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 2015  settembre 25 Venerdì calendario

UN RITO IDENTITARIO CHE NON SI FERMERA’ – 

La strage di fedeli nella ressa che da tempo caratterizza lo hajj, il pellegrinaggio che costituisce uno dei cinque “pilastri” dell’Islam, è avvenuta a Mina, piccola città sulla strada che conduce da la Mecca alla piana di Arafat. Una città vuota, che si anima solo durante il pellegrinaggio, da qualche decennio davvero di massa, diventando un immensa tendopoli. Qui avvengono una serie di riti che rimandano alla figura e alla storia di Abramo, almeno nella tradizione fatta propria dai musulmani.
Rimanda a Abramo anche uno dei riti più noti dello hajj, le circumambulazioni della Ka’ba, l’edificio meccano nel quale è racchiusa la Pietra Nera, che secondo la credenza è stata ricostruita dal patriarca di tutte le fedi monoteiste dopo il Diluvio. Così come il lancio di pietre che avviene a Mina che rievoca il sacrifico di Isacco.
Un sacrificio, quello che Abramo stava per compiere, ostacolato per ben tre volta da Satana, che voleva per il padre costretto a quella tremenda prova da Dio, un’altra sottomissione. E proprio la resistenza a quelle tentazioni, rappresentate dalle tre stele erette a Mina sulle quali i pellegrini gettano piccole pietre tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del mese di dhu al
Hijja, ultimo mese dell’anno lunare musulmano, intende ricordare il rito della lapidazione. La prima lapidazione ha luogo il decimo giorno del mese, noto comunemente come il “Giorno del Sacrifico”, perché i fedeli procedono all’immolazione delle vittime sostitutive animali. Essi sono giunti nella città due giorni prima e il mattino successivo sono partiti per Arafat, dove rimangono in preghiera fino al calar del sole. Nel Giorno del Sacrifico, dopo essere tornati a Mina, procedono alla lapidazione della stele circondata da un muretto: i pellegrini lanciano contro la colonna di pietra sette sassolini raccolti in precedenza, pronunciando la formula: «In nome di Dio. Dio è il più grande!».
L’assembramento che si crea attorno alla stele, spesso formato da centinaia di migliaia di persone, provoca regolarmente incidenti, spesso dilatati dall’effervescenza collettiva che emana dalla cerimonia, caratterizzata da una ritualità forte, che esalta la comune e egualitaria appartenenza alla fede, simboleggiata dalle vesti bianche che ciascuno, ricco o povero, indossa. Dopo il rituale sacrificio degli animali, il pellegrino abbandona l’ hiram , lo stato di sacralizzazione che deve osservare sin dall’ottavo giorno e che gli vieta di radersi, tagliare i capelli, cacciare o avere rapporti sessuali: quest’ultima proibizione sarà eliminata del tutto solo dopo che il pellegrino avrà compiuto il tawaf , il giro attorno alla Ka’ba. Nei due giorni successivi, di festa, i pellegrini tornano a Mina per “lapidare” ognuna delle tre stele. Le lapidazioni del tredicesimo giorno, però, non sono obbligatorie e molti ne approfittano per recarsi a Medina, l’altra città sacra che ha dato forma al mito di fondazione dell’Islam, prima che le immense folle di pellegrini la invadano.
È durante questo enorme rito collettivo identitario che è lo hajj , che hanno perso la vita, a consolazione avvenuta nei luoghi sacri, oltre settecento persone. Un rito, talmente penetrato nella spiritualità islamica, che nemmeno il rischio che ciascun pellegrino sa di correre nel momento in cui accetta di spogliarsi degli abiti e del suo status per indossare i due tradizionali panni bianchi, per immergersi nella sterminata folla che per giorni percorre la Mecca e i suoi dintorni, può scoraggiare. L’Islam ha una ritualità forte e, in particolare nei riti collettivi, dalla preghiera del venerdì a mezzogiorno al digiuno di Ramadan sino al pellegrinaggio, mostra tutta la sua forza comunitaria. Nessun incidente, pur di colossali dimensioni, potrà fermare la volontà di adempiere ai precetti dell’Islam. Il titolo di hajj , che spetta a ciascun credente che abbia fatto il pellegrinaggio, rafforza un’identità religiosa che nessun timore di morire nella folla può vanificare.