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 2015  settembre 26 Sabato calendario

IO E IL MIO MONUMENTO

Beethoven e Mandela: la Nona accanto a Bread, Water and Salt, la nuova composizione, su testi di Nelson Mandela, di Luca Francesconi. Sabato 3 ottobre comincia la stagione dell’Accademia di Santa Cecilia; sul podio dell’Orchestra il «suo» direttore musicale Antonio Pappano, artefice di uno di quei concerti in cui mischia le carte e spariglia il mazzo con intrecci inediti (diretta su Rai5 e forse in Sudafrica); quasi un «format», inaugurato da Abbado, proseguito da Rattle e appunto da Pappano, che dirigerà tutte e nove le Sinfonie beethoveniane.
Francesconi si confronta col «monolito» di Beethoven, con un monumento (il suo monumento), con la sua Sinfonia «manifesto». Affronta le stesse domande, fratellanza e libertà, anche se con le risposte di oggi. Il pezzo, per orchestra, coro e soprano, e della durata di ventidue minuti, è costruito su parole del leader sudafricano scomparso due anni fa. Quelle del titolo, Bread, Water and Salt , sono le prime da lui pronunciate quando uscì di carcere, dopo ventisette anni.
Viene così da chiedere sunito a Francesconi: perché ha scritto la parte di voce solista (Pumeza Matshikiza) per una donna, trattandosi di Mandela? «Sarebbe diventato inevitabilmente il racconto di Mandela e non volevo fare niente di descrittivo. Lei impersona la dignità dell’essere umano». Dal punto di vista stilistico e linguistico, Beethoven è stato per Francesconi (ex direttore alla Biennale Musica, uno dei compositori italiani più eseguiti al mondo) un punto di riferimento. Ma lo dice oggi che ha 59 anni. «Ho studiato musica classica da quando ne avevo cinque. Pianoforte. Ma quando ero adolescente al Conservatorio di Milano, dissi ai miei che non volevo più andare. Le luci al neon, il linoleum per terra. Mi gettai su altre musiche, dottor Jekyll e mr Hyde, la notte mi trasformavo in un jazzista, era la musica che volevo fare. A 15 anni ascoltai la Sonata op.110 di Beethoven suonata da Maurizio Pollini, fu una rivelazione talmente profonda che mi sembrava che Pollini la stesse creando in quel momento». E fece pace con la musica classica. «Sì, ma ci fu un secondo step, osservando che Herbie Hancock stava scavando nella tradizione jazz. Che non è la mia, io sarei sempre stato un emulatore... Dovevo scavare nella mia tradizione».
Insomma, si rese conto che doveva attraversare tutti quei corridoi con i busti di Mozart, Verdi, Beethoven. Ma tornando al distacco dai padri, edipico e intellettuale, ci fu il tempo dei furori ideologici di Darmstadt, (non vissuto da Francesconi per motivi anagrafici), in cui Beethoven era sì un monumento, ma un monumento ingombrante di cui ci si sarebbe volentieri disfatti. In Beethoven si innerva l’idea del gigante, il titano... «Tutto fumo negli occhi per le vecchie avanguardie che cercavano di eliminare qualsiasi rimando alla superpotenza; concetto che, declinato in forma di delirio, aveva portato a una guerra con sessanta milioni di morti». Beethoven cosa rappresentava per un compositore? «Era la sintesi della centralità del pensiero occidentale, che nasce con l’Umanesimo; un atteggiamento analitico della realtà che sintetizza il contenuto in uno sviluppo dinamico, è la trasformazione della materia: parti da cellule minime e costruisci cattedrali. La Nona Sinfonia è un’architettura visionaria».
Che cosa ha in comune con Mandela? «È lontana dal punto di vista filosofico-esistenziale: per Mandela l’oppressore è un prigioniero come gli altri, prigioniero del pregiudizio, della sua piccolezza mentale, mentre il grido, o l’appello disperato di Beethoven è figlio della delusione politica da Napoleone in avanti. Un appello permeato di sogni di gloria un po’ enfatici, poi la musica è talmente incredibile che rende tutto credibile. Ma questi due uomini sono vicini nell’afflato ideale di libertà e fratellanza. Solo che l’afflato schilleriano di Beethoven è di matrice romantico-letteraria, Mandela invece è un poeta dell’azione, la sua poesia è la vita, non c’è niente di romantico in lui».
Le sue prime parole da uomo libero, «Pane, Acqua e Sale», riportano «alla sofferenza universale, al corpo e ai bisogni primari. Fino al giorno in cui il governo sudafricano cercò di eliminare la lingua xhosa di origine bantu. Ha consonanti speciali che fanno schiocchi molto diversi e ricreano suoni bellissimi. Il mio pezzo è in lingua xhosa».
Beethoven, per lei, è un rifugio o una montagna da scalare? «È una enorme risorsa, una fonte di ispirazione inesauribile». C’è un suo pezzo ispirato direttamente a Beethoven? «No. Però potrei anche dirti che lo sono tutti i miei pezzi».