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 2015  settembre 27 Domenica calendario

L’IRRILEVANZA DEI RICORDI

SORRISI
Nulla di più bello di chi siede davanti a te, per esempio a un tavolo di biblioteca o in treno, e che, scrivendo sul suo taccuino o computer, sorride.
A chi sorride? A nessuno. Eppure quel sorriso non è rivolto a se stesso, è evidente che ha davanti un interlocutore. Assente o immaginario?
Credo sia la scrittura. Sì, chi scrive a volte sorride a quel che scrive. Niente di più bello di questa relazione tra lo scrivente e il suo scritto.
E noi che guardiamo siamo ovviamente esclusi, quel sorriso non è rivolto a noi. Eppure in qualche modo ne beneficiamo: entriamo in una sorta di “stanza interiore”, normalmente vietata. Abbiamo accesso al mistero.
ARTISTI E BORGHESI
Il fatto che la parola arte non esistesse in greco, deve farci riflettere. Esisteva téchne, che però traduciamo «tecnica».
Anche per i latini ars voleva dire arte nel senso tecnico di un saper fare, di una sapienza innanzi tutto manuale, concreta, fisica. L’artista era un artefice, uno che sa “fare”. Per esempio Efesto, il dio fabbro. C’è il verbo fare in artefice. Così come nella parola poeta c’è il verbo greco poiéin, fare.
Ma a un certo punto della storia abbiamo dato alla parola artista un significato metafisico, sacerdotale. Colui che crea è diventato il vate, l’invasato, l’ispirato, il veggente. L’anticonformista, il ribelle. L’eccentrico.
Oggi non so se abbiamo ancora un’idea di artista. Se sì, mi sa che siamo fermi a una visione iper-romantica, aggravata dall’ideologia mediatica dell’apparire, e del tutto aliena da qualsiasi idea di ribellione: artista è colui che se la tira da artista, che fin da come si veste, da come vive, da come si atteggia manda il messaggio di essere artista. L’abito fa il monaco. Il conformismo dell’anticonformismo, insopportabile.
Abbiamo perso totalmente anche l’idea che l’arte sia una téchne: “tecnico” fa ora un tutt’uno torbido con “tecnologico”, e si sposa con un’idea piuttosto commerciale dell’artista, come di un “produttore” più o meno bene inserito nelle logiche del mercato, e quindi della visibilità.
Mi piacerebbe l’idea di un artista nel senso antico del “fare”, che si ribella al mondo mettendosi da un’altra parte, in un altrove in cui sia libero di esercitare totalmente un suo personale spirito critico. Ma mi piacerebbe che ribelle fosse senza darlo a vedere, senza darsi in pasto ai media e ai diktat del mercato che lo “abbigliano” ad hoc . Artista e basta, nel profondo, sganciato, libero. A quel punto scoprirebbe che gli serve l’anonimato, e una vita il più possibile nascosta: esattamente l’opposto di quanto il mondo dei media gli chiede oggi. Rendersi invisibile. Eccolo, il vero senso del verbo fare, per un artista: essere in quello che fa, nel momento in cui lo fa. Limitarsi a questo. E di conseguenza cercare di essere il più possibile “normale”, non esibendo la “diversità”.
«Rivelare l’arte e nascondere l’artista»: era uno degli aforismi con cui Oscar Wilde apriva il suo Dorian Gray . E una decina d’anni dopo lo ribadiva Thomas Mann col suo mirabile Tonio Kröger . Il giovane Tonio “fa”, e dunque è artista senza voler apparire tale. Non si atteggia, è. In questo senso è classico, non romantico. È l’artista che fa arte, ma diffida dell’arte troppo dichiarata; è il ribelle che però ama immensamente il mondo dei normali, dei non-artisti, dei borghesi con cui peraltro non ha nulla a che fare. È spaesato, ambiguo, plurimo, e straniero ovunque: «un borghese che si svia nell’arte, un bohémien con la nostalgia delle buone maniere, un artista con la coscienza non a posto», affetto da una «debolezza innamorata per tutto quanto è semplice, schietto e gradevolmente normale». Così conclude Tonio Kröger, nell’ultima pagina del romanzo. E ancora: «Sto fra due mondi, non mi sento a casa mia in nessuno di essi, e mi trovo quindi in difficoltà. Voi artisti mi chiamate borghese, e i borghesi sono tentati di arrestarmi... non so quale delle due cose mi affligga più amaramente».
Ecco, mi piacerebbe un artista sviato, nostalgico, non a posto e in difficoltà.
Ma ha ancora senso parlare di artisti?
Artista non è più una parola, non vuol più dire niente. La usiamo troppo, e a sproposito, per chiunque in ogni campo si esibisca pubblicamente. Dunque è una parola sparita (forse perché è sparita la parola borghese, cui contrapporsi?).
Ma una cosa per la quale non esiste più la parola, esiste ancora?
CARTELLE NERE, CAMICIE BIANCHE E TRAM
Ero in Bretagna, e viaggiavo su un treno piccolo e lento. Arriva il bigliettaio. No, forse si dice controllore. Un ragazzo elegante, con una camicia bianca dal colletto alto, impeccabile, abbottonato perfettamente, le due alette unite da un qualcosa di invisibile (si dirà ferma-colletto?), una cravatta sottile e scura, e il berretto con una visiera piccola e rigida, da cui scappavano dei riccioli bruni, cortissimi: un particolare irrilevante, anche se gli aggiungeva fascino.
Mi è venuto un ricordo sui bigliettai dei tram, di quand’ero ragazza. Si saliva sul tram e c’era lui, il bigliettaio, seduto su una specie di trespolo transennato, in divisa, col berretto blu e il pollice della mano destra infagottato in un ditale di gomma, per staccare meglio i biglietti. Aveva solo quel compito: staccava biglietti, gialli, di carta quasi velina. Un altro particolare irrilevante, a margine: da una sola parte era consentito salire sul tram, e non si poteva sbagliare visto che solo due erano le porte, una d’entrata e una d’uscita. Era un mondo più semplice, e nella semplicità c’è più ordine. Oggi tutti entrano o escono non importa da quale porta perché tanto ovunque, sui tram, è consentito sia entrare che uscire. Così, tutti entrano dove gli altri escono e viceversa. Ci sono grossi intasamenti a volte, oggi, sulle porte dei tram.
Qualche giorno fa un amico mi dice con grande emozione che il giorno dopo suo figlio entrerà in prima elementare. Gli chiedo subito che tipo di cartella gli ha comprato, perché ho per le cartelle un amore particolare. A me i miei ne avevano comprato una bellissima, di pelle nera martellata, che ho portato fino in terza media e poi non ho avuto più il coraggio: bisognava essere studenti adulti, i libri si portavano con la cinghia. Ora da anni vanno gli zaini, con i personaggi dei cartoni stampati sopra. È l’egemonia dello zaino, lo so. Poi il mio amico aggiunge: sai, domani gli daranno la divisa, camicia, cravatta regimental... E qui m’intenerisco. Ricordo i miei compagni delle medie con il completo grigio di lana, giacca e cravatta, uguali precisi ai loro padri, a parte i pantaloni corti, tagliati sopra il ginocchio.
Dunque, controllore bretone con camicia a collo alto, bigliettaio dal pollice di gomma, tram con le porte giuste, cartella di pelle nera, bambinetto con cravatta regimental... Cos’hanno in comune? L’eleganza? L’ordine, la compostezza? La divisa...?
Qui mi fermo. Ci prende sempre un senso d’inattualità (leggermente venato di senso di colpa) a parlar di certe cose. È una sorta di censura preventiva, un chi va là linguistico che ci mette in guardia di fronte a parole come “divisa”. Ci fermiamo sulla soglia di quel qualcosa che qualcuno ha pensato che sia bene per tutti pensare, (il politicamente corretto?). Perché ci fermiamo? Siamo così poco liberi, persino di innamorarci di un’immagine?
IRRILEVANZA
Mi piacciono le cose irrilevanti, che non hanno importanza. Per esempio i ricordi, che non spostano nulla nel nostro universo e tantomeno in quello altrui; o i dettagli, come i riccioli scappati. Mi piace scrivere di cose irrilevanti. Forse perché mi sento quotidianamente inondata di fatti, notizie, provvedimenti, opinioni, romanzi... tutti ritenuti, e sbandierati, rilevanti.
Rilevare vuol dire alzarsi da una superficie piana. A scuola mi piacevano i bassorilievi; ne producevamo anche in classe, con la creta, o almeno ci provavamo (c’era un certo senso del “fare” nella scuola di una volta, che non a caso ci dava l’idea di essere in qualche modo artisti...). Ecco, mi piacciono, in tutto questo attuale nostro frastuono tridimensionale, le cose bassorilevanti.
Paola Mastrocola, Domenicale – Il Sole 24 Ore 27/9/2015