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 2015  settembre 26 Sabato calendario

SORPRESA DI NATALE?

«La maggioranza dei membri del Fomc, me compresa, al momento ritiene probabile un iniziale aumento dei tassi d’interesse entro la fine dell’anno». Lo ha detto rantolando la numero uno della Federal Reserve, Janet Yellen, giovedì 24 settembre, a borsa già chiusa, dopo aver letto per oltre 50 minuti una sua dotta dissertazione su Le dinamiche dell’inflazione e la politica monetaria (per fortuna si è trattato di un malessere passeggero).
Il giorno dopo i mercati azionari hanno salutato le sue parole con un deciso rimbalzo. La settimana precedente erano entrati in agitazione perché la Fed non aveva alzato il costo del denaro dando addirittura l’idea che il rinvio avrebbe potuto durare a lungo. Ma siamo davvero sicuri che la Fed a dicembre metterà fine alla politica dei tassi zero cominciata nel lontano dicembre 2008? Non ne è affatto convinto John Briggs, capo strategist di Rbs, che ha sottolineato come a fine agosto il vice della Yellen, Stanley Fischer avesse fatto un discorso analogo al simposio di Jackson Hole e poi, due settimane dopo, la Fed aveva mantenuto i tassi invariati. «Per questo mi trovo ad avere poca fiducia nel fatto che le ultime dichiarazioni della Yellen saranno coerenti con quello che deciderà la Fed a fine ottobre o a metà dicembre. A questo punto credo nelle loro azioni, non nelle loro parole». Un modo neanche tanto velato per dire che la Fed sta perdendo credibilità. Certo, a corroborare il rimbalzo dei mercati di venerdì 25 è poi arrivata la revisione al rialzo del pil Usa nel secondo trimestre dal 3,7 al 3,9%. Ma lo stesso giorno è arrivato un vero e proprio avvertimento dalla Banca d’Inghilterra (BoE), che ha sottolineato come le minacce per la stabilità finanziaria siano aumentate in gran parte a causa del rallentamento economico della Cina e dei mercati emergenti. C’è inoltre il rischio di fughe di capitali legate alle «divergenti prospettive di politica monetaria» e alla possibilità dell’aumento dei tassi da parte della Fed. La BoE, insomma, ha voluto ribadire che le preoccupazioni espresse la settimana precedente dalla Fed sulle conseguenze negative che avrebbe avuto sulle economie emergenti un aumento del costo del denaro, continuano a sussistere. Subito alcuni commentatori avevano parlato di terzo mandato della Fed, ovvero quello di assicurare la stabilità finanziaria globale. La cosa non era piaciuta a qualche nostalgico di John Connally, segretario al Tesoro Usa nel 1971, che quando l’allora presidente Richard Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro disse ai rappresentanti degli altri Paesi: «Ora il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema». Un rialzo dei tassi sarebbe la prova definitiva che l’economia Usa è forte e ormai può stare in piedi da sola, senza l’aiuto delle varie droghe della Fed. L’importante è trasmettere al mondo questo messaggio, quando mai gli Usa dovrebbero preoccuparsi dei danni collaterali delle loro azioni? Sarebbe un atto di lesa maestà. Per placare gli animi di chi ha manifestato queste perplessità, nel suo discorso del 24 la Yellen ha sottolineato che gli sviluppi all’estero al momento non hanno un impatto significativo sulla politica monetaria. Di certo, però, le sue parole hanno avuto un grande impatto sui Paesi emergenti: subito il ringgit malese e la rupia indonesiana sono scese ai minimi sul dollaro dal 1998, l’anno della crisi asiatica, mentre il Brasile si trova schiacciato tra una valuta mai così debole, tassi d’interesse al 14,25% e un pil che scende più del 2%. E però ammettiamo pure che abbia ragione chi non si preoccupa dei danni collaterali. Resta il fatto che l’inflazione è lontanissima dall’obiettivo del 2% (ad agosto era allo 0,2%). Nella sua lunga analisi, la Yellen ha ricordato che dal 2008 l’inflazione è rimasta molto al di sotto del target fissato. Come dire che la politica dei tassi zero e ben tre Qe non sono serviti a niente, almeno su questo fronte. E anche le ultimissime indicazioni non fanno presagire niente di buono: Chris Williamson, capo economista di Markit, ha messo in evidenza che l’indice Pmi servizi, nella lettura preliminare di settembre, si è attestato a 55,6 punti, segnalando una «sostenuta e stabile espansione dell’economia americana alla fine del terzo trimestre, ma vari campanelli d’allarme sembrano farsi ora più forti». Williamson ha osservato che «i prezzi medi di beni e servizi stanno scendendo al tasso più rapido da fine 2009, suggerendo che i prezzi al consumo rimarranno deboli nei prossimi mesi» e questo contribuisce a «ridurre le possibilità di un rialzo dei tassi nel breve termine». La Yellen sostiene però che se si aspettasse il raggiungimento della piena occupazione e dell’obiettivo di un’inflazione al 2% prima di alzare i tassi, si correrebbe il pericolo di dover attuare una stretta monetaria troppo brutale per impedire il surriscaldamento dell’economia. Pertanto, «la strategia più prudente è cominciare a stringere nel momento giusto e a un ritmo graduale, aggiustando la politica, se necessario, alla luce dei dati economici in arrivo».
Ma questa è teoria: i fatti dicono che l’inflazione resta a distanza siderale dall’obiettivo del 2% e rischia di allontanarsi ancora di più con un rialzo dei tassi che rafforzerebbe ulteriormente il dollaro. Nel frattempo il governatore della Banca centrale lituana, Vitas Vasiliauskas, ha dichiarato che la Bce aspetterà la riunione del 3 dicembre per discutere di un aumento del Qe. Secondo Rbs gli acquisti di bond potrebbero passare dagli attuali 60 miliardi di euro al mese a 90 miliardi entro la fine dell’anno. Una mossa quasi obbligata per non far rafforzare l’euro nel caso in cui la Fed decidesse di soprassedere all’aumento dei tassi.
Marcello Bussi, MilanoFinanza 26/9/2015