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 2015  settembre 27 Domenica calendario

IN CINA LA NUBE GIGANTE È NEL PACIFICO L’ULTIMA OASI

È passato un secolo e mezzo da quando Dickens descriveva l’orizzonte greve di caligine di Coketown, la città immaginaria simbolo della rivoluzione industriale inglese fondata sul carbone. Oggi nella vecchia Europa la qualità dell’aria è migliorata grazie all’adozione di combustibili a basso tenore di zolfo, all’incremento dell’efficienza energetica e delle tecniche di depurazione dei fumi, come testimoniano i rapporti della European Environment Agency.
Tuttavia nel frattempo centinaia di nuovi composti chimici di sintesi si sono liberati non solo dalle ciminiere industriali, ma pure dalle automobili, dalle abitazioni, dalle coltivazioni. Sono meno visibili del vecchio smog, e per questo più subdoli, ma costituiscono un venefico miscuglio di cui ancora ignoriamo gli effetti a lungo termine su salute umana e ambiente.
Ma chi se la passa peggio sono senz’altro gli abitanti delle sovraffollate pianure di India e Cina, dove si concentra ora la produzione di beni di consumo globali ottenuti con impianti spesso obsoleti e altamente inquinanti. La «Asian brown cloud», la nube marrone asiatica, è un gigantesco fantasma fluttuante composto di particelle nocive in sospensione che offuscano il sole: ristagna dal Pakistan alla Cina soprattutto nei mesi invernali, raggiungendo anche gli alti ghiacciai dell’Himalaya. Se si vuole respirare aria pulita tocca far rotta verso gli atolli nel cuore del Pacifico, dove le emissioni locali sono praticamente nulle. Ma la sottile pellicola aeriforme che ci protegge – poche decine di chilometri di spessore – non ha confini e prima o poi con la circolazione dei venti l’inquinamento si diffonde ovunque. Ci sono molecole dalla vita molto lunga, come il biossido di carbonio, principale gas serra responsabile del riscaldamento globale, che dal luogo di emissione nel giro di pochi mesi si miscela nell’atmosfera planetaria dove poi sopravvive circa 120 anni prima di essere riassorbito dai processi naturali. Il particolato più grossolano derivante dalla combustione di legna, olio pesante e carbone tende invece a ricadere a terra abbattuto dalle piogge nel giro di qualche settimana. Ci sono gas dannosi e persistenti come i clorofuorocarburi, che hanno causato il buco dell’ozono ma almeno sono stati messi al bando dal protocollo di Montreal nel 1989. Invece molte altre sostanze tossiche, come solventi e insetticidi, evaporano facilmente e tendono poi a condensare nelle zone polari e montane più fredde, che diventano così trappole chimiche per veleni rilasciati a migliaia di chilometri di distanza.
Osservatori d’alta quota come quello della Junfraujoch, a 3580 m nelle Alpi svizzere, sono specializzati nell’analizzare l’aria alla ricerca di quantità anche infinitesimali di queste sostanze, ricostruendo tramite modelli numerici al calcolatore il percorso delle correnti che le hanno portate fin lì, e identificando così i luoghi di emissione. L’inquinamento dell’aria è nomade e ha ormai raggiunto ogni angolo del pianeta: di cieli incontaminati non ce ne sono più, nemmeno in Antartide.
Luca Mercalli, La Stampa 27/9/2015