Davide Vannucci, il venerdì 25/9/2015, 25 settembre 2015
IL TAGIKISTAN TAGLIA LE BARBE E STRAPPA I VELI
Potrebbe sembrare una disputa personale, ma è molto di più: da una parte Emomali Rahmon, presidente e padrone del Tagikistan, dall’altra Abduhalim Nazarzoda, ex viceministro della Difesa. All’inizio di settembre, infatti, un gruppo armato di ribelli ha preso d’assalto due uffici governativi nella capitale, Dušanbe, e nella vicina Vahdat. Negli scontri a fuoco sono morte 22 persone. Il presidente ha accusato Nazarzoda di essere il regista degli attacchi, che porterebbero la firma del Partito della Rinascita Islamica, l’unico movimento di opposizione del Paese, messo fuori legge a fine agosto, al quale l’ex viceministro avrebbe aderito.
Sebbene gli osservatori parlino di una recrudescenza della lotta per il potere, la questione si inserisce in un contesto più ampio, quello delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, in cui ai tempi dell’Urss vigeva l’ateismo di Stato. Adesso l’Islam, praticato dalla grande maggioranza della popolazione, ma estremamente regolamentato nelle sue forme confessionali dai governi, sta prendendo corpo nella sua versione più radicale. Secondo l’International Crisis Group, negli ultimi tre anni un buon numero di persone, tra 2.000 e 4.000, ha compiuto il viaggio sulla rotta Tagikistan-Siria. Ma al di là dei combattenti tagiki nei territori in mano allo Stato Islamico – circa 300, secondo il governo – preoccupa soprattutto il progetto di instaurare un Califfato nel territorio storico del cosiddetto Khorasan: Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan.
Per togliere manovalanza al Califfo, Rahmon ha messo nel mirino il mondo islamico locale. Ai minori è stato proibito l’ingresso nelle moschee. Migliaia di studenti che frequentavano istituti musulmani all’estero sono stati richiamati in patria, per essere controllati con più attenzione. La polizia ha forzato alcuni tagiki a tagliarsi la barba. Il presidente ha criticato l’uso del velo, che è stato bandito dalle scuole, e alcuni negozianti che vendevano hijab sono stati minacciati.
Il problema è regionale, perché l’Is ha lanciato una campagna di reclutamento in Oriente, a partire dall’Afghanistan, un Paese che condivide con il Tagikistan un poroso confine di 840 miglia. E i ceceni affiliati al Califfo stanno reclutando migranti dell’Asia centrale, tagiki compresi, che lavorano a Mosca. Si avvicinano ai cantieri edilizi, o alle moschee, parlando dello sfruttamento a cui gli immigrati sono sottoposti e offrendo condizioni economiche decisamente più vantaggiose, nel nuovo Stato Islamico. Così è stato reclutato Nusrat Nazarov, che adesso da Raqqa, in Siria, guida la divisione tagika del Califfo. In un video postato a marzo, Nazarov ha promesso di portare il jihad in patria. La minaccia è concreta, e la Russia ha promesso al Tagikistan 1,2 miliardi di aiuti militari. La chiamata del Califfato può apparire attraente, rispetto alla dura vita dell’era post-sovietica.
Rahmon, intanto, continua la propria battaglia culturale. Tempo fa il parlamento, una sorta di simulacro alle sue dipendenze, ha discusso una legge che bandiva i nomi «alieni alla cultura locale», tra cui quelli di origine araba. La norma non è retroattiva, ma alcuni deputati hanno già chiesto di passare a nominativi di comprovata origine tagika. Per coerenza, dovrebbe farlo anche il presidente, visto che Emomali è una traslitterazione di «Imam Ali», genero di Maometto, capostipite degli sciiti.