Maria Pia Fusco, il venerdì 25/9/2015, 25 settembre 2015
LA FABBRICA DEI SOGNI
ROMA. «Quando da ragazzo mi chiedevano cosa vuoi fare da grande io non rispondevo il regista. Dicevo: voglio studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Sapevo tutto: mi ero abbonato a Bianco e Nero, il mensile del Centro, lo divoravo, c’erano stati Antonioni, Germi, De Santis, Bellocchio, mi sembrava la strada obbligatoria per arrivare al cinema. Ma vivevo a Catanzaro e trasferirsi a Roma costava...». Cifre impossibili per la famiglia Amelio, e così Gianni Amelio al cinema ci arrivò grazie a Vittorio De Seta, che lo accettò come assistente. Ma anche se del Centro non è mai stato allievo, il regista calabrese ci è entrato come docente di regia. Nel 1982, quando, dopo la presentazione di Colpire al cuore a Venezia, lo chiamò il critico Lino Miccichè, che era nel consiglio di amministrazione. «Doveva essere un anno, sono diventati quattro: un periodo in cui non ho fatto altro, ma solo il docente di regia. Anni che mi sono serviti perché ho acquisito una grande sicurezza. Tanto che quando sono tornato sul set il capomacchinista, lo stesso di Colpire al cuore, m’ha detto “Ahò, me pari Monicelli”. Da allora ho interrotto solo per brevi periodi, per il resto ho sempre insegnato».
Un’esperienza che Amelio racconterà in un libro. «Uscirà alla fine di quest’anno, l’ho scritto a quattro mani con Francesco Munzi, il mio vero allievo, quello che si è ritrovato in me e io in lui, c’è un’affinità totale, anche dai suoi film si intuisce. Il libro si chiama L’ora di regia e racconta il Centro dal punto di vista di un docente e di un allievo diventato un grande regista» dice Amelio, «la verità è che dagli anni 70 la tv ha preso il sopravvento nell’immaginario di tutti, spettatori e futuri cineasti. Il mito del cinema non esiste più, non si parla più di cinepresa ma di telecamera, si gira con i telefonini...».
Il Centro quest’anno compie 80 anni: «I cambiamenti si impongono, c’è la necessità di gestire i nuovi linguaggi» dice lo sceneggiatore Stefano Rulli, che dalla fine del 2012 è presidente della Fondazione che comprende sia il Centro Sperimentale che la Cineteca Nazionale. «Sembrano due corpi separati, in realtà sono connessi, perché insieme alla formazione di nuovi autori dobbiamo formare anche un nuovo pubblico, e per questo la Cineteca è essenziale, con il suo patrimonio di 100 mila pellicole. È importante la conservazione e stiamo facendo uno sforzo enorme per accelerare il processo di digitalizzazione, ma ancora più importante è la diffusione, i nostri interlocutori sono gli italiani: se la nostra cinematografia non arriva ai giovani, perde ogni valore di conoscenza, di sperimentazione, di memoria. Adesso la nuova legge sulla scuola prevede per la prima volta in modo ufficiale il cinema in classe, si apre uno scenario importante e la Cineteca è tra i soggetti del progetto».
Il Centro Sperimentale oggi ospita 300 allievi, 200 a Roma, gli altri nelle quattro sedi periferiche: a Torino dove si insegna animazione, a Palermo dedicata al documentario di narrazione, all’Aquila per i reportage giornalistici, a Milano legata al cinema dell’industria, promozione, pubblicità. «Negli ultimi due, tre anni, abbiamo dovuto ripensare a livello didattico il concetto di autore di cinema, ormai si parla di autore di audiovisivo, anche se per me è una brutta parola. Dobbiamo formare i ragazzi in modo che siano in grado di girare un lungometraggio, un corto, una serie tv, e anche una serie web. E soprattutto si è accentuato il passaggio dalla teoria alla pratica. Abbiamo portato gli allievi nel carcere di Sollicciano, hanno fatto interviste, girato immagini e con Daniele Segre hanno montato il materiale, è venuto un film di un’ora, Sbarre, trasmesso dalla Rai. Il documentario per gli 80 anni è stato realizzato con la supervisione di Amelio e di Roberto Perpignani e adesso gli studenti di sceneggiatura e regia stanno lavorando alla prima web serie realizzata dal Centro, 12 puntate di 4 minuti l’una, su come gli adolescenti guardano i comportamenti educativi dei genitori. È un modo di confrontarsi con un’esperienza sul campo, concreta».
Cambia la didattica, nei contenuti e nelle modalità. I metodi e i criteri di accesso non sono più quelli affrontati da alunni come Michelangelo Antonioni (giudicato «un elemento di prim’ordine») e Steno, Marco Bellocchio e Vittorio Storaro, Claudia Cardinale e Raffaella Carrà e Carlo Verdone. La lista di celebrità è infinita, da queste aule è passato anche Gabriel García Márquez, che però abbandonò la Scuola scrivendo una lettera di protesta. «Una volta al candidato si richiedeva un soggetto, oggi un filmino sotto i dieci minuti che possono fare anche con il telefonino» dice Amelio, che però mette in guardia gli aspiranti registi: «Le nuove tecnologie a volte mortificano il pensiero. Se non si impara a “conoscere” a fondo il soggetto da riprendere – che sia una persona o un oggetto – la facilità diventa faciloneria, si fotografa ma non si racconta. E questo non è cinema».
Anche l’umanità dei giovani – i limiti di età sono tra o 21 e i 27 anni – è cambiata. Amelio ha un metodo personale durante le selezioni: «Le prime domande sono “che fanno i tuoi genitori”, “da dove vieni”, “dove abiti, in un paesino vicino Enna o a via Montenapoleone?”. E a parità di possibile talento scelgo il ragazzo di Enna, perché lo sforzo e i sacrifici che farà per mantenersi a Roma sono il segno di un desiderio forte. In realtà oggi nei registri dei candidati la professione del padre è impiegato, avvocato, comunque un medio professionista. I figli del proletariato, come si diceva una volta, non ci sono più. E sono diminuite le presenze femminili, non so perché, è come se nel campo del cinema le ragazze si siano stancate di lottare per fare un lavoro tradizionalmente maschile. Ci sono stranieri, russi, cinesi, sudamericani, ma intere regioni italiane non sono rappresentate. Una curiosità di quest’anno: c’era una clamorosa presenza di domande dalla provincia di Salerno. È l’effetto Giffoni, un festival che da decenni coinvolge i giovanissimi sollecitando amore per il cinema».
Sia Gianni Amelio che Stefano Rulli sottolineano degli allievi, a parte l’assenza di memoria sul cinema, un diverso approccio allo studio. «Siamo invasi da ragazzi che, dopo aver tentato tante strade, provano anche il Centro. Non c’è più quella che una volta chiamavamo vocazione, il cinema si affronta anche con serietà, ma è solo una delle possibilità di futuro. Non è colpa loro, è la sperdutezza che segna il nostro tempo». Entrambi però sono fieri del prestigio che il Centro mantiene: «Come Cinecittà. Il nostro patrimonio, i grandi nomi che sono usciti dal Centro, la seconda scuola di cinema del mondo, è sempre riconosciuto all’estero» dice Rulli. E un motivo d’orgoglio è stata la presenza degli italiani all’ultima Mostra: a rappresentare il Centro c’erano tre generazioni: Bellocchio, Gaudino, Messina. E Munzi in giuria.
Maria Pia Fusco