’è. Tutto resta: le cartacce e la polvere. Per questo non amo mai parlare del meglio e del peggio. Sono valori relativi. E ancora mi vedo con quel fratello ingombrante al quale resistere e non chiedere nulla. Far di tutto per tenere separate le nostre esistenze artistiche».
Si vede e cosa pensa?
«Penso che i fratelli non li scegli. Non puoi sapere cosa ti riserverà l’affetto, la bravura o l’invidia».
Vi siete invidiati?
«Siamo stati troppo attenti per cedere a un sentimento così dissipativo come l’invidia. Nell’ordine della costellazione io ero semplicemente la sorella minore. La più piccola, in una famiglia con cinque figli e Paolo il più grande. Non il più responsabile. So che è stata la sua forza».
Nel senso?
«Nel senso di saper pensare soprattutto a se stessi».
È l’egoismo.
«Direi soprattutto un volersi bene».
Siete molto diversi?
«Lui è un abile parlatore. Come se ogni volta raccontasse una favola. Inventata e divertente. Io devo costruire edifici drammatici. Dire subito che mio padre morì prematuramente. Ricordare la guerra, le bombe, i disastri. A volte mi sento patetica. Come Cosette nei Miserabili».
Le pesa quest’aria cupa?
«Dentro di me so di essere allegra. Pervasa da un ottuso ottimismo. Paolo se ne andò giovane via di casa. Intraprese la sua carriera teatrale. Io cercavo qualche scampolo di felicità altrove evitando il confronto».
Cosa ha fatto?
«Mi sono laureata e insegnato per alcuni anni».
Laurea in cosa?
«In filosofia. A Firenze nel 1963. Feci una tesi su Maurice Merleau-Ponty».
Di solito si sceglieva Sartre.
«È vero. Era già di moda l’esistenzialismo. Ma fu il mio professore Giulio Preti a orientarmi. Voleva che mi occupassi di logica. Gli dissi che in famiglia c’era già mio fratello Mario che faceva lo scienziato».
Com’era l’ambiente universitario fiorentino?
«Stimolante. Seguivo le lezioni di Walter Binni. Fu lui a farmi innamorare del Boccaccio. Provai una grande emozione quando spiegò che per salvarsi dalla peste bastava il racconto della favola. C’era anche lo storico valdese Giorgio Spini. Seguivo, saltuariamente, i corsi di Cesare Luporini ed Eugenio Garin. Eminenze della sinistra!».
Giulio Preti forse era il più singolare.
«Aveva scritto un libro importante su Logica ed empirismo .
Era un uomo bruttissimo. Malgrado ciò circondato da donne adoranti. Che lui odiava. Aveva assunto la sua bruttezza con ironia volteriana. Ricordo le sue fluide e sputazzanti lezioni. Gli erano rimasti due denti e da quella bocca poteva uscire di tutto. Alcuni colleghi di facoltà gli regalarono una dentiera. Preti mormorò: gliela farò vedere. E a lezione, un giorno, se la tolse e la poggiò in bella evidenza sulla cattedra».
Immagino lo sconcerto.
«A pensarci bene l’interpretai come una provocazione, quasi un trasgressivo gesto teatrale».
L’attrae la provocazione?
«Sì, e la scoprii a Roma nei teatrini off dei primi anni Settanta».
Quelli delle cantine.
«In quegli spazi impregnati di muffa e di fumo sentivamo che una libertà diversa era possibile».
Sentivate chi?
«Eravamo un piccolo gruppo che proveniva da luoghi ed esperienze differenti. Da un vecchio garage, ricavammo l’Alberico nel quale mi ritagliai uno spazio più piccolo: l’Alberichino. Esordii con uno spettacolo interamente scritto da me: Liquidi. Parlava della condizione della donna. Faceva ridere e scandalizzava».
Chi si scandalizzò?
«Soprattutto le femministe che amavano il teatro didascalico. Io ero sul palco. Monologante. In una posa seduttiva e allegra. Civettuola. Poi improvvisamente dalla bocca fuoriuscivano liquidi. Sbavavo. La gente inorridiva. Fu uno strano esordio. All’insegna della body art. All’Alberichino debuttarono anche Roberto Benigni e Carlo Verdone. E già da questo può capire che non volevamo essere noiosi».
Come fu l’esordio di Benigni?
«Quello di una creatura stravagante e surreale. Elettrica, come accade ai migliori talenti comici. A condurlo a Roma fu Donato Sannini, un nome che oggi dirà poco. Morì giovane e questo non gli permise di esprimere tutto il suo talento sgangherato. Era fiorentino. Scrittore, poeta, teatrante. Fu Donato a dirmi che nei suoi viaggi tra le osterie toscane – dove andava a bere e leggere poesie, poesie etiliche come le aveva ribattezzate – aveva conosciuto due strani tipi». Uno suppongo fosse Benigni e l’altro?
«L’altro era Carlo Monni, un guardiano di porci che recitava i sonetti di Shakespeare. Da ultimo, credo, infilava pali della luce. Benigni, invece, suonava – ahimè malamente – la chitarra e componeva canzoni spiritosissime. Però all’inizio voleva fare il cantante. Chiese perfino un’audizione a Celentano. Non so se l’incontro ci fu. Ma se mai avvenne non fu esaltante per Roberto».
Ha mai pensato a quanta forza, determinazione, talento occorrano per reggere botta ai primi no, ai fallimenti di un esordio?
«Per tutti è dura cominciare. È dura quando qualcuno ti dice: non vai bene. Però l’arte è una forma di fede. Devi credere in quello che fai. Sennò è finita».
Può finire comunque.
«D’accordo. Ma non resti con il dubbio: Ah, se avessi insistito! Certe volte ripenso a mio padre. Era un carabiniere con l’animo di artista. Suonava il violino, e cantava piuttosto bene. Un uomo spiritoso. Però diventò un militare. Mi chiedo fu quella la sua aspirazione? Rinunciò a qualcosa?» Pensa che il suo fu un sacrificio?
«Non lo so. Non nasciamo artisti. Qualcuno deve innescare il tuo talento, coltivarlo, infonderti fiducia. Di mio padre non ho molti ricordi. Morì che avevo cinque anni. Tra i pochi ricordi mi resta quello di una sera dell’ultima estate. Eravamo in giardino, io seduta sulle sue ginocchia. E, puntando il grande dito verso l’alto, mi raccontò il cielo. Sapeva tutto delle costellazioni: i nomi e le forme. Mi è rimasto questo amore per le stelle».
Cosa accadde in famiglia dopo la morte di suo padre?
«Mia madre si caricò tutto il peso. Era maestra elementare. Sembrava una donna uscita da una storia millenaria. Vestita sempre di nero. Eppure, di insospettabile modernità. Fu lei a introdurre per prima il metodo Montessori. Convinta seguace di Rousseau decise che non avremmo dovuto frequentare la scuola pubblica e che l’educazione era un fatto naturale. Furono anni, anche se vissuti nelle ristrettezze, felici».
A parte Paolo, chi erano gli altri fratelli di riferimento?
«Mario, che sarebbe diventato scienziato. Un giorno mi parlò dei misteri di Marte. Su cui scrissi una storia fantastica. Mio fratello disse che Marte era un pianeta abitabile. E mi inventai, a nove anni, la storia di uno scienziato che va su Marte e porta con sé la figlia. Si rompe l’astronave e non può tornare indietro. Il pianeta è abitato da mostri terribili. La piccina riesce ad addomesticarli e ne diventa la regina. Il padre – che sta tentando di aggiustare l’astronave – viene ucciso, con l’approvazione della figlia, dai mostri. Fine della storia».
Non è proprio un vissero tutti felici e contenti...
«Una storia fantastica a tinte fosche».
Che significato le attribuisce?
«I bambini si sentono onnipotenti e quando muore un genitore pensano che la colpa sia loro. La mia fantasia – fu un’elaborazione vagamente freudiana – mi spingeva a uccidere il padre per provare il senso di colpa».
È un po’ contorta.
«Forse è la ragione per cui non ho continuato con la scrittura e mi sono dedicata al teatro. Ho spesso pensato che recitare risponda alla necessità di riempire un vuoto, far fronte a una mancanza. Quasi un bisogno nevrotico di mettersi alla prova».
Misurare la propria capacità o incapacità?
«Cercare conferme, direi. E anche qualcosa di più profondo. Una volta un’Anna Magnani insolitamente dubbiosa, mi chiese: tu sai perché facciamo questo mestiere? Pensai agli applausi, alle luci, al successo. No. Lo facciamo per qualche bacio o carezza che da bambini ci sono mancati, mi disse».
Aveva ragione?
«Forse sì. Il teatro non parla della vita e della psicologia umana nelle loro componenti razionali. Il teatro va dentro la lacerazione umana, esalta il non senso dell’uomo. Per questo sospetto sia un mestiere pericoloso».
E lei cominciò a farlo nei primi anni Settanta. La scena allora era dominata soprattutto da Carmelo Bene. Che ricordo le suscita?
«Non era un uomo piacevole. Gran misogino. Trattava malissimo le sue attrici. Le insultava. Era dotato di un’intelligenza distruttiva. Ma in scena era straordinario. Possedeva una voce mimetica, camaleontica, che ammaliava. Mi ricordo per le strade di Bologna quella voce che dalla Torre degli Asinelli leggeva Dante e ti entrava nelle viscere. Fu unico. Nel frattempo avevo iniziato una mia storia».
Una storia d’amore?
«Sì, con Giuseppe Bertolucci. Era giovanissimo. Ma straordinariamente maturo. Bernardo disse una cosa bellissima: quando avevo sei anni mi nacque un fratello maggiore. Era vero. Giuseppe fu l’uomo che sapeva prendersi cura dell’altro».
Fu straordinaria anche la collaborazione con Benigni.
«Scrissero insieme Cioni Mario . Giuseppe gli tirò fuori la massa di ricordi che Roberto forse neppure sapeva di avere, i desideri inesplosi. Fu incredibile la loro relazione: per ricchezza, generosità reciproca, follia. Come si dice? Giuseppe era nato imparato».
E tra di voi?
«La nostra relazione finì nel 1977. E non ci vedemmo quasi mai più. Eravamo stati i fratelli della seconda fila. Davanti le stelle: Bernardo e Paolo. Noi dietro, pianeti minori. Fu così che affinammo il gusto per la marginalità».
Come ha accolto la sua morte?
«Con un indicibile dolore. Sa perché non ci si frequentava più? Dopo la grande intensità che ebbe la nostra relazione, niente sarebbe stato all’altezza. Le parole, le frasi, i comportamenti. Tutto si sarebbe spento. Meglio, molto meglio, il taglio netto. Ho continuato a vedere e frequentare Attilio, il padre. Che uomo meraviglioso».
Cosa la colpiva?
«Intanto era il padre che non avevo quasi mai avuto. L’ho amato tantissimo. Con Giuseppe si andava, soprattutto l’estate, nella casa di montagna sugli Appennini. Bernardo non ci veniva volentieri. C’era la Ninetta, moglie di Attilio. E non c’era la televisione in quella casa. Ma i libri. E la sera si facevano bellissime conversazioni. Ho molta nostalgia di quel tempo».
Attilio era un grande poeta.
«Non spetta a me dirlo. Anche se lo penso. Era molto ironico. Un giorno venne a trovarlo il suo editore, Livio Garzanti. La Ninetta, grande cuoca, preparò un pranzo memorabile. Mi colpì che Garzanti si lavava in continuazione le mani. Una mania. Allora Attilio, facendo finta di niente, cominciò a parlare delle virtù curative delle acque. Disse che da piccolo lo portavano spesso a Salsomaggiore, dove Edith Wharton scrisse le sue storie di fantasmi. E poi c’era Baden-Baden. E c’era Bath dove andava Jane Austen. Elencò bagni termali, rivelando un’insospettata competenza».
E Garzanti?
«Sul momento non capì. Poi si rese conto della sottilissima ironia e smise di lavarsi le mani! Negli ultimi anni gli portavo mio figlio piccolo e vedevo la gioia di Attilio e per riflesso la mia».
Le manca?
«Sì, mi mancano le persone scomparse. La memoria non ci sarebbe senza i morti. I vivi si raccontano da soli».
Con suo fratello ha mai lavorato?
«Abbiamo fatto in tutto quattro spettacoli. Lui in scena è molto leggero. Io viscerale. Per Paolo è importante la superficie».
Come vi definireste?
«Lui è il gioco, io l’impegno. Lui non ha mai commentato un mio spettacolo. Io sono più compassionevole. Siamo dei solisti. Il che non ci impedisce di sentirci quasi tutti i giorni. Non ci esprimiamo mai su cose importanti. Tendiamo alle sciocchezze. Come diceva Moravia: non mi parlare dei problemi psicologici, parlami di fatti. Ecco. Noi ci raccontiamo i fatterelli della vita. Come due fratelli che si amano nonostante tutto».
Antonio Gnoli, la Repubblica 27/9/2015