Elena Masuelli, TUttoLibri - La Stampa 26/9/2015, 26 settembre 2015
«IL GATTOPARDO È IL MIO TACCO 18»
«Sembri me quando vendevo scarpe» gli disse Tennessee Williams al loro primo incontro, Manolo Blahník lo ricorda divertito. È un gentleman sempre in giacca e farfallino, laureato in Letteratura e studioso d’Arte, che nei romanzi e nel cinema ha affondato il germe per la creazione di calzature che da quarant’anni accendono la passione in generazioni di donne. Dall’esordio con gli stiletti tacco 18 per la sfilata di Ossie Clark nel 1971, oltre 20mila modelli fra cui il fotografo Michael Roberts ha selezionato «le Manolo» che illustrano Gesti fugaci e ossessioni, autobiografia che lo stilista ha costruito raccontando pagine e autori amati, musei e viaggi, affetti e incontri, dall’amica Anna Piaggi al regista Almodóvar.
Lo scrittore preferito?
«Gore Vidal. Tengo sul comodino Myra Breckinridge, per me una pietra miliare. E’ una copia autografata, vecchia e consunta, che mi ha regalato la mia amica Paloma. Avevo già letto alcune sue opere, ho adorato Giuliano per l’ambientazione storica, ma ho capito subito che questa era diversa da qualsiasi altra. Persone che cambiano sesso e fanno le cose più straordinarie. Un’epifania che ha acceso in me una profonda ammirazione».
E’ considerato un intellettuale «scomodo», cosa apprezza di lui?
«E’ una delle voci più colte degli ultimi due secoli. Scaltro, acuto, spesso caustico, intransigente con le stupidità sterili. Diceva le cose come stavano, in due parole più di quanto chiunque altro in volumi interi, sempre con sincerità, che si trattasse di un tragico amore giovanile o di grandi uomini politici».
Per nessun altro questo fervore?
«Per Tomasi di Lampedusa. Non sono uno che crede negli idoli, eppure il principe è uno dei miei. E ritengo Il Gattopardo il più grande romanzo mai scritto. Ho l’originale in italiano e le traduzioni in spagnolo, inglese e francese. Sono stato a Palazzo Lanza Tomasi. Arrivando ho alzato lo sguardo verso il vicino Palazzo Trinacria, un altro dei luoghi della vicenda che ha segnato la mia vita. Ho rivisto la scena in cui Don Fabrizio esala l’ultimo respiro e… “il fragore del mare si placò del tutto”. Ho ripensato a mia madre e a quanto fosse elettrizzata quando ricevette la prima copia, nel 1959. Era un’edizione argentina. Lo leggevamo insieme, ogni volta che il principe era sul punto di morire, lei sospirava».
La sua «porta sull’Italia»?
«Insieme a Luchino Visconti e Dacia Maraini con Bagheria. Nel 1993 decisi di visitare la città, di cui già mi pareva di sapere tutto, ma non era più quella fotografata dal padre Folco».
Nato alle Canarie, padre ceco e mamma spagnola, cittadino del mondo e poliglotta, scrittori nella sua lingua?
«Le poesie e i romanzi di Reinaldo Arenas e Guillermo Cabrera Infante, una delle voci ispaniche più significative del XX secolo. Ho letto tutto d’un fiato i suoi libri, a cominciare da L’Avana per un infante defunto, uno dei miei preferiti insieme a Tre tigri tristi. Siamo entrambi figli di un’isola, lui Cuba, io La Palma. Il suo spagnolo è simile al mio, ma con un entusiasmante accento. Mappa disegnata da una spia ritrae l’inesorabile decadenza di un regime totalitario come nessuno ha fatto prima».
In comune avevate la passione per il grande schermo.
«Quando mi sono trasferito a Londra l’ho conosciuto per una intervista, uno dei migliori articoli scritti su di me e su mia sorella Evangelina, di cui gli sarò grato per sempre. Poi siamo diventati amici. Ci vedevamo a pranzo con sua moglie, l’attrice cubana Miriam Gomez, sempre lo stesso ristorante e lo stesso tavolo. Parlavamo quasi esclusivamente di cinema. Aveva fatto il critico, la sua cultura in materia era sterminata».
A sua sorella ha dedicatoGesti fugaci e ossessioni,quella per la lettura è una passione condivisa con lei?
«Ce l’ha trasmessa nostra madre. La fiaba della buonanotte era la biografia di Maria Antonietta di Stefan Zweig. Tutte le sere si fermava alla Conciergerie (a quel punto Evangelina si era addormentata, ma io volevo sentire ancora), quando la testa mozzata della principessa di Lamballe viene innalzata davanti alla finestra della torre dove è rinchiusa la regina. Non ho perso un libro o un film su di lei, ho visitato castelli e giardini: che gioia quando la costumista Milena Canonero mi chiesto di disegnare le scarpe per Marie Antoinette di Sofia Coppola. “Non essere accademico, pensa a cosa avrebbe voluto lei se fosse venuta a comprarle da te”, mi ha consigliato».
A proposito delle sue creazioni, da dove arrivano i tanti riferimenti al mondo antico?
«E’ un’attrazione che ho da sempre. Da adolescente vivevo immerso nei grandi testi classici greci e latini, dalle liriche di Catullo alle Satire di Giovenale, o in quegli enormi romanzi storici su Alessandro Magno di Mary Renault. Sono ossessionato dalle sculture di Fidia e Prassitele, da quei piedi perfetti che vanno oltre ogni possibile immaginazione».
Piedi perfetti per cui disegna modelli inconfondibili. «Prenda tutto, ma mi lasci le mie Manolo» diceva al ladro che la stava derubando Carrie, la protagonista di Sex and the City, serie tv che tanto ha reso omaggio alle sue creazioni. Lui non l’ha mai vista, ma di certo ne apprezzerebbe un’altra citazione: «Ci sono due cose di cui non ne hai mai abbastanza: buoni amici e buone scarpe». Oltre ai buoni libri.