varie 28/9/2015, 28 settembre 2015
ARTICOLI SULLA MORTE DI PIETRO INGRAO DAI GIORNALI DI LUNEDI’ 28 SETTEMBRE 2015
RICCARDO BARENGHI, LA STAMPA –
È morto nel sonno, ieri pomeriggio verso le quattro e mezzo, nella sua casa del quartiere Italia, a Roma. Pietro Ingrao aveva compiuto 100 anni il 30 marzo. Ieri mattina ha avuto ancora la forza di fare colazione, ma da diversi mesi la sua vita scorreva in una sorta di letargo.
Le figlie e il figlio Guido (nome da partigiano di Pietro) si sono precipitati nell’appartamento del padre, e così gli innumerevoli nipoti e bisnipoti. Telefonate, messaggi, parenti, amici, leader politici, compagni di partito e di politica. E le istituzioni, a cominciare dalla presidente della Camera Laura Boldrini: si tratta anche di organizzare i funerali, l’ultimo saluto a uno storico dirigente del Pci e della sinistra comunista, nonché a sua volta presidente dell’assemblea di Montecitorio dal 1976 al 1979.
Tribuna dalla quale seguì minuto per minuto il drammatico rapimento di Aldo Moro sfociato nel suo assassinio.
Un’ora dopo la morte, Ingrao è steso sul letto: dimagrito ma non trasfigurato, nessuna malattia l’aveva colpito. Ha potuto lasciare la vita così, senza accorgersene.
Errori e orrori
Quasi cent’anni prima, quando era un bambino, Ingrao una sera d’estate aveva rifiutato di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Alla fine il padre gli promette un regalo. Pietro accetta, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia». L’episodio è una metafora della sua vita: la luna era la rivoluzione, il comunismo. O meglio un mondo che, attraverso il comunismo, sarebbe diventato più giusto, migliore.
Quel mondo non è mai arrivato, il comunismo è fallito, lo stesso Ingrao ne ha visti e denunciati gli errori e gli orrori (non sempre nel tempo giusto, come lui stesso ammetterà), la luna è rimasta lì dove è sempre stata. E adesso anche lui esce di scena dopo aver raggiunto il secolo di vita.
Un secolo, appunto, quel Novecento che, come lui stesso ha detto e scritto tante volte, è stato il periodo che ha visto i cambiamenti, i terremoti sociali e politici più importanti della storia. Dalla Rivoluzione russa al fascismo, dal nazismo alla Resistenza, dai lunghi anni di scontro con la Dc al crollo del Muro di Berlino e alla morte del Pci, fino alle guerre moderne, cominciate con quella del Golfo nel ‘91 e non ancora finite. Una lotta dopo l’altra, col partito ma anche dentro al partito. Lotte dure, difficili da vincere, e infatti lui nelle tante interviste o conversazioni fatte nel corso del tempo ha sempre enfatizzato con amarezza il risultato ottenuto: «C’è poco da fare, siamo stati sconfitti. È inutile nascondersi la realtà, per quando dura e difficile possa essere». E c’è un’altra metafora che sintetizza perfettamente il concetto, una sua poesia di poche parole: «Pensammo una torre / Scavammo nella polvere».
Tuttavia Ingrao la sua vita non l’avrebbe voluta indietro come la pipì. Se avesse potuto tornare indietro, avrebbe rifatto quello che ha fatto, quella «scelta di vita» - come la chiamò il suo compagno-avversario Amendola - Ingrao non l’ha mai messa in discussione, non si è mai pentito di essere stato comunista. Orgoglioso, a volte entusiasta di questa sua militanza così lunga e profonda. Ma spesso critico, autocritico, perfino sofferente di fronte ai grandi e drammatici fatti che hanno segnato la storia della sua «fede».
Cinema e poesia
Una storia talmente lunga e ricca che è difficile anche cominciarla. Negli anni Trenta era appassionato di cinema e di poesia, la politica non la considerava la sua missione. La scossa è arrivata con la guerra di Spagna, è a quel punto che Ingrao si schiera e parte per la sua avventura comunista. Seguirà la Resistenza, la clandestinità, la Liberazione, la direzione dell’Unità, il rapporto strettissimo ma anche conflittuale con Palmiro Togliatti, il suo famoso editoriale intitolato «Da una parte della barricata» in cui appoggiava l’invasione sovietica dell’Ungheria, editoriale di cui non ha mai smesso di pentirsi. E qui va ricordato un altro episodio: dopo aver scritto quell’articolo, rispettando la disciplina di partito, Ingrao andò a trovare proprio il leader del Pci per comunicargli il suo sgomento per quell’invasione. Togliatti gli rispose secco: «Oggi io ho bevuto un bicchiere di vino in più». Non voleva dire che aveva brindato ai carri armati, probabilmente, ma l’interpretazione autentica di quel bicchiere nessuno l’ha mai saputa dare.
Ed è dopo la morte di Togliatti che comincia la storia di Ingrao leader della minoranza del partito. La sua battaglia per la democrazia interna, la critica al comunismo reale, quello sovietico, sfociano nel congresso del 1966, l’XI, dove Ingrao e i suoi (quelli che qualche anno dopo fecero nascere il Manifesto e per questo furono radiati dal Pci con il voto favorevole del loro stesso maestro: altro episodio di cui Ingrao si è sempre autocriticato ferocemente) vennero duramente sconfitti: «Cari compagni, mentirei se vi dicessi che mi avete convinto», pronunciò dalla tribuna.
Una frase storica perché metteva in piazza, per la prima volta nella storia del Pci, il dissenso. Viene applaudito a lungo, una standing ovation si direbbe oggi, ma è un omaggio che non cambia i rapporti di forza. Vincono Longo, Amendola, Pajetta, Alicata, Napolitano col quale seguirono parecchi scontri politici. Qualche anno dopo saranno loro a eleggere Enrico Berlinguer segretario del Pci. I due, Berlinguer e Ingrao, avranno sempre un rapporto leale, ma difficilmente riusciranno a trovare punti profondi di convergenza politica.
La scoperta di Internet
Il resto è storia recente, lo strappo di Occhetto, l’opposizione del vecchio leader della sinistra (che all’epoca aveva «solo» 75 anni), la sua uscita solitaria dal Pds, la sempre più accentuata ritrosia a occuparsi della politica politicante (negli anni Ottanta si era appassionato dei video musicali, la sua curiosità per le novità era notevole, tanto che ultimamente aveva addirittura aperto un sito Internet).
Pensava molto alla guerra come paradigma del mondo moderno. Era nato durante la Grande guerra, aveva vissuto da giovane la «terribile» Seconda guerra mondiale, aveva combattuto per il Vietnam, si era schierato contro tutte le guerre «americane» degli ultimi venticinque anni. È morto senza riuscire a trovare la pace, e nemmeno la luna.
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UMBERTO GENTILONI, LA STAMPA –
Era nato l’anno dell’ingresso dell’Italia nella Grande guerra, nel 1915, a Lenola in provincia di Latina; si definiva «un ragazzo introverso, un po’ lunatico, spesso emotivo». Negli Anni Trenta i primi spostamenti: Formia per il liceo e Roma per l’università. Legge i classici della letteratura, ma la sua passione più autentica va alla poesia di Leopardi, Ungaretti e Montale. S’iscrive ai Gruppi Universitari Fascisti fino alla svolta con la guerra di Spagna. Alla fine degli Anni Trenta entra nel gruppo romano degli antifascisti mettendo da parte le passioni letterarie e cinematografiche: «con i comunisti e dai comunisti ho imparato a cospirare contro il fascismo».
Il 25 luglio, alla caduta del regime, è a Milano, partecipa alla prima manifestazione della sua lunga militanza politica: «Fu per me la sensazione fisica che la gente diventava attiva. Non eravamo più un’isola disperata in un mare chiuso. Eravamo ormai parte di un movimento di popolo: bene o male, quello che è stato poi il corso della mia vita, con le sue luci e le sue ombre». Scrive queste riflessioni quando la parabola del comunismo è giunta al capolinea, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso.
Ingrao attraversa la storia del Pci con un disegno spesso abbozzato e difficile, controverso, da lui stesso descritto come un itinerario di cose impossibili, eppure un tratto costitutivo e duraturo della sinistra italiana o comunque di una sua parte. Un politico del Partito comunista, un leader della seconda generazione, quella successiva a Togliatti. Nel 1956, di fronte all’invasione ungherese, sta con i sovietici, firma un celebre editoriale dal titolo: «Da una parte della barricata». Anni dopo lo definirà «un errore imperdonabile». Negli anni Sessanta inizia a prendere le distanze, fino alla condanna della repressione contro la primavera di Praga nel 1968. Un lungo cammino che giunge fino alla presidenza della Camera dei deputati nello scorcio drammatico della fine degli Anni 70, durante il sequestro Moro: politico, dirigente comunista e figura istituzionale.
I suoi pensieri sono quelli «di un uomo di frontiera, comunista testardo ma sempre pieno di curiosità verso gli altri». Ha coltivato una lunga alterità alle forme del capitalismo del lungo dopoguerra; attratto dai movimenti: giovani, studenti e da ultimo i nuovi temi della pace e dell’ecologia come critiche al modello di sviluppo. La sua ultima battaglia in difesa di un’identità minacciata e travolta dagli eventi dell’89: si batte contro la svolta di Occhetto e fino al 1992 rimane nella sinistra del Pds. Da allora fino a ieri lontano dai luoghi della politica, immerso nei dubbi di una lunga militanza. Così si apre il suo sito Internet, «mezzo non consueto per chi è nato nel 1915. Sono un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio: quel Novecento che ha prodotto gli orrori della bomba atomica e dello sterminio di massa, ma anche le speranze e le lotte di liberazione di milioni di esseri umani».
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MARIO CALABRESI, LA STAMPA –
«Sono scosso emotivamente da un evento che, anche se non si può definire inatteso, per me resta molto doloroso». Dieci anni di età dividevano Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano, insieme a molte battaglie politiche su fronti opposti, ma quando il Presidente emerito della Repubblica riceve la notizia della morte dello storico esponente comunista nella sua voce si sente la sofferenza per la scomparsa di quello che a lungo è stato un suo compagno di partito.
Ricorda il vostro primo incontro?
«Io e Pietro Ingrao ci siamo conosciuti nel luglio del 1948 al Policlinico di Roma dopo l’attentato a Togliatti. Il leader del Pci era uscito dalla sala operatoria e c’era un pellegrinaggio in ospedale, quello fu il momento in cui ci incontrammo per la prima volta. Il nostro rapporto si intensificò quando cominciai a occuparmi del Mezzogiorno: la questione meridionale era uno dei temi che aveva più a cuore e proprio su questa cominciammo a discutere e a confrontarci».
Prima di parlare delle storiche divisioni politiche tra voi, le chiedo: cosa più vi accomunava?
«Potrei dire la biografia. Certo tra noi c’erano dieci anni di differenza, però era molto simile il cammino fatto da giovanissimi, che non si nutriva di politica ma di cultura: soprattutto di cinema per lui e di teatro per me, e poi la poesia. I poeti che lui citava erano gli stessi che amavo leggere io, in modo particolare Montale, Ungaretti e Quasimodo. Abbiamo avuto le stesse letture e le stesse passioni che poi abbiamo dovuto lasciare alle spalle per gettarci nelle contese della politica».
Il momento di maggior divisione?
«La più aspra polemica tra noi fu alla vigilia dell’XI congresso del Pci nel 1966, due anni dopo la morte di Togliatti. La scomparsa di un leader che aveva garantito una guida unitaria aprì una stagione nuova in cui emersero posizioni apertamente conflittuali». Napolitano si ferma all’improvviso e resta in silenzio per alcuni secondi: «Mi fa impressione pensare che sono passati quasi cinquant’anni da quel momento, mezzo secolo ci divide da quella stagione di scontro e oggi mi fa piacere ricordare che l’amicizia tra noi non è mai venuta meno, non è mai stata scossa dalle divergenze, e comunque non ci fu mai più virulenza politica paragonabile alla stagione del dopo Togliatti».
Qual è il suo giudizio sulla vita politica di Ingrao?
«È un giudizio che va dato su un’intera generazione non solo di comunisti ma di politici che avevano un forte retroterra ideale e intellettuale, che arricchivano di continuo la loro conoscenza politica con l’elaborazione culturale. Ingrao è stato un uomo di assoluta limpidezza morale, non ha mai combattuto battaglie per interessi o ambizione personale».
Nessuna critica?
«Ci furono momenti in cui manifestò una certa tendenza schematica nell’analisi e nelle conclusioni, gli imputavo di non avere sufficiente duttilità, ma sono cose su cui non si può tornare con slogan passati».
E che ricordo ne ha come presidente della Camera, incarico che ricoprì dal 1976 al ’79?
«Fu assolutamente impeccabile, compreso nel suo ruolo e nella responsabilità che aveva assunto, un vero uomo delle Istituzioni. Dimostrò di avere grande polso e quando ci furono il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro tenne una linea di condotta esemplare. Quando poi toccò a me occupare lo stesso posto a Montecitorio ebbi da lui un magnifico ed esemplare sostegno».
Che idea aveva delle istituzioni?
«Fu sempre un forte fautore di un rinnovamento istituzionale e fu un fermo e convinto sostenitore del monocameralismo, anche durante la preparazione dei lavori per la commissione Bozzi spinse il Pci ad avere l’idea di una sola Camera come posizione di principio e di partenza».
La sua opposizione alla svolta di Occhetto che peso ebbe nella scissione che portò alla nascita di Rifondazione?
«Non penso che lo si possa considerare tra i promotori di Rifondazione comunista, Ingrao certo non si sentì di avallare il superamento del Pci, e questo fu anche un suo limite, ma non era uomo da scissioni, anche se poi in solitaria uscì dal Pds per aderire a Rifondazione».
Quando vi siete visti l’ultima volta?
«L’ultima volta che ci siamo incontrati di persona fu certamente a Montecitorio, mentre l’ultimo messaggio che ho ricevuto da lui me lo ha portato sua figlia Chiara dopo che nel marzo scorso gli mandai un telegramma per festeggiare i suoi 100 anni, era lucido e mi ringraziava con affetto».
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FILIPPO CECCARELLI, LA REPUBBLICA –
«E ora lente/ si riempiono, si nutrono/ della pioggia,/ figlie della solitudine:/ assenti al mondo,/ mutilate spoglie/ fuggite al loro tempo». Così comincia una poesia che Pietro Ingrao ha intitolato Statue, e anche per questo si ha qualche remora a fargli un monumento annaffiando questo straordinario personaggio di retorica e solennità.
Dodici anni orsono, d’altra parte, alla bella età di 88, in mancanza di taxi Ingrao salì per la prima volta in motorino e si fece condurre per tempo a Montecitorio, dove l’ex presidente della Camera, che pure avrebbe diritto a una macchina con autista, doveva presentare un libro. A 89 anni, vinta ogni residua diffidenza per la “lingua dell’impero”, riscoprì i Beatles.
Un giorno, con lieto scandalo, confidò che rimpiangeva Scelba. E dire che nel 1960 a Porta San Paolo la Celere, altrimenti detta “la Scelbere”, gli aveva spaccato la testa a manganellate, ma l’indomani era già di nuovo in piazza bendato come una mummia. Quando ai tempi del Vietnam arrestarono sua figlia, all’autorità di Ps che gliene dava comunicazione ruggì: “Buon sangue non mente!”.
Che personaggio! Nei penultimi anni della sua vita centenaria, quando con ambigua formula si può dire che era ormai fuori dalla politica attiva, in realtà seguitò più di tanti a farla scrivendo del mare celeste di Sperlonga, ispirandosi alla quotidianità della sua colf filippina, immedesimandosi nel Bobo di Staino, girando per eremi e chiese a parlare di Gesù; e una volta, senza malizia, fece intendere di preferire a D’Alema la tabaccaia tettona di Amarcord, per la quale compose un delizioso epicedio.
Ma la sua vera e grande virtù è che egli fece tutto questo e molto altro ancora senza mai perderne in dignità. Sembra impossibile al giorno d’oggi, ma in Pietro Ingrao il candore coincideva con l’autenticità. Ed è questo in fondo che lo fa unico e grande; e per questo si ha qualche ritegno a bloccarlo su uno o sull’altro dei suoi cliché: l’Amleto Comunista lucido e dubbioso; il Ragionatore Instancabile che rafforzava i concetti con la mano a pigna, “c’è un punto” mormorava, “un punto...”; oppure il Patriarca di Lenola, nipote di un garibaldino di ruvida scorza contadina; o magari l’Eretico, l’Eterno Perdente, quando perdere non era senza conseguenze.
Figura politica d’altri tempi. Onestà assoluta. Mai un lamento. Ostinazione senza rigidità. Ingrao perseguì l’utopia dell’ideale, ma prima di tanti dovette riconoscere negli sguardi dei “compagni” lo sfinimento di una politica povera e debole. Come pure la coscienza che il linguaggio non aveva più «la capacità di definire le cose che ci stanno intorno». Eppure ancora oggi suscita ammirazione per quel suo comunismo a tal punto privo di burocratismi e ottusità da apparire quasi libertario. Del destino di quel nome — “comunismo” — Ingrao parlò in modo emozionante nel comitato centrale sulla svolta di Occhetto, nel novembre 1989: «Non un lamento di reduci, ma un grumo di vissuto».
Così forse alla fine è la sua esistenza a evocare qualcosa che supera il suo stesso tempo e assomiglia molto alla poesia, in senso alto, profetico. E viene in mente l’Ingrao che provava «non so se una stretta o uno stupore» dinanzi alla guerra, «quella sfilata di flotte in tv, quelle sagome scure sfreccianti in cielo». Oppure l’Ingrao che prima di ogni altro vide, più che la scissione, la “dissoluzione” del suo vecchio partito; e che mentre tutto veniva giù, «sapete, compagni — gli disse — mi sarebbe piaciuto andare in convento, ma invece ho scelto di rimanere nella metropoli, dove siamo tanti, di tanti luoghi e di tanti colori, e la libertà si costruisce qui dentro».
Poeta d’altra parte lo fu sul serio. Vinse i Littoriali nel 1934 con dei versi sulla bonifica delle paludi pontine. Ha continuato a scriverne fino a vent’anni fa, ma rifiutò il premio di Ciarrapico qualche centinaio di milioni. Ebbe serie sbandate in politica internazionale, Mao, Castro, perfino Khomeini, eppure nessuno ha mai potuto accusarlo di stalinismo.
Certo a volte l’entusiasmo del poeta era travolto dalla complicazione del teorico, e allora, per dire: «La mediazione prismatica che frantuma il rapporto col reale in un seguito di rifrazioni susseguentesi circolarmente senza cogliere mai un centro», frasi da inserto satirico dell’ Unità , e infatti, per quanto autentica, questa la si è presa da lì. Twitter era lontano, ma l’ingraismo, si scherzava, «ha i ragni in testa». Eppure il cuore popolare del Pci, dai fonditori lombardi ai gasisti bolognesi, dagli edili della capitale ai braccianti delle Calabrie, ha sempre adorato il vecchio Pietro; così come non c’è avversario, da Almirante a Berlusconi passando per Dossetti, Moro, Fanfani e De Mita, che gli abbia mancato di rispetto.
La sua biografia rimane come minimo ammirevole. Era entrato nella “cospirazione”, come diceva lui, molto giovane, a Roma, in contatto col gruppo di Amendola, Lombardo Radice, Giolitti, Bufalini, Natoli, Alicata, Trombadori. Tessera del Pci nel 1940. Organizzazione clandestina in Calabria, ricercato nei boschi della Sila. Giornalista, nel 1943 a Milano, primo comizio a Porta Venezia con un microfono rubato da Elio Vittorini. Prima caporedattore e poi per dieci anni direttore dell’ Unità . Quindi protagonista, insieme con Amendola, del rinnovamento del Pci a spese della vecchia guardia. Di lì in poi punto di riferimento della sinistra del partito, sia pure all’interno di una dinamica governata da Togliatti.
È dopo la morte del Migliore che nacquero i primi sospetti di eresia e frazionismo. Sono dispute oggi abbastanza incomprensibili che investono teoria e pratica, diritto al dissenso e giudizio sul centrosinistra. Ma soprattutto l’accusa è che ci fossero gli ingraiani: Reichlin, Rossanda, Pintor, Trentin, il giovane Bassolino, Occhetto e l’intera Fgci, già messa sotto tutela. La resa dei conti all’XI congresso (1966). La destra di Amendola e Alicata ebbe la meglio, donde la diaspora dei seguaci. Ormai sconfitto, resta celebre l’esordio del suo discorso al congresso: «Non sarei sincero, compagni, se dicessi che sono rimasto persuaso». Breve periodo di solitudine e poi la presidenza del gruppo alla Camera, brillante intesa con il suo collega Andreotti. Al culmine dei trionfi di Berlinguer, nel 1976 Ingrao fu il primo comunista a ottenere un posto di rilievo nelle istituzioni. Stimato e imparziale, il nuovo presidente della Camera teorizzò quella “centralità del Parlamento” che si configura come il suo apporto al nuovo clima e alla linea del compromesso storico.
Alla fine della solidarietà nazionale senza polemiche rifiutò di continuare, ponendosi al crocevia fra dissenso e impegno, esilio e studio. Nel 1980 il ritorno in segreteria al fianco del Berlinguer della “diversità”. In realtà, da allora è difficile collocare Ingrao nella movimentata geometria del Pci di Natta e poi di Occhetto, cui prima concede e poi ritira la fiducia dopo la Bolognina e il cambio di nome. Con qualche approssimazione si può dire che riuscì tuttavia a rimanere sopra la nascita del Pds, le peripezie di Rifondazione, per rincorrere quel che di nuovo andava affermandosi. La nebulosa del sociale, la costellazione della democrazia, la lotta delle donne, il pacifismo, l’ecologia, la necessità di antidoti al formarsi di «conglomerati oligarchici a base finanziaria proiettati nel campo del sapere». Straordinaria figura di giovane-vecchio e vecchio-giovane alla ricerca di una cultura all’altezza dei tempi. Ma senza mai rinunciare a quella grazia inconfondibile di umanità che ancora si disvela in una delle sue ultime poesie, L’alta febbre del fare , che dice: «Per gli incolori/ che non hanno canto/ neppure il grido,/ per chi solo transita/ senza nemmeno raccontare il suo respiro,/ per i dispersi nelle tane, nei meandri/ dove non c’è segno, né nido,/ per gli oscurati dal sole altrui,/ per la polvere/ di cui non si può mai dire la storia,/ per i non nati mai/ perché non furono riconosciuti,/ per gli inni che nessuno canta/ essendo solo desiderio spento,/ per le grandi solitudini che si affollano/ i sentieri persi/ gli occhi chiusi/ i reclusi nelle carceri d’ombra/ per gli innominati,/ i semplici deserti:/ fiume senza bandiere senza sponde/ eppure eterno fiume dell’esistere”. Eppure. E bisognava ascoltarlo mentre la leggeva lui, con quella faccia, con quella voce.
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GUIDO CRAINZ, LA REPUBBLICA –
È stato un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.
Dagli anni giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.
Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.
La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.
Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.
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PAOLO FRANCHI, CORRIERE DELLA SERA –
Se ne è andato a cent’anni un pezzo, e che pezzo, non solo della storia del Pci e della sinistra, ma anche e soprattutto, se l’espressione nell’Italia dei novissimi ha ancora un senso, della storia repubblicana. Perché Pietro Ingrao, nato nel 1915, nel Novecento italiano, e pure nel primo scorcio del Terzo Millennio, si è tuffato, o si è sentito buttato dentro, nel 1936, con la guerra di Spagna.
Poi Pietro Ingrao ha nuotato senza risparmio di sé finché ha avuto un minimo di energie per farlo. Nel Pci, finché c’è stato il Pci. Ma, prima e dopo, guardando oltre i confini del suo partito. Ai movimenti, sì, senza lasciarsi rinchiudere, se non da compagni e avversari avvezzi all’uso e all’abuso della banalità come strumento di lotta e di aggressione politica, nel movimentismo. Ma pure, eccome, alle istituzioni, allo Stato, a interlocutori molto lontani da lui, che a torto o a ragione gli sembravano interessati a tessere le fila di un discorso di cambiamento e di riforma. La cosa potrà sembrare strana o insensata a giovani politici di successo che si fanno un vanto di non avere passato e di non coltivare memoria. E però nel 1969 — lo stesso anno dell’autunno caldo che visse come un inveramento forse insperato delle sue posizioni sconfitte all’undicesimo congresso del Pci, lo stesso anno in cui i suoi compagni più cari, quelli del «manifesto», venivano radiati dal partito — fu lui, Ingrao, il primo interlocutore di Ciriaco De Mita non sul compromesso storico, che non convinse mai nessuno dei due, ma sulle riforme istituzionali che avrebbero potuto sbloccare la democrazia italiana. Più tardi, lasciata nel 1979, la presidenza della Camera, fu ancora lui ad avviare, con il Centro per la riforma dello Stato, il primo confronto di merito con le socialdemocrazie europee in tempi in cui, per i comunisti, socialdemocrazia era una parolaccia. E nella seconda metà degli anni Ottanta fu sempre lui il più radicale fautore del monocameralismo.
Tutto questo solo per ricordare che stiamo parlando di una personalità complessa, molto più complessa, del cliché dell’acchiappanuvole consegnatoci da tanti suoi ex compagni del vecchio gruppo dirigente comunista. Ingrao fu amato, amatissimo, dalla sua gente: il che, tocca dire, capita raramente agli intellettuali inclini all’astrattezza. Indimenticabile, per chi la ha vissuta, resta l’ovazione che gli riservò, correva l’anno 1966, la platea dell’undicesimo congresso del Pci, quello della sua sconfitta e del suo isolamento, mentre la presidenza dei vincitori lo guardava gelida: chissà quanto e come sarebbe cambiata la storia italiana, non solo quella del Pci e della sinistra, se il diritto a non essere d’accordo rivendicato da Ingrao non fosse stato liquidato come la più inammissibile delle eresie .
Ma tornano pure alla mente le parole con cui Ettore Scola spiegò perché volle collocare una scena chiave del suo film «Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca» all’interno di un comizio di Ingrao a piazza San Giovanni. Perché, disse, tra i dirigenti comunisti lo sentivo il più vicino al dramma della povera gente: probabilmente oggi molti salirebbero in cattedra a spiegarci che si trattava, né più né meno, di populismo, dimenticando, o fingendo di dimenticare, che una sinistra senza popolo semplicemente non esiste.
Forse questo ha qualcosa, o molto, da spartire, con l’espressione, all’apparenza ermetica, cui Ingrao fece ricorso per spiegare, sul finire del 1989, la sua opposizione alla svolta di Achille Occhetto. Che, secondo lui, non solo cancellava un orizzonte ideale senza il quale il partito, comunque denominato, avrebbe perso la sua stessa ragion d’essere, ma tagliava seccamente un «grumo di vissuto», una storia collettiva fatta anche di un’infinità di microstorie: liquidava cioè quella capacità di stabilire un nesso tra passato, presente e futuro senza il quale (Matteo Renzi andava ancora a scuola) l’agire politico si snoda istante dopo istante, annuncio dopo annuncio, improvvisazione dopo improvvisazione. Forse sbagliava Ingrao, e così radicalmente da ritrovarsi per un tratto alleato, proprio lui, di quelle componenti più conservatrici del Pci che per una vita lo avevano contrastato, considerandolo una specie di matto in casa. Ma la sua preoccupazione, come dimostrano le tristi sorti del postcomunismo italiano, e più in generale quelle della Seconda Repubblica, non era infondata, e in ogni caso non era spiegabile solo come un rigurgito di passatismo.
Si ritrasse, allora, Ingrao, dalla milizia politica quotidiana. Non dalla politica, però, dentro il cui gorgo stava da più di cinquant’anni, e che continuava a rappresentare il fulcro della sua esistenza, anche quando poetava — ed è stato un poeta vero, non un dilettante della domenica — o si occupava di cinema, l’altra grande passione (memorabili le pagine su Charlie Chaplin, e non solo) della sua vita. Continuò a provare quella capacità di indignarsi senza la quale, pensava, l’impegno politico non ha senso, ma non diventò mai un indignato in servizio permanente effettivo: «Indignarsi non basta». Riguardò molto criticamente il passato. Ma restò comunista, come può esserlo un eterno sconfitto che, per provarsi a cogliere il senso di una storia e di una vita, ha scritto, in una delle sue poesie più dolenti: «Pensammo una torre/ scavammo nella polvere». Forse è anche per questo che tante generazioni di giovani, non solo nel Pci, gli hanno voluto bene, o almeno lo hanno rispettato e lo rispettano, sul serio. Di sicuro è anche per questo che a molti giovani di tanti anni fa, che diventando adulti e poi anziani hanno seguito percorsi così diversi dal suo, il centenario Ingrao mancherà moltissimo.
Paolo Franchi
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GIOVANNA CAVALLI, CORRIERE DELLA SERA –
«No, uno come lui non ci sarà più. Era un combattente, un leader. Però non ha mai pensato che rappresentare la maggioranza significasse avere sempre e comunque ragione. Pietro possedeva una dote umana rara: sapeva e amava ascoltare i pareri degli altri. Ti domandava sempre: ma tu come la vedi, tu che faresti?».
Luciana Castellina, 86 anni, ex deputata ed ex ingraiana, scrittrice, cofondatrice de il Manifesto risponde da Barcellona («Siamo qui in una fabbrica dismessa a seguire le elezioni catalane, oh, aspetti che devo tirare su una bambina che è scivolata correndo, ha un anno e mezzo: è la nipotina di Enrico Berlinguer»).
Una volta, una importante, siete stati quasi nemici. Nel 1969 il comitato centrale del Pci propose la sua radiazione, con il gruppo de il Manifesto: Natoli, Rossanda, Pintor, Magri. E Ingrao votò per il sì.
«Fu una rottura importante. Ce ne andammo. Pietro era convinto che bisognasse restare “nel gorgo”, non isolarsi dal grosso del popolo».
Avrebbe dovuto seguirvi?
«Impensabile, sarebbe stato un gesto troppo forte, noi invece eravamo giovani e con meno responsabilità».
Gli portò rancore per quell’esilio dal partito?
«Rancore mai. Ci furono momenti di freddezza, di tensione. Qualche anno più duro, poi un po’ alla volta ci siamo riavvicinati. L’amicizia, vera, non si è mai interrotta».
Vi siete ritrovati nella battaglia contro lo scioglimento del Pci. Riuniti dalla celebre Mozione 2 .
«Nel frattempo, dopo 15 anni, fallita la politica del compromesso storico, Berlinguer ci aveva invitato a rientrare. Perdemmo, si sa. Abbiamo poi condiviso le battaglie del movimento pacifista. Newsweek scrisse che eravamo la terza potenza mondiale. Forse non era vero e comunque non bastò».
Se va indietro nel tempo se lo ricorda quando.. .
«Quando io e Alfredo Reichlin ci sposammo e lui ci fece da testimone. Era il 1953, al Comune di Roma, officiava Aldo Natoli, ho ancora le foto. Pietro ci regalò un disegno di Guttuso, raffigurava una capra. Ce l’ha Alfredo da qualche parte».
Lei, per i suoi 50 anni, gli fece un presente particolare.
«Lui era molto sobrio nel vestire, portava solo scarpe con i lacci. Io e Sandro Curzi gli comprammo un paio di mocassini, non li aveva mai portati. Con un biglietto: “Cammina coi tempi, cammina con noi”».
E ne fu contento?
«Se li è messi tanto».
A marzo ne compì 100 e lei gli ha dedicato un lungo ricordo su « il manifesto» .
«Ci siamo visti fino a pochi mesi fa. Si parlava di politica. Era molto polemico con il Pd, con quello sguardo più lungo che hanno le persone anziane. Il suo dispiacere era che si fosse dispersa la grande forza del vecchio Pci».
Il nuovo che è avanzato non gli piaceva?
«No. Gli ingraiani erano i rinnovatori, ma questo è solo la reinvenzione della Dc».
Giovanna Cavalli