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 2015  settembre 27 Domenica calendario

IL NUOVO CEO, LA FAMIGLIA E L’ESEMPIO DI FIAT E FORD

I commenti allo scandalo Volkswagen si sono finora concentrati sulla perdita di reputazione dell’azienda simbolo del made in Germany. Volkswagen è però anche un simbolo del capitalismo familiare: il Land della Bassa Sassonia, che ha il 20% dei diritti di voto, dispone sì di un potere di veto – ma il pallino è in mano alla holding Porsche SE, controllata dalle famiglie di cugini Porsche e Piech.
Vw è in buona compagnia: Ford, Fca, Bmw, Toyota, Suzuki, Hyundai, dimostrano che l’automobile è spesso un affare di famiglia. La proprietà familiare è comunemente ritenuta più adatta, e non solo nell’auto, a garantire lo sviluppo di lungo periodo delle aziende e a difenderle dalle fluttuazioni dei mercati. Il fallimento di General Motors nel 2009 sembrava aver confermato questa teoria: la public company fu affondata da una serie di errori manageriali, mentre nello stesso periodo l’azienda familiare Ford – di fronte alle stesse difficoltà – riuscì a salvarsi. Poco più di un anno fa il caso Peugeot – con l’impresa sull’orlo del fallimento e la famiglia costretta a lasciare spazio allo stato francese e all’azienda statale cinese DongFeng – ha però intaccato la reputazione del capitalismo familiare; un altro colpo arriva ora con Volkswagen.
Quanto sarà duro il colpo dipenderà anche dal nuovo amministratore delegato, Matthias Müller. Il consiglio ha scritto venerdì di «apprezzare il suo sguardo critico e costruttivo». Il manager è nel gruppo da quasi 40 anni e ha ottimi rapporti con i Porsche e i Piech, tanto che il suo arrivo è stato visto anche come una rivincita del vecchio patriarca Ferdinand, uscito sconfitto ad aprile dalla battaglia contro Martin Winterkorn. Forse un esterno avrebbe avuto uno sguardo più critico, e magari «creativamente distruttivo»? Pensiamo alle vere e proprie rivoluzioni che portarono Sergio Marchionne e Alan Mulally, rispettivamente a Fiat e Ford. Dieci anni fa, nel pieno di due crisi che ne minacciavano la sopravvivenza, le due aziende ebbero il coraggio di scegliere due manager totalmente estranei all’azienda e al settore – con risultati brillanti.
Le prove per Müller non tarderanno. Una volta tamponate le conseguenze del diesel-gate (e sperando che i suoi costi non esplodano), c’è un problema da affrontare in tempi non troppo lunghi e che diventerà più grave se lo scandalo farà calare la domanda di auto Volkswagen a livello mondiale: il problema della saturazione degli impianti tedeschi del gruppo. Proprio l’esigenza di far girare a pieno regime le fabbriche tedesche (e di evitare problemi con i potentissimi sindacati) ha contribuito ai piani di crescita sempre più ambiziosi dell’era Winterkorn. A pensarci bene, non è una strategia molto diversa da quella che ha concepito Sergio Marchionne, prima con l’abortito piano Fabbrica Italia, poi con il programma di esportazione di Jeep e Alfa Romeo. Grazie alla crescita internazionale Volkswagen è stata, insieme a Bmw e Daimler, l’unico costruttore europeo a non risentire (se non in misura minima) della crisi del 2008-2009. Grazie alla Cina, soprattutto, e più in generale all’export di motori e componenti, in particolare delle marche premium Audi e Porsche. Se all’attuale frenata cinese e al probabile tracollo delle vendite Usa dovesse aggiungersi una perdita di quote in Europa, Vw rischierebbe davvero di saltare – modello tedesco e modello familiare insieme.
Andrea Malan, Il Sole 24 Ore 27/9/2015