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 2015  settembre 25 Venerdì calendario

Renoir, Modí, Picasso: dall’America arrivano cinquantadue capolavori A Palazzo Ducale le opere del Detroit Institute of Arts che vanno dagli impressionisti al ’900 Il curatore Salvador Salort-Pons: “In filigrana la mostra è anche una storia del filantropismo Usa” Elena Del Drago È Genova, e il suo Palazzo Ducale, la città prescelta per l’unica tappa europea di un prestito notevole di capolavori, per una volta la definizione è quanto mai appropriata, volto a far conoscere la collezione del Detroit Institute of Arts

Renoir, Modí, Picasso: dall’America arrivano cinquantadue capolavori A Palazzo Ducale le opere del Detroit Institute of Arts che vanno dagli impressionisti al ’900 Il curatore Salvador Salort-Pons: “In filigrana la mostra è anche una storia del filantropismo Usa” Elena Del Drago È Genova, e il suo Palazzo Ducale, la città prescelta per l’unica tappa europea di un prestito notevole di capolavori, per una volta la definizione è quanto mai appropriata, volto a far conoscere la collezione del Detroit Institute of Arts. La mostra, «Dagli Impressionisti a Picasso», permette proprio di comprendere l’eccezionalità di questa istituzione americana attraverso il livello delle opere selezionate. Ne abbiamo parlato con il direttore appena insediato, Salvador Salort-Pons. Si resta stupiti nel vedere l’eccezionalità delle opere selezionate, come si è formata una collezione così prestigiosa? «La collezione del Detroit Institute of Arts, come quella di quasi tutti i musei americani, è stata realizzata attraverso le donazioni di quadri e sculture. Ma altre volte la donazione consisteva in un fondo utilizzato per acquistare alcune opere secondo i desideri dei curatori. Il museo vero e proprio è nato alla fine dell’Ottocento, precisamente nel 1885 quando, dopo una grande mostra internazionale, i cittadini più importanti hanno deciso di fondare un’istituzione perché divenisse il centro culturale della città». Dopo molti decenni di prosperità, l’Institute of Arts, come la città di Detroit d’altronde, ha attraversato un periodo davvero critico: sembrava che si dovesse arrivare a vendere la collezione. «Sì, il museo ha vissuto un periodo molto duro economicamente e appariva probabile la vendita della sua collezione. Poi una cordata costituita in primis da aziende automobilistiche come la Chrysler, la Ford e la Gm hanno permesso di evitare la dispersione di questo patrimonio. Ciò che voglio però sottolineare è lo sforzo fatto da tutti perché non accadesse, dallo Stato del Michigan a cittadini privati: si è trattato davvero di un movimento collettivo impressionante. E questo racconta quanto la città di Detroit senta come parte integrante l’Institute of Art». La collezione del Museo è notevole anche come numero di opere, circa sessantamila. Quali sono i periodi storico artistici meglio rappresentati? «È una collezione enciclopedica e i nuclei più importanti sono quelli che riguardano l’arte europea e quella americana. Va ricordato che quasi tutte le opere sono state donazioni: quando donne e uomini, famiglie di grandi imprenditori, sono arrivate al successo, hanno avuto il senso civico di restituire alla città, ciò che questa ha dato loro». Non sarà stato facile, dunque, selezionare, le 52 opere da inviare a Genova. «Non troppo difficile in fondo perché abbiamo scelto circa 52 dipinti che rappresentano i capolavori assoluti della nostra collezione! Si tratta di opere databili dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento, opere chiave, capaci di raccontare allo stesso tempo uno sviluppo storico artistico cronologico che in mostra è particolarmente evidente, con una successione che procede appunto dall’impressionismo e arriva alla genialità di Picasso passando per Cezanne e le avanguardie, ma nello stesso tempo la grandezza e la specificità del collezionismo americano. Quadri come l’Autoritratto di Van Gogh o La Finestra di Matisse sono stati i primi quadri di questi autori ad entrare in una collezione americana». Possiamo sapere chi è stato il collezionista che ha avuto tanto occhio? «Sono stati donati da Ralph Booth, magnate nel campo dell’editoria. Ma più in generale sono moltissimi i quadri acquistati in Europa, mentre altri sono arrivati sempre dal Vecchio Continente, ma in maniera davvero rocambolesca, come le opere degli espressionisti tedeschi: mentre in Germania, durante il Nazismo, erano considerati degenerati e rischiavano di essere distrutti, l’allora direttore dell’Institute of Arts, William Valentiner, riuscì a portarli via, alcune volte nascondendoli nella sua valigia!». A Valentiner si deve anche la sopravvivenza di un’opera fondamentale del museo… «Si, certo, il murale realizzato da Diego Rivera è l’opera più importante di questo artista in America del Nord, la sua cappella Sistina. È cruciale non soltanto da un punto di vista artistico, ma anche storico: fotografa la storia di Detroit nel 1932. Fu Edsel Ford, il grande industriale, a commissionare l’opera, ma quando scoppiò lo scandalo per i temi trattati, considerati troppo di sinistra, fu Valentiner a difenderlo. Sebbene lui fosse esperto di arte antica, conosceva bene anche la produzione contemporanea e il suo valore». Le opere resteranno in Italia per un periodo molto lungo. Come mai? «Perché dopo i tempi difficili che il museo ha vissuto negli anni scorsi abbiamo deciso di ringraziare chi ci ha appoggiato ai tempi della bancarotta: abbiamo ricevuto grande solidarietà, a cominciare proprio dall’Italia». La collezione continua ad arricchirsi sempre attraverso le donazioni? «Sì, anche se la città di Detroit non è più ricca come prima! Riceviamo comunque ancora donazioni, recentemente un’opera di Frans Snyders, pittore fiammingo, molto bello. Credo che anche in futuro sarà così, perché questo è lo spirito del museo. Tutta la sua storia è anche un racconto in filigrana della filantropia americana: soltanto la responsabilità civica di restituire ciò che si è preso dalla città, ha reso possibile di creare queste collezioni».