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 2015  settembre 24 Giovedì calendario

LA RIVOLUZIONE COMINCIA DA UN BACIO


[Giuliano Sangiorgi]

Il nuovo album dei Negramaro, in uscita il 25 settembre, ha un titolo che sembra fatto apposta per richiamare facili domande: La rivoluzione sta arrivando. Ovvio che un’intervista a Giuliano Sangiorgi, 36 anni, leader del gruppo pugliese, cominci con: quale rivoluzione? Contro chi? Per che cosa? E via di seguito, lungo il filo del prevedibile.
Ma, se rivoluzione deve essere, che sia.
Sangiorgi, lei è davvero pronto a ribaltare tutto nella sua vita?
«E la domanda che chiude il brano che ha dato il titolo all’album. Alla fine io urlo: sei pronto?».
Che risposta dà a se stesso?
«Credo di sì, credo di esserlo. C’è qualcosa che profondamente, dentro di me, mi chiede di muovermi. Di fare la mia parte».
Quale sarebbe?
«Per esempio scrivere una canzone che apre delle domande: che cosa va cambiato? E come? Credo che ci siano un’infinità di piccole cose che possiamo rivoluzionare in ogni nostro giorno, in ogni gesto o decisione. C’è un altro brano sempre nel nuovo album, che invita a salvare la Terra. Un posto che non si ferma mai, che gira anche se è stanco e che non possiamo lasciare andare a rotoli, con la nostra incuria, con la nostra violenta sciatteria».
Lei può fare la sua parte scrivendo e cantando. Le persone qualunque che cosa possono fare?
«Io sono una persona qualunque».
In che cosa?
«Per esempio nel dolore. Ho perso mio padre poco prima di scrivere questo album. Ho incontrato il nero della vita. E pensavo che non mi sarei risollevato mai più. Sapevo che la morte è la fine naturale di tutti, ma non riuscivo ad accettarla, a contenerla. Poi una mattina mi sono svegliato con una sofferenza enorme addosso e con parole precise in testa. Ho preso carta e penna: ho cominciato a scrivere. È nata Lo sai da qui. È come se le parole me le avesse dettate mio padre. Era lui che mi diceva: “Stai lì, continua a vivere. Se potessi, lo farei anch’io. Se potessi avere gambe invece che ali, camminerei volentieri di nuovo sulla Terra”. Lui era così: attaccato al mondo, alla realtà. Mi stava dicendo che vale la pena di dare il valore giusto alla vita. E a tutto quello che c’è: a te stesso e agli altri».
Come si fa a dare il valore giusto agli altri?
«Basta guardarli come se fossi tu. In questo periodo siamo stati torturati da immagini atroci di profughi in fuga. Io penso che il modo migliore per aiutarli sia cominciare a portarli dentro di sé. Il bambino morto sulla spiaggia di Bodrum non è mio figlio: sono io. Il padre che corre cercando di mettere in salvo un figlio, non è mio padre: sono io. Sono io che scappo. Sono io che ho fame. Sono io che ho paura. Sono io che vengo respinto con gli idranti. Io che passo sotto il filo spinato. Se non proviamo a identificarci con questo dolore, resterà lontano. Incomprensibile».
Pensa che ci siano tante persone disposte a identificarsi con i profughi?
«Sono stanco di parlare male degli uomini. Siamo noi che commettiamo cose terribili. Ma siamo sempre noi a salvarci. Sì, sono convinto che l’umanità salverà se stessa. Anche se in certi momenti sembra non essercene più traccia».
Lei come scrive le sue canzoni? Segue le parole oppure le cerca?
«Io non prendo mai la chitarra, non mi metto mai al pianoforte, per suonare “qualcosa”. Se lo faccio, è perché sento che sta arrivando una canzone. E allora tutto succede in pochi minuti».
Si chiama talento.
«Non so. Credo che ci sia anche molta vita. In quello che scrivo c’è tutto quello che ho già scritto e già vissuto. Cose che non sapevo di sapere».
Le capita mai di spaventarsi per quello che scrive?
«Mi è successo con una canzone di questo album: Attenta. Era una dichiarazione di amore totale e definitivo. L’amore che sta dentro a un bacio, che per me è espressione di passione assoluta. Ho scritto: “Attenta, che ti uccido in questa stanza”.Volevo dire: “ti divoro d’amore”. Una frase in cui avevo messo tutto me stesso. Poi mi sono accorto che poteva essere equivocata: troppe donne muoiono sotto i colpi di uomini che le vogliono annullare. Non potevo accettare che la mia dichiarazione d’amore fosse accostata alla violenza. Ci ho pensato a lungo. Poi ho cambiato le parole: “ti uccido” è diventato “mi uccidi”».
Si può uccidere con un bacio?
«Oh, sì. Quando si fa l’amore, ci si può sfiorare in molti modi. Ma un bacio è un’altra cosa. È una magia. Un momento in cui ci si scambia il destino. È una cosa violenta, nel senso che è intensa».
Lei si ricorda tutti i baci che ha dato e preso?
«Sì. Anche se non so spiegare perché. Ne esco sempre tramortito. E ho provato a raccontare questa morte d’amore nella canzone».
Lei, come tutti gli artisti, ha il privilegio di trasformare le sue emozioni. E di “curarsi”con quello che fa. L’elaborazione del lutto per la morte di suo padre, divenuta una canzone, è un esempio.
«Un privilegio, sicuro. Ma anche una condanna. A volte mi sembra di sentire e vedere tutto. E allora ho l’impressione di vivere sempre sotto una luce violenta, di non trovare mai l’ombra e il riparo».
Lascio Sangiorgi chiedendogli se vuole sempre bene ai componenti del suo gruppo. E se i Negramaro, dopo quasi 15 anni insieme, si divertono ancora. «Se voglio loro bene? Sono la mia famiglia. Punto. E sì, certo che ci divertiamo: noi non stiamo insieme per suonare. Noi suoniamo per stare insieme».