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 2015  settembre 26 Sabato calendario

IL SEGNALE CHE MANCA SUI CONTI

Abbiamo studiato (in alcuni lavori scritti con il nostro collega Carlo Favero) le leggi di bilancio dei maggiori Paesi industriali negli ultimi trent’anni. L’Italia salta all’occhio per la scarsa persistenza delle correzioni attuate ai nostri conti pubblici. Ovvero, le misure avviate con una legge di Stabilità vengono spesso abbandonate, se non addirittura capovolte da quelle successive. Non è cosi in altri Paesi. All’estremo opposto troviamo il Canada, un Paese in cui le correzioni ai conti pubblici si protraggono a lungo nel tempo. All’inizio degli anni 90, ad esempio, il Canada avviò un percorso di riduzione della spesa pubblica durato ininterrottamente per sette anni, sotto due diversi governi: i conservatori prima — che dopo aver annunciato il programma di tagli, facendone il perno della loro piattaforma elettorale, vinsero le elezioni — e in seguito i liberali che continuarono con le medesime politiche. In quegli anni, nonostante i tagli alla spesa, l’economia continuò a crescere e il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo (Pil) scese dal 70 a meno del 50 per cento.
Lo «stile» delle leggi di Stabilità italiane è molto diverso. E ciò non solo per effetto dei numerosi condoni, che sono per loro natura correzioni temporanee dei conti pubblici. Lo stesso è accaduto nella prima parte del decennio scorso, dopo lo sforzo per soddisfare i parametri di Maastricht ed entrare nell’Unione monetaria .


Nel 2000 avevamo, al netto degli interessi, un avanzo (entrate meno uscite senza tenere conto degli interessi sul debito) pari al 5,5% del Pil. Nel 2006 quell’avanzo primario era sostanzialmente scomparso (si era ridotto allo 0,3%) soprattutto per effetto dell’aumento della spesa pubblica. Queste politiche di stop and go creano confusione e incertezza, il contrario di ciò che serve per indurre le imprese a investire e le famiglie a consumare (si pensi all’effetto dei successivi cambiamenti di direzione nella tassazione delle case). Non solo. Senza un piano articolato su un orizzonte pluriennale, credibile e poi realizzato puntualmente, si finisce per decidere all’ultimo momento, spesso incalzati da un’elezione alle porte o dall’emergenza economica. Così si prendono le decisioni più facili: si aumentano le tasse invece che tagliare la spesa. Accadde al governo Monti nell’affanno dell’emergenza. Poi, non appena la crisi finisce, si ritorna subito alla normalità, fatta di spesa rilassata e misure populiste, come l’abolizione della tassa sulla prima casa, dettate più da giochi di strategia politica che da sane regole di finanza pubblica.
La legge di Stabilità che il governo si appresta a varare deve dare un segno profondamente diverso. Serve un piano pluriennale di riduzione della pressione fiscale accompagnato da un programma pluriennale e dettagliato di tagli alla spesa che riporti al pareggio di bilancio. Nulla di male se nel frattempo il deficit un po’ cresce, purché la maggior flessibilità venga usata per ridurre le tasse sul lavoro, e quindi aiutare crescita e occupazione, non per abolire le tasse sulla casa i cui effetti su crescita e occupazione sono tutti da dimostrare.
Vi sono due modi per ridurre le imposte alla maggioranza dei cittadini. Il primo, consiste nel tagliare le spese. L’alternativa è l’eliminazione delle agevolazioni fiscali e la loro sostituzione con aliquote più basse per tutti.
Le agevolazioni fiscali sono sgravi di imposte per questo o quel settore, questa o quell’azienda, questa o quella comunità. Si tratta di misure, quasi sempre dovute più a favori politici che a necessità economiche e che favoriscono alcuni a scapito di altri. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto di merci e passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Ma affinché l’eliminazione di queste e tante altre agevolazioni (quattro anni fa il gruppo di lavoro presieduto da Vieri Ceriani ne individuò 720) non si traduca in un aumento della pressione fiscale, un simile provvedimento deve essere accompagnato da un’equivalente taglio alle aliquote per tutti i cittadini. Il governo sembrava avviato su questa strada, ma ancora una volta pare prevalga il rinvio.