Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 26/9/2015, 26 settembre 2015
LE PRIME TRACCE DELLA COMMEDIA
Può sembrare inverosimile che nel 2015, cioè a 750 anni dalla nascita di Dante, con diversi chilometri lineari di bibliografia critico-filologica disponibile, possano ancora emergere tasselli utili per conoscere meglio l’opera del nostro maggior poeta. Eppure è così, se è vero che il Centro Pio Rajna, dopo le celebrazioni ufficiali del maggio scorso, ha organizzato un mega convegno scientifico sull’Alighieri, che si terrà a Roma da lunedì a giovedì. Intanto, ecco una primizia, che ha il sapore di un evento storico-letterario, legata al nome di un notaio, poeta, poligrafo e artista che probabilmente Dante conosceva bene, suo coetaneo dalla vita quasi parallela: Francesco da Barberino. Al quale si devono due primati: fu lui il primo a menzionare la Commedia , a lavori in corso; fu lui il primo a illustrarla.
Andiamo con calma. Che la Commedia sia stata accolta con grande e precoce favore dal pubblico e dalla critica lo dimostrano diverse testimonianze. Ma il primo importante documento sulla circolazione dell’ Inferno si deve proprio a Francesco, che in una nota redatta tra la fine del 1313 e il marzo 1314 scrive: «Dante Alighieri in una sua opera che s’intitola Commedia e tratta, tra molte altre, di cose infernali, presenta Virgilio come proprio maestro», e prosegue precisando che a un lettore attento risulta chiaro come Dante sia maturato proprio studiando il poeta latino. È la prova che il poema dantesco, la cui elaborazione ha inizio tra il 1305 e il 1307, era già ultimato, forse già nelle prime due cantiche, riveduto e pubblicato. Queste osservazioni sono contenute nei Documenti d’Amore , un’opera allegorica composta da Francesco durante il suo esilio provenzale, una curiosa composizione mista di versi in volgare, una traduzione letterale in latino e un ampio commentario.
Di famiglia nobile, nato a Barberino, in Val d’Elsa, un anno prima di Dante, nel 1264, dal ghibellino Neri di Ranuccio, Francesco fu studente di arti liberali a Firenze e in seguito di diritto civile a Bologna, prima di diventare notaio episcopale sempre a Firenze, dove entrò in contatto con i circoli stilnovisti di Cavalcanti e Dante, ma anche con gli ambienti artistici di Cimabue e Giotto. Rimatore d’amore a sua volta e autore di novelle andate perdute, in quanto ghibellino nel 1304 dovette lasciare la sua città, come l’Alighieri, riparando in Veneto (come Dante), a Padova e a Treviso, poi, tra il 1309 e il 1313, ad Avignone viaggiando anche per il resto della Francia.
Fu, come Dante, fautore di Arrigo VII e come Dante fu autore di un’epistola latina all’imperatore, a differenza dell’Alighieri fece ritorno a Firenze attorno al 1317, dove riprese l’attività notarile. La sua lunga vita di funzionario e di consigliere politico fu troncata dalla peste nel 1348, quando Dante era già morto da quasi un trentennio. Molto ammirato da Boccaccio, che ne scrisse il solenne epitaffio sulla sepoltura in Santa Croce, Francesco da Barberino è noto, oltre che per i Documenti d’Amore , anche per un trattato di educazione femminile in versi sciolti, il Reggimento e costumi di donna , composto dopo l’esilio.
Va detto che il notaio toscano fu anche un notevole esecutore, ideatore e committente di illustrazioni di gran pregio per i propri libri: oggi si direbbe un art director . Basti ricordare che il manoscritto autografo dei Documenti è splendidamente arricchito di 27 miniature e di disegni di mano dell’autore che fanno del codice un oggetto di enorme valore artistico oltre che culturale. È lì che Francesco fa cenno di continuo a una sua operetta precedente, l’ Officiolum , un libro d’ore, le cui figure allegoriche erano servite da palinsesto di riferimento per la realizzazione dei Documenti . Da qui il disappunto degli studiosi per la scomparsa di quell’esemplare che, come scrisse nel 1902 lo storico Francesco Egidi, «doveva essere un vero gioiello di eleganza e che disgraziatamente è andato perduto».
Nel dicembre 2003 Christie’s mette all’asta un piccolo codice, di mm. 134 x 102, rilegato a mano in velluto rosso, che consta di 174 carte, 70 delle quali portano miniature di estrema raffinatezza, un oggetto grafico spettacolare in cui immagine e testi si integrano in perfetta armonia, grazie all’elegante apparato decorativo con figure variamente ornate, con i grandi capilettera in filigrane rosse o blu, e grazie all’ampio uso dell’oro in lamina (alcune pagine finali sono addirittura interamente scritte in oro brunito).
La sorpresa è che si trattava proprio dell’ Officiolum che Francesco da Barberino compose tra il 1304 e il 1309 a Padova: la datazione, ricavabile dalle autocitazioni dello stesso autore nei Documenti , lo rende prezioso come primo esempio italiano del genere dei libri d’ore. Quel codice dal formato ridotto contiene, oltre alle tradizionali preghiere della giornata, un trattato allegorico sulla Speranza, che si rivela un’opera originale e sconosciuta di Francesco. Ma soprattutto testimonia la fortuna del poema dell’Alighieri mentre l’opera era ancora in corso di scrittura. Sono due le immagini che sembrano evocare con precisione passi danteschi, proponendosi dunque come le prime illustrazioni ispirate alla Commedia : in ambedue vi si rappresentano spazi circolari a fasce concentriche secondo le architetture dantesche del mondo dei dannati, con i gironi che vi si succedono.
Nel foglio 69, che una postilla a margine definisce «limbus», il Limbo appare con una scura cerchia di figure malinconiche e austere che richiamano gli «spiriti magni» del «nobile castello» di Inferno IV: «Genti v’eran con occhi tardi e gravi,/ di grande autorità ne’ lor sembianti» (vv. 112-113); a ciò si aggiunge che, come in Dante, queste figure sono riunite intorno a un fuoco centrale che evoca «il foco/ ch’emisperio di tenebre vincìa» (vv. 68-69).
La seconda scena infernale, nel foglio 156, si articola in tre fasce circolari forse attorno a una testa bestiale che sputa fiamme, in cui diverse anime, «lasse e nude» (come in Inferno IV, 100), vengono torturate da vari diavoli e presenze mostruose, draghi, serpenti e lingue di fuoco. Si potrebbe anche arrivare a identificare, al centro in alto, una donna e un uomo avvinti come Paolo e Francesca, che «’nsieme vanno,/ e paion sì al vento esser leggeri» ( Inferno V, vv. 74-75), portati dalla «bufera infernal che mai non resta» (31).
Sono equivalenze, cui si aggiungono contemporanee e convergenti suggestioni giottesche. In attesa che i filologi si occupino con dovuta acribia delle eventuali analogie, il tutto viene illustrato ora dalla nota di presentazione, approntata da Enrico Malato, che sarà distribuita in occasione del convegno romano. Dove si annuncerà, tra l’altro, che a fine ottobre il Centro Pio Rajna pubblicherà, nell’Edizione nazionale dei commenti danteschi figurati, il facsimile dell’ Officiolum a dodici anni dalla sua ricomparsa. Nel 2003 il «gioiello» trovò, per 935 mila euro (più i diritti d’asta del 12,5%), un ignoto acquirente che ora viene alla luce: si tratta del giurista e avvocato milanese Guido Rossi, che ha autorizzato la riproduzione come suo contributo alle celebrazioni dantesche del 2015.
Tornando al rapporto tra Francesco e Dante: non deve meravigliare che i due, proprio in quegli anni, avessero occasioni di incontro e di frequentazione, visto che condividevano l’esilio negli stessi luoghi, dove l’Alighieri circolava per le corti del Nord prima di stabilirsi a Verona e poi a Ravenna. Va aggiunto che a Padova Francesco, probabilmente accolto nello Studio della città, ebbe certamente occasione di avvicinare Giotto, impegnato ad affrescare la Cappella degli Scrovegni (1303-1306), subendone il fascino: starà agli studiosi, una volta reso disponibile il facsimile dell’ Officiolum , riconoscere i debiti, le influenze, le reali trame dei rapporti figurativi.