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 2015  settembre 25 Venerdì calendario

SE IL CREDITO LATITA È ANCHE PER I RATING INTERNI DELLE BANCHE

Dopo mesi di strumenti come Tltro e Quantitative easing, volti ad aumentare la disponibilità di credito, si scopre che all’economia reale e alle pmi non sono arrivati soldi in più. In parte è ancora colpa della crisi: prima che il cavallo riprenda a bere, nel passaggio dal Pil in contrazione a quello in lieve crescita, deve passare ancora un po’ di tempo.
Ci sono però anche ragioni strutturali per cui l’enorme liquidità ai piani alti non allevia la siccità nei campi. La prima ragione è il maggiore fabbisogno di capitale regolamentare di tutte le banche per fare credito. La cura ricostituente è stata imposta dall’esterno, da Banca d’Italia e dalla Bce di Mario Draghi, e le banche possono farci poco; prima di riaprire il portafoglio agli altri, devono sistemare i loro problemi, più o meno seri. La seconda ragione, invece, è tutta interna alle banche, che hanno sviluppato i loro sistemi di rating per valutare, in modo prevalentemente automatico e quantitativo, le aziende clienti. Al rating interno, associato a ogni cliente, corrisponde anche un determinato livello di tassi di interesse che il debitore dovrebbe pagare. Tutto si basa sulle serie storiche delle perdite sui crediti andati in default; crediti che, nel recente passato, hanno segnato le peggiori performance degli ultimi decenni. È un sistema che non ha saputo prevedere la crisi, né ha fatto accantonare abbastanza quando il credito era sin troppo facile; ora tenta di prevedere il futuro, guardando ai buoi già scappati dalla stalla. Ma i buoi o i cavalli che oggi sono ancora sul mercato, sono evidentemente assai diversi da quelli scappati cinque o dieci anni fa. Un sistema che non funziona ai fini commerciali. Infatti oggi anche alle migliori pmi sopravvissute alla crisi, il rating interno richiede dei tassi alti, che servono alla banca per rifarsi delle perdite subite (o previste) sui clienti problematici. È evidente che un impresa di buona qualità non accetta l’idea di farsi carico di un costo di credito statistico aggiuntivo, dovuto a un campione storico di riferimento che include aziende assai più rischiose della sua. In alcuni casi riuscirà a forzare il tasso risultante dal rating, facendo pesare le proprie relazioni. Più spesso tenderà a non utilizzare il credito che ritiene troppo oneroso o a ridurre gli investimenti rispetto a quanto avrebbe fatto con condizioni migliori. Dall’altro lato, le banche aumenteranno la proporzione di esposizione verso chi del credito non può proprio fare a meno; incassando tassi più alti, ma anche con alti rischi sul credito. I sistemi di rating interni diventano quindi elementi prociclici e potenzialmente distorsivi. Prima della crisi hanno fatto accantonare poco, dopo la crisi stentano in concreto ad allocare il capitale con le dovute differenze di prezzo tra crediti buoni e mediocri. Una cosa è utilizzare i sistemi di rating ai fini interni di controllo; altro dovrebbe essere la strategia commerciale del banchiere sul mercato reale. Una differenza che passa anche dalla composizione dei vertici della banche e degli stessi organi di vigilanza, che forse oggi, nella maggior parte, sono composti da esperti di organizzazione, risk-management, pianificazione e controllo. Meno rappresentate, invece, la sensibilità ed esperienza di chi ha conosciuto davvero il mercato e i clienti.
MilanoFinanza 25/9/2015